L’innesto – Atto secondo

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Premessa e articolo di Antonio Gramsci
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – El injerto

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L innesto - Atto II
Compagnia teatrale “Amici della Prosa”, L’innesto, 2013. Immagine dal Web.

L’innesto
Atto Secondo

        Spiazzo innanzi alla villa Banti a Monteporzio. La villa si erge a sinistra, con vestibolo a loggiato. Infondo, e a destra, è tutto alberato. Autunno.

        Scena prima

        Laura e il Giardiniere Filippo.

        Laura è su una sedia a sdrajo, pallida, un po’ molle d’un languore ardente d’inesausta passione; presta ascolto con interesse e, insieme, con un certo turbamento che vorrebbe dissimulare, a ciò che le dice il vecchio giardiniere, il quale le sta presso, in piedi, con un sacchetto a tracolla, un fascetto di ra­moscelli sotto il braccio e l’innestatojo in mano.

        FILIPPO: Eh, ma l’arte ci vuole! Se non ci hai l’arte, signora, tu vai per dar vita a una pianta, e la pianta ti muore.

        LAURA: Perché può anche morirne, la pianta?

        FILIPPO: E come! Si sa! Tu tagli – a croce, mettiamo – a forca – a zeppa – a zampogna – c’è tanti modi d’innestare! – applichi la buccia o la gemma, cacci dentro uno di questi talli qua(mostra uno dei ramoscelli che tiene sotto il braccio); leghi bene; impiastri o impeci – a seconda – ; credi d’aver fatto l’innesto; aspetti… – che aspetti? hai ucciso la pianta. – Ci vuol l’arte, ci vuole! Ah, forse perché è l’opera d’un villano? d’un villano che, Dio liberi, se con la sua manaccia ti tocca, ti fa male? Ma questa manaccia… Ecco qua. (Va a prendere un grosso vaso da cui sorge una pianta frondosa, e la reca presso Laura.) Qua c’è una pianta. Tu la guardi: è bella, sì; te la godi, ma per vista soltanto: frutto non te ne dà! Vengo io, villano, con le mie manacce; ed ecco, vedi? (Comincia a sfrondarla, per fare l’innesto; parla e agisce, pren­dendosi tutto il tempo che bisognerà per compire l’azione.) pare che in un momento t’abbia distrutto la pianta: ho strappato; ora taglio, ecco; taglio – taglio – e ora incido – aspetta un poco – e senza che tu ne sappia niente, ti faccio dare il frutto. – Che ho fatto? Ho preso una gemma da un’altra pianta e l’ho innestata qua. – E agosto? – A primavera ventura tu avrai il frutto. – E sai come si chiama quest’innesto?

        LAURA (sorride, triste): Non so.

        FILIPPO: A occhio chiuso. Questo è l’innesto a occhio chiuso, che si fa d’agosto. Perché c’è poi quello a occhio aperto, che si fa di maggio, quando la gemma può subito sbocciare.

        LAURA (con infinita tristezza): Ma la pianta?

        FILIPPO: Ah, la pianta, per sé, bisogna che sia in succhio, signora! Questo, sempre. Che se non è in succhio, l’innesto non lega!

        LAURA: In succhio? Non capisco.

        FILIPPO: Eh, sì, in succhio. Vuol dire… come sarebbe?… in amore, ecco! Che voglia… che voglia il frutto che per sé non può dare!

        LAURA (interessandosi vivamente): L’amore di farlo suo, questo frutto? del suo amore?

        FILIPPO: Delle sue radici che debbono nutrirlo; dei suoi rami che debbono por­tarlo.

        LAURA: Del suo amore, del suo amore! Senza saper più nulla, senza più nessun ricordo donde quella gemma le sia venuta, la fa sua, la fa del suo amore?

        FILIPPO: Ecco, così! così! (Si sente da lontano, a destra, la voce di Zena, che chiama:«Filippo! Filippo!») Ah, ecco la Zena col suo figliuolo. Vado ad aprirle! (Corre via, tra gli alberi, a destra.)

        LAURA (resta assorta; poi si alza, s’appressa alla pianta or ora innestata, e mette il capo fra le sue fronde, ripetendo tra sé, lentamente, con angoscia d’intenso disperato desiderio): Del suo amore… del suo amore…

        Scena seconda

        Detti e la Zena.

        FILIPPO (dall’interno): E vieni avanti! che paura hai? (Rientra in iscena per la destra seguito dalla Zena, che veste a modo delle contadine della campagna romana.) Eccola qua. Si vergogna, scioccona.

        ZENA: No. Che m’ho da vergognare? Buon giorno, signora.

        LAURA: Buon giorno. (La guarda, forzandosi a dissimulare la disillusione.) Ah, sei tu la Zena?

        ZENA: Io, signora, sì. Eccomi qua.

        FILIPPO: Vedi come s’è fatta brutta e vecchia?

        LAURA: No, perché?

        ZENA: Siamo poveretti, signora.

        FILIPPO: Quanti anni hai? Non devi averne più di venticinque!

        ZENA: Tu mi guardi, signora? Eh, tu che non sai, hai forse ragione di meravi­gliarti. Ma tu, brutto vecchiaccio, che fai il signore qua in villa e sei tutto storto lì, che vuoi mettere? le fatiche tue con le mie?

        FILIPPO: Oh! oh! Gran fatiche, sì!

        ZENA: E cinque figliuoli, signora, chi li ha fatti? Li ha fatti lui?

        FILIPPO (accorgendosi soltanto ora): E come? Sei venuta senza il ragazzo? T’avevo detto di portarlo con te, che la signora voleva conoscerlo.

        ZENA: Non l’ho portato, signora.

        LAURA: Perché non l’hai portato?

        ZENA: Ma… perché mi lavora il ragazzo, col padre.

        FILIPPO: E non potevi chiamarlo un momento?

        ZENA: Già, davanti al padre,, per dirgli che la signora lo voleva qua?

        FILIPPO: E che c’era di male?

        ZENA: Dopo le chiacchiere che ci sono state?

        FILIPPO: Ma va’ là! Vuoi che tuo marito pensi ancora a quelle chiacchiere?

        ZENA: Non ci pensa, se qualcuno non ce lo fa pensare. – Ma poi che c’entra il ragazzo qua? – Tu che volevi dal ragazzo, signora? – Noi non n’abbiamo più parlato, da allora.

        LAURA: Lo so, lo so, Zena. T’ho fatto chiamare perché volevo io, ora, parlare con te. Da sola.

        ZENA: E di che?

        LAURA: Tu va’, Filippo; va’ per le tue faccende.

        FILIPPO: Vado, sì, signora. Ma la Zena, in coscienza – lasciamelo dire per il male che le voglio – la Zena… – io sono vecchio e so tutto, di quando lei era qua coi padroni antichi, che aveva appena sedici anni e il signorino non ne aveva neanche venti – non fu mai lei a parlare!

        ZENA: Ecco! La verità, signora!

        FILIPPO: Fu la madre, fu la madre.

        ZENA: Ma nessuno ci pensa più, adesso! Neppure mia madre!

        LAURA: Lo so, ti dico! Non è per questo, Zena. – Vai, vai Filippo.

        FILIPPO: Ecco, ecco, me ne vado, sì. – Scusami, signora, se ho parlato. Me ne vado. (Via per la sinistra.)

        Scena terza

        Laura e la Zena.

        ZENA (subito risentita): È forse venuto qualcuno a mia insaputa, signora, a par­larti di quel ragazzo?

        LAURA: No, Zena: nessuno, t’assicuro.

        ZENA: Signora, dimmelo! Perché una parola ebbi allora, quando avrei potuto approfittarmene, se non avessi avuto coscienza – io sola, sai? contro tutti! – e una parola ho anche adesso.

        LAURA: Ma no, no, non è venuto nessuno: stai tranquilla. È venuto in mente a me. Così. Perché mi sono ricordata che, prima di sposare, mi fu detto che mio marito, qua, in villa, da giovane…

        ZENA: Ma che vai pensando più, signora!

        LAURA: Aspetta. Io voglio sapere. Voglio parlare con te, Zena. Siedi, qua, ac­canto a me. (Indica uno sgabello.)

        ZENA (sedendo, impacciata): Ma sai che mi pare tu voglia parlarmi di un altro mondo, ormai, signora?

        LAURA: Sì, perché tu eri tanto ragazza, allora.

        ZENA: Oh, una ragazzaccia senza testa! E non ero mica così…

        LAURA: Me l’immagino. Dovevi esser bella.

        ZENA: Bruttaccia non ero.

        LAURA: Ed eri già fidanzata, è vero?

        ZENA: Sissignora. Con questo che ora è mio marito.

        LAURA: Ah!

        ZENA (con gli occhi bassi, alza un po’ le spalle e sospira): Eh, signora, che vuoi? (Breve pausa.)

        LAURA (quasi con timidezza): E lui lo sapeva?

        ZENA (impronta, ma senza impudicizia): Chi? Il signorino?

        LAURA: Sì; che eri fidanzata?

        ZENA: Sissignora, come non lo sapeva? Ma era un ragazzo anche lui, il signo­rino.

        LAURA: Sì, ma dimmi…

        ZENA: Signora, sono una poveretta; ma credi che se male feci allora, lo feci soltanto a me, e non volli che ne fosse fatto ad altri senza ragione!

        LAURA: Ti credo, Zena; lo so. Ma dimmi: ecco, io voglio sapere. «Senza ra­gione», hai detto. Ne eri proprio, dunque, così sicura tu?

        ZENA: Di che? Che il ragazzo non era del signorino?

        LAURA: Ecco, sì. Perché, tu sai, tante volte… avresti potuto tu stessa essere in dubbio.

        ZENA (la guarda, sorpresa, scontrosa; poi si alza): Perché mi fai codesto di­scorso, signora?

        LAURA: No. Perché ti turbi? Siedi, siedi…

        ZENA: No, non seggo più.

        LAURA: Vorrei saperlo perché… perché sarei… sarei contenta che tu mi di­cessi…

        ZENA (la guarda, di nuovo, sorpresa, scontrosa): Che il ragazzo era del signo­rino?

        LAURA: Tu non hai nessun dubbio?

        ZENA (seguita a guardarla male, poi, come per richiamarla a sé): Signora…

        LAURA (ansiosa): Di’ di’…

        ZENA: Tu dovresti esser contenta, mi pare, di quello che ho sempre detto!

        LAURA: Se ne sei proprio sicura…

        ZENA (c.s.): Bada, signora, che la povertà è cattiva consigliera.

        LAURA: Ma no: perché io anzi, ora, alla tua coscienza mi rivolgo, Zena!

        ZENA: La mia coscienza, lasciala stare. Parlò allora, la mia coscienza, e disse quello che doveva dire.

        LAURA: Proprio la tua coscienza? Ecco, vorrei saper questo! O non forse per timore…

        ZENA (ride, quasi con ischerno): Ma sai che tu mi stai parlando adesso, come mi parlò mia madre, allora, quando s’accorse del signorino? Proprio così mi disse: ragazza… inesperta… se non avevo almeno qualche dubbio… se non negavo per timore…

        LAURA: Anche tua madre, vedi?

        ZENA: Ma di mia madre lo capisco. Il male me l’ero già fatto, con quell’altro.

        LAURA: Col tuo fidanzato?

        ZENA: Sì. E già lo sapeva, lui, il mio fidanzato, che sarei stata madre. Ma tu perché, signora, adesso, dopo nove anni, mi vieni a riparlare di quel ragazzo?

        LAURA: Perché… perché so, ecco… so che tuo marito pretese molto danaro, al­lora, per sposarti.

        ZENA: Ah, per questo? Ma si sa, signora! Non era povero per niente… Mia madre lo mise su, facendo sapere a tutti del signorino. Non mi voleva più sposare, pur sapendo bene che il figliuolo era suo. C’era da spillar danaro, qua, dai signori; e se ne volle anche lui approfittare. E bada che se ora viene a sapere che a te piacerebbe (la guarda in un modo ambiguo e provocante:) – chi sa perché… – che io avessi ancora qualche dubbio…

        LAURA: Ah! Tu mi fai pentire d’aver voluto parlare con te a cuore aperto, per uno scrupolo che non puoi neanche intendere!

        ZENA: E chi sa? forse t’intendo, signora; non ti pentire!

        LAURA: Che cosa intendi?

        ZENA: Eh, siamo furbi noi contadini! Vedo che ti piacerebbe che tuo marito avesse avuto un figlio con me. Ebbene, io ti dico questo soltanto: che io con­tadina, il figlio lo diedi a chi ne era il padre vero. – Ah, eccolo qua, il signo­rino… (Si trae indietro, a testa bassa.)

        Scena quarta

        Giorgio e Detti.

        Laura, appena vede entrare Giorgio, balza in piedi tutta fremente e corre ad aggrapparsi a lui in una crisi di pianto.

        LAURA: Giorgio! Giorgio! Ah Giorgio mio!

        GIORGIO (soprappreso, premuroso, non badando a Zena): Ebbene? Che cos’è?

        LAURA: Niente… niente…

        GIORGIO: Ma tu piangi?

        LAURA: Niente… no…

        GIORGIO: Come no? Che è stato?

        LAURA: Niente, ti dico… Così! La sorpresa… Non t’aspettavo così presto di ri­torno…

        ZENA: Io me ne vado, signora. Addio, eh?

        LAURA: Sì, sì, va’, puoi andare, Zena! Zena, via per la destra.

        Scena quinta

        Laura e Giorgio.

        GIORGIO (sorpreso, addolorato): Ma come? tu parlavi con… Che forse è venuta a dirti qualche cosa?

        LAURA (subito, negando con forza): No, no! Ma che! Nulla! Non ci pensa più!

        GIORGIO: E perché è venuta qua, allora?

        LAURA: No, non è venuta lei; l’ho fatta chiamare io.

        GIORGIO: Tu? E perché?

        LAURA: Per un capriccio… per una curiosità…

        GIORGIO: Hai fatto male, Laura! Non dovevi farlo.

        LAURA: Ne parlò Filippo… così, per caso… E mi venne desiderio di conoscerla, ecco, e di conoscere anche il ragazzo. Ma non l’ha portato! Come l’ho ve­duta…

        GIORGIO: Ti ha detto forse…

        LAURA: No, niente! Sai pure che negò sempre!

        GIORGIO: Sfido! Volevano fare un ricatto!

        LAURA: Lei, no! La madre. Me lo disse, difatti.

        GIORGIO: Ma tu perché, allora, hai pianto?

        LAURA: Non per lei! non per lei! È stato… te l’ho detto… non so perché, ap­pena t’ho visto all’improvviso… È per quello che io sento, Giorgio… E vedi che rido, ora, poiché tu sei qua di nuovo, con me…

        GIORGIO: Hai pur detto tu stessa che non m’aspettavi così presto di ritorno…

        LAURA: Sì, è vero. Ma ho tanto sofferto, sai? a restar sola! Ho bisogno di te, tanto! Che tu mi tenga così, stretta così, senza più staccarti da me, mai, mai!

        GIORGIO: Ma io sono andato per te, Laura mia…

        LAURA: Lo so, sì, è vero!

        GIORGIO: Vedi come sono fredde queste tue manine? T’ho portato da ricoprirti bene. Siamo scappati qua tutt’a un tratto. È volato più di un mese. È venuto il freddo…

        LAURA: Ma staremo qua ancora! Sarà più bello, ora, qua, soli soli… Tu non hai paura del freddo, è vero?

        GIORGIO: No, cara.

        LAURA: Non devi aver paura con me…

        GIORGIO: Ma io ho avuto paura di te, cara!

        LAURA: Non dirmi «cara» così!

        GIORGIO: Come vuoi che ti dica?

        LAURA: Laura… come sai dirlo tu.

        GIORGIO: Ebbene, Laura…

        LAURA: Così! Mi piace guardarti le labbra quando stacchi le sillabe.

        GIORGIO: Perché? Come le stacco?

        LAURA: Non so… Così…

        GIORGIO: Laura mia…

        LAURA: Tua, tua, sì! Ah, non puoi immaginarti come, ora! E pure vorrei ancora di più! Ma non so come!

        GIORGIO: Ancora di più?

        LAURA: Sì, ancora più tua – ma non è possibile! Tu lo sai, è vero? lo sai che di più non è possibile?

        GIORGIO: Sì, Laura.

        LAURA: Lo sai? Di più, si morirebbe. Eppure ne vorrei morire.

        GIORGIO: No! Che dici?

        LAURA: Per me dico; per non esser più io… non so, una cosa che senta ancora minimamente di vivere per sé… ma una cosa tua, che tu possa fare più tua, tutta del tuo amore, del tuo amore, intendi? tutta in te, così, del tuo amore, come sono!

        GIORGIO: Sì, sì, come sei! come sei!

        LAURA: Tu lo senti, è vero? lo senti che sono così, tutta del tuo amore? e che non ho per me più niente, niente, né un pensiero, né un ricordo per me, di nulla più… tutta, assolutamente tua, per te, del tuo amore?

        GIORGIO: Sì, sì!

        Laura, che ha proferito le parole precedenti con la più immedesimata inten­sità, che è quasi il succhio della pianta di cui le ha parlato il giardiniere, si fa pallidissima, sorridendo di un sorriso che vanisce nella beatitudine di un deliquio, e gli appoggia la fronte sul petto.

        Laura!

        LAURA: Ah?

        GIORGIO: Oh Dio! Laura! Che hai?

        LAURA: Nulla… nulla… (Sorride, levando il volto.) Vedi? Nulla.

        GIORGIO: Ma ti sei fatta pallida!

        LAURA: No; non è niente.

        GIORGIO: Sei tutta fredda! Siedi, siedi!

        LAURA: Ma no… Non mi dare ajuto… Tu non capisci…

        GIORGIO: Che cosa?

        LAURA: Che è così… che è così…

        GIORGIO: Che cosa è così?

        LAURA: Che io sono tutta del tuo amore – così!

        GIORGIO: Ma sì, siedi… siedi qua…

        LAURA: L’ho toccata qua sul tuo petto… per un attimo, congiunta…

        GIORGIO: Che cosa?

        LAURA: Sì, col tuo amore e col mio, congiunta, sul tuo petto per un attimo – la vita.

        GIORGIO: Ma che dici?

        LAURA (ha un brivido violento che la scuote tutta e di nuovo la costringe ad aggrapparsi a lui): Oh Dio!

        GIORGIO (sorreggendola): Ma tu ti fai male! Che hai?… Che hai?…

        LAURA: Niente. Un po’ di freddo. Un po’ di smarrimento.

        GIORGIO: È troppo, vedi! Ti sei troppo…

        LAURA (subito con ardore quasi eroico): Sì, ma voglio così!

        GIORGIO: No, così è male! No. (Le prende il volto tra le mani.) Tu sei il mio amore; ma io non voglio, non voglio che tu ne abbia male!

        LAURA (bevendo la dolcezza delle parole di lui): No?

        GIORGIO: No, non voglio! Vedi? I tuoi occhi… (S’interrompe vedendosi guar­dato in un modo che gli fa perdere la voce.)

        LAURA (seguitando a guardarlo, quasi provocante): Di’… parla, parla…

        GIORGIO (ebbro): Dio mio, Laura…

        LAURA (ridendo, gaja): 1 miei occhi? Ma guarda, guarda… Non vedi che ci sei tu?

        GIORGIO: Lo vedo. Ma tu ridi…

        LAURA: No, no, non rido più!

        GIORGIO: E per te, bada!

        LAURA: Sì. Basta. Siamo buoni, ora! Siedi, siedi qua anche tu: ti faccio posto! (Nella sedia a sdrajo.)

        GIORGIO: No, siedo qua allora! (Indica lo sgabello.)

        LAURA (si alza dalla sedia a sdrajo): No, qua… e io, così. (Gli siede sulle gi­nocchia.)

        GIORGIO: Sì, sì.

        LAURA: No, buoni! Di’, sei passato dalla mamma?

        GIORGIO: Sì, ma non l’ho trovata.

        LAURA: Non hai veduto neanche Giulietta?

        GIORGIO: Era uscita con la mamma.

        LAURA: E non t’hanno detto nulla a casa?

        GIORGIO: No, nulla. Perché?

        LAURA: Perché ho telefonato di qua alla mamma.

        GIORGIO: Tu? Stamattina?

        LAURA: Sì.

        GIORGIO: Per me? Volevi forse qualche cosa?

        LAURA: No. Mi sono sentita un po’ male.

        GIORGIO: Ah sì? Quando?

        LAURA: Poco dopo che sei andato via tu. Quando mi sono levata. Ma nulla, sai? È passato!

        GIORGIO: Che ti sei sentita?

        LAURA: Nulla, ti dico. Non so. Mi son sentita mancare, appena mi sono alzata. Un momento, sai? Ecco, come dianzi!

        GIORGIO: E hai telefonato alla mamma per il medico?

        LAURA: No! Che medico! Per te. Per dire a te che tornassi presto. La mamma mi rispose che avrebbe fatto venire il dottor Romeri con te.

        GIORGIO: Ma non m’ha detto niente nessuno!

        LAURA: Meglio così! È stata una pensata della mamma. Io mi sono opposta.Le ho ripetuto dieci volte che non ce n’era bisogno! Ma sai com’è la mamma? Ho paura che ce la vedremo spuntare da un momento all’altro, qua, col dottor Romeri.

        GIORGIO: E sarà bene! Così vedrà…

        LAURA: Ma no! Che vuoi che veda! Io avevo bisogno che tornassi tu presto! Sei tornato. Basta.

        GIORGIO: Ma forse il medico…

        LAURA: Che vuoi che mi faccia il medico? Bada: se viene, non mi faccio nean­che vedere!

        GIORGIO: Ma perché?

        LAURA: Perché no! Non mi faccio vedere. O se no, guarda: gli parlo così (ese­guendo:) con la faccia nascosta sotto la tua giacca. E gli dico…

        GIORGIO (sorridendo): Che è per causa mia?

        LAURA (dopo una pausa, in ascolto sul petto di lui): Aspetta!

        GIORGIO: Che fai?

        LAURA: Un bàttito forte, lento; un bàttito piccolo piccolo, lesto, èsile…

        GIORGIO: Che dici?

        LAURA: Il cuore e l’orologio!

        GIORGIO: Bella scoperta!

        LAURA: Possibile che misurino lo stesso tempo? Il mio cuore batte certo più del tuo! Oh! Dio, no! Che brutto cuore!

        GIORGIO (ridendo): Brutto? Perché?

        LAURA: Non te l’avevo mai sentito battere, il cuore! Ma sai come ti batte, pla­cido, forte, lento…

        GIORGIO: E come vuoi che batta?

        LAURA: Come? Se io sapessi che tu ascolti il mio, sarebbe un precipizio! Men­tre il tuo, niente: non si commuove!

        GIORGIO: Sfido! Parli del medico che non vuoi vedere…

        LAURA: No; invece parlavo del medico a cui volevo accusarti!

        GIORGIO: Già! Ma con la faccia nascosta! Perché tu sai bene che non sono io! Non ha finito di proferir queste parole, che si turba vivamente, come se esse, rispetto al male di cui Laura soffre, d’improvviso abbiano acquistato un va­lore davanti a lui, altro da quello che egli intendeva dar loro.

        LAURA: Non sei tu? Come non sei tu?

        GIORGIO (con sempre crescente turbamento): No, io…

        LAURA (levandosi dalle ginocchia di lui): Giorgio, che pensi?

        GIORGIO (con sempre crescente turbamento, alzandosi): Oh Dio, nulla… (Poi, cupo:) Tu credi che il dottor Romeri debba venire?

        LAURA: Non so… Ma perché?

        GIORGIO: Perché è bene che venga! Voglio che venga!

        LAURA: Ma, Dio mio, Giorgio, io ho scherzato…

        GIORGIO: Lo so, lo so!

        LAURA: Vuoi che possa accusarti, se non per ischerzo?

        GIORGIO: Ma no, Laura: non è per questo!

        LAURA: E che cos’è allora?

        GIORGIO: Ma… se tu stai male…

        LAURA: No! no! io non ho niente! io ho te! Ecco: te – e non ho niente altro, che non mi venga da te! – Se godo, se soffro, se muojo – sei tu! Perché io sono tutta così, come tu mi vuoi, come io mi voglio, tua. E basta! Tu lo vedi, tu lo sai!

        GIORGIO: Sì, sì…

        LAURA: E dunque – basta! Che male vuoi che abbia? (Si sente di nuovo vacil­lare.) Dio… vedi?

        GIORGIO: Di nuovo?

        LAURA: No… È un po’ di stanchezza… Sorreggimi…

        Scena sesta

        Detti, Filippo, poi la Signora Francesca, infine Romeri.

        FILIPPO (di corsa, da destra): Signora! signora! Viene la mamma con un altro signore! (Via.)

        GIORGIO: Ah! Ecco il medico.

        LAURA: No, no! Giorgio! non voglio vederlo!

        GIORGIO: E io voglio invece che tu lo veda! (Si avvia verso il fondo per andare incontro al dottore.)

        LAURA: No… no… Vai, vai. Portalo su in villa, di là! Io non mi faccio vedere.

        FRANCESCA (entrando): Buon giorno, Giorgio.

        GIORGIO (per uscire in fretta): Buon giorno. Il dottore?

        FRANCESCA: Eccolo!

        LAURA: No, per carità! Di là, Giorgio! Pòrtatelo via di là!

        Giorgio via.

        Scena settima

        Laura e Francesca.

        FRANCESCA (stordita): Ma che cos’è?

        LAURA (eccitata): Ah! non dovevi, mamma, non dovevi!

        FRANCESCA: Che cosa?

        LAURA: Portare quel medico! Hai fatto male, male! Un male incalcolabile, mamma!

        FRANCESCA: Ma perché? Mi hai telefonato, che t’eri sentita male…

        LAURA: Io non ho nulla! non ho nulla!

        FRANCESCA: Bene! tanto meglio!

        LAURA: Ma che meglio! Che vuoi che intenda, che sappia, che rimedio vuoi che abbia, un medico, per quello che io sento, per quello che io soffro, e che non voglio, non voglio, capisci? che sia un male, e che con la presenza di quel medico che hai portato acquisti per lui un’immagine di male! Ancora di quel male che mi fu fatto!

        FRANCESCA: Non vuoi? Ma che forse…? Che dici, Laura? Oh Dio… Che forse, tu?

        LAURA (convulsa, afferrando la madre): Sì sì, mamma! Sì!

        FRANCESCA: Ah, Dio! E lui? tuo marito? lo sa?

        LAURA: Ma è appunto questo il male che tu hai fatto, mamma!

        FRANCESCA: Io?

        LAURA: Sì! Ch’egli lo sappia, che egli lo pensi ora, come un male a cui si possa portar rimedio: un rimedio più odioso del male.

        FRANCESCA: Ma se dici che è…

        LAURA: Non è! non è! E io lo so bene che non è! Lo sento!

        FRANCESCA: Come? Che senti? Io ho paura che tu, figliuola mia, sia troppo esaltata e che…

        LAURA: Ti pare che vaneggi? No! Non posso spiegartelo con la ragione, ma l’ho saputo, qua, ora, mamma, che è così! E non può essere che così!

        FRANCESCA: Che cosa, figlia mia? Io non ti capisco!

        LAURA: Questo! Questo ch’io sento. La ragione non lo sa; forse non può am­metterlo. Ma lo sa la natura, che è così! Il corpo, lo sa! Una pianta – qua,una di queste piante! Sa che non potrebbe essere senza che ci sia amore! Me lo hanno spiegato or ora. Neanche una pianta potrebbe, se non è in amore! Vedi com’è? Non sono esaltata! No, mamma. Io so questo: che in me, in questo mio povero corpo – quando fu – in questa mia povera carne straziata, mamma, doveva esserci amore. E per chi? Se amore c’era, non poteva essere che per lui, per mio marito. (Con gesto di vittoria, quasi allegra:) E allora!

        FRANCESCA: Che dici? Ah, questo è un nuovo martirio, figliuola mia! Ne sei certa? proprio certa?

        LAURA: Sì. Ma è così! è così! È per forza così!

        FRANCESCA: Ma lui, dimmi un po’, tuo marito, lo sa?

        LAURA: Credo che già lo sappia. Ma ora, là, con quel medico… Ah! proprio questo, vedi, non doveva avvenire! Che egli lo sapesse così!

        FRANCESCA: Ma se già lo sa, figlia mia!

        LAURA: Volevo che sentisse anche lui, naturalmente, quello che io sento! E che s’unisse a me, s’immedesimasse in me, fino a sentirlo, ecco, e volerlo in me, con me, quello che io sento e voglio!

        FRANCESCA: Oh Dio! Ho paura, figliuola mia, che…

        LAURA (subito, interrompendo): Zitta!… Eccoli… Andiamo, andiamo sii! (Si trascina via la madre.) Non voglio farmi vedere, non voglio farmi vedere!

        GIORGIO (chiamando dal fondo): Laura… Laura…

        LAURA: No, Giorgio! T’ho detto no! Vieni, mamma! (Via con la madre.)

        Scena ottava

        Giorgio e il Dottor Romeri.

        GIORGIO: Venga, dottore.

        ROMERI: Eccomi, eccomi.

        GIORGIO (seguitando con calma grave e contenuta il suo discorso col dottore): Mi piegai allora; mi vinsi, come dovevo. Era una sciagura! Forse anche a lei, dottore, la mia violenza –

        ROMERI (interrompendo): – no; io per me –

        GIORGIO: – se non a lei, potè parer troppa ad altri, che non erano in grado di sentire in quel punto come me.

        ROMERI: Ciascuno sente a suo modo!

        GIORGIO: Ma fu, del resto, in quello stesso primo momento una violenza anche per me. Tanto vero, che appena la vidi, dottore, appena ella mi venne davanti, la mia violenza cadde di colpo, e io la raccolsi tra le braccia, non per dovere di pietà, no, ma perché dovevo, dovevo per il mio stesso amore fare così. E le giuro che non ci ho più pensato, nemmeno una volta. Siamo stati un mese qua, insieme, come due nuovi sposi. (Cambiando tono ed espressione:) Ma ora, ora, dottore, se è vero questo…

        ROMERI: Eh, comprendo…

        GIORGIO: Passar sopra a uno scempio, sì, l’ho fatto. Ma oltre, no!

        ROMERI: Speriamo ancora che non sia!

        GIORGIO: Non lo so. Ma lo temo! Se fosse… lei mi comprende?

        ROMERI: Comprendo, comprendo!

        GIORGIO: E allora vada, la prego. E glielo dica, se mai (lento, spiccato, quasi sillabando:) io non potrei transigere. Vada. Aspetto qua.

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1919 – L’innesto – Commedia in tre atti
Premessa e articolo di Antonio Gramsci
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