L’imbecille – Audio lettura 3

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Legge Gaetano Marino
«Serataccia, umida, di novembre. La nebbia s’affettava. Bagnato tutto il lastricato della piazza; e attorno a ogni fanale sbadigliava un alone.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 11 settembre 1912, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.

l imbecille audiolibro
Immagine dal sito del Piccolo Teatro di Milano, stagione 1953-54, L’imbecille, Ottavio Fanfani e Romolo Valli.

L’imbecille

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

******

             Ma che c’entrava, in fine, Mazzarini, il deputato Guido Mazzarini, col suicidio di Pulino? – Pulino? Ma come? S’era ucciso Pulino? – Lulù Pulino, sì: due ore fa. Lo avevano trovato in casa, che pendeva dall’ansola del lume, in cucina. – Impiccato? – Impiccato, sì. Che spettacolo! Nero, con gli occhi e la lingua fuori, le dita raggricchiate. – Ah, povero Lulù! – Ma che c’entrava Mazzarini?

             Non si capiva niente. Una ventina di energumeni urlavano nel caffè, con le braccia levate (qualcuno era anche montato sulla sedia), attorno a Leopoldo Paroni, presidente del Circolo repubblicano di Costanova, che urlava più forte di tutti.

             –    Imbecille! sì, sì, lo dico e lo sostengo: imbecille! imbecille! Gliel’avrei pagato io il viaggio! Io, gliel’avrei pagato! Quando uno non sa più che farsi della propria vita, perdio, se non fa così è un imbecille!

             –    Scusi, che è stato? – domandò un nuovo venuto, accostandosi, intronato da tutti quegli urli e un po’ perplesso, a un avventore che se ne stava discosto, appartato in un angolo in ombra, tutto aggruppato, con uno scialle di lana su le spalle e un berretto da viaggio in capo, dalla larga visiera che gli tagliava con l’ombra metà del volto.

             Prima di rispondere, costui levò dal pomo del bastoncino una delle mani ischeletrite, nella quale teneva un fazzoletto appallottato, e se la portò alla bocca, su i baffetti squallidi, spioventi. Mostrò così la faccia smunta, gialla, su cui era ricresciuta rada rada qua e là una barbettina da malato. Con la bocca otturata combatté un pezzo, sordamente, con la propria gola, ove una tosse profonda irrompeva, rugliando tra sibili; in fine disse con voce cavernosa:

             – Mi ha fatto aria, accostandosi. Scusi, lei, non è di Costanova, è vero?

             (E raccolse e nascose nel fazzoletto qualche cosa.) Il forestiere, dolente, mortificato, imbarazzato dal ribrezzo che non riusciva a dissimulare, rispose:

             –    No; sono di passaggio.

             –    Siamo tutti di passaggio, caro signore.

             E aprì la bocca, così dicendo, e scoprì i denti, in un ghigno frigido, muto, restringendo in fitte rughe, attorno agli occhi aguzzi, la gialla cartilagine del viso emaciato.

             – Guido Mazzarini, – riprese poi, lentamente, – è il deputato di Costanova. Grand’uomo.

             E stropicciò l’indice e il pollice d’una mano, a significare il perché della grandezza.

             – Dopo sette mesi dalle elezioni politiche, a Costanova, caro signore, ribolle ancora furioso, come vede, lo sdegno contro di lui, perché, avversato qui da tutti, è riuscito a vincere col suffragio ben pagato delle altre sezioni elettorali del collegio. Le furie non sono svaporate, perché Mazzarini, per vendicarsi, ha fatto mandare al Municipio di Costanova… – si scosti, si scosti un poco; mi manca l’aria – un regio commissario. Grazie. Già! un regio commissario. Cosa… cosa di gran momento… Eh, un regio commissario…

             Allungò una mano e, sotto gli occhi del forestiere che lo mirava stupito, chiuse le dita, lasciando solo ritto il mignolo, esilissimo; appuntì le labbra e rimase un pezzo intentissimo a fissar l’unghia livida di quel dito.

             – Costanova è un gran paese, – disse poi. – L’universo, tutto quanto, gravita attorno a Costanova. Le stelle, dal cielo, non fanno altro che sbirciar Costanova; e c’è chi dice che ridano; c’è chi dice che sospirino dal desiderio d’a vere in sé ciascuna una città come Costanova. Sa da che dipendono le sorti dell’universo? Dal partito repubblicano di Costanova, il quale non può aver bene in nessun modo, tra Mazzarini da un lato, e l’ex-sindaco Cappadona dall’altro, che fa il re. Ora il Consiglio comunale è stato sciolto e per conseguenza l’universo è tutto scombussolato. Eccoli là: li sente? Quello che strilla più di tutti è Paroni, sì, quello là col pizzo, là cravatta rossa e il cappello alla Lobbia; strilla così, perché vuole che la vita universa, e anche la morte, stiano a servizio dei repubblicani di Costanova. Anche la morte, sissignore. S’è ucciso Pulino… Sa chi era Pulino? Un povero malato, come me. Siamo parecchi, a Costanova, malati così. E dovremmo servire a qualche cosa. Stanco di penare, il povero Pulino oggi si è…

             –    Impiccato?

             –    All’ansola del lume, in cucina. Eh, ma così, no, non mi piace. Troppa fatica, impiccarsi. C’è la rivoltella, caro signore. Morte più spiccia. Bene; sente che dice Paroni? Dice che Pulino è stato un imbecille, non perché si è impiccato, ma perché, prima di impiccarsi, non è andato a Roma ad ammazzar Guido Mazzarini. Già! Perché Costanova, e conseguentemente l’universo, rifiatasse. Quando uno non sa più che farsi della propria vita, se non fa così, se prima d’uccidersi non ammazza un Mazzarini qualunque, è un imbecille. Gliel’avrebbe pagato lui il viaggio, dice. Con permesso, caro signore.

             S’alzò di scatto; si strinse, da sotto, con ambo le mani lo scialle attorno al volto, fino alla visiera del berretto; e, così imbacuccato, curvo, lanciando occhiatacce al crocchio degli urloni, uscì dal caffè.

             Quel forestiere di passaggio restò imbalordito; lo seguì con gli occhi fino alla porta: poi si volse al vecchio cameriere del caffè e gli domandò, costernatissimo:

             – Chi è?

             Il vecchio cameriere tentennò il capo amaramente; si picchiò il petto con un dito; e rispose, sospirando:

             – Anche lui… eh, poco più potrà tirare. Tutti di famiglia! Già due fratelli e una sorella… Studente. Si chiama Fazio. Luca Fazio. Colpa della madraccia, sa? Per soldi, sposò un tisico, sapendo ch’era tisico. Ora lei sta così, grossa e grassa, in campagna, come una badessa, mentre i poveri figliuoli, a uno a uno… Peccato! Sa che testa ha quello lì? e quanto ha studiato! Dotto; lo dicono tutti. Viene da Roma, dagli studii. Peccato!

             E il vecchio cameriere accorse al crocchio degli urloni che, pagata la consumazione, si disponevano a uscire dal caffè con Leopoldo Paroni in testa.

             Serataccia, umida, di novembre. La nebbia s’affettava. Bagnato tutto il lastricato della piazza; e attorno a ogni fanale sbadigliava un alone.

             Appena fuori della porta del caffè, tutti si tirarono su il bavero del pastrano, e ciascuno, salutando, s’avviò per la sua strada.

             Leopoldo Paroni, nell’atteggiamento che gli era abituale, di sdegnosa, accigliata fierezza, sollevò di traverso il capo, e così col pizzo all’aria attraversò la piazza, facendo il mulinello col bastone. Imboccò la via di contro al caffè; poi voltò a destra, al primo vicolo, in fondo al quale era la sua casa.

             Due fanaletti piagnucolosi, affogati nella nebbia, stenebravano a mala pena quel lercio budello: uno a principio, uno in fine.

             Quando Paroni fu a metà del vicolo, nella tenebra, e già cominciava a sospirare al barlume che arrivava fioco dall’altro fanaletto ancor remoto, credette di discernere laggiù in fondo, proprio innanzi alla sua casa, qualcuno appostato. Si sentì rimescolar tutto il sangue e si fermò.

             Chi poteva essere, lì, a quell’ora? C’era uno, senza dubbio, ed evidentemente appostato; lì proprio innanzi alla porta di casa sua. Dunque, per lui. Non per rubare, certo; tutti sapevano ch’egli era povero come Cincinnato. Per odio politico, allora… Qualcuno mandato da Mazzarini, o dal regio commissario? Possibile? Fino a tanto?

             E il fiero repubblicano si voltò a guardare indietro, perplesso, se non gli convenisse ritornare al caffè o correre a raggiungere gli amici, da cui si era separato or ora; non per altro, per averli testimonii della viltà, dell’infamia dell’avversario. Ma s’accorse che l’appostato, avendo udito certamente, nel silenzio, il rumore dei passi fin dal suo entrare nel vicolo, gli si faceva incontro, là dove l’ombra era più fitta. Eccolo: ora si scorgeva bene: era imbacuccato. Paroni riuscì a stento a vincere il tremore e la tentazione di darsela a gambe; tossì, gridò forte:

             –    Chi è là?

             –    Paroni, – chiamò una voce cavernosa.

             Un’improvvisa gioja invase e sollevò Paroni, nel riconoscere quella voce:

             –    Ah, Luca Fazio… tu? Lo volevo dire! Ma come? Tu qua, amico mio? Sei tornato da Roma?

             –    Oggi, – rispose, cupo, Luca Fazio.

             –    M’aspettavi, caro?

             –    Sì. Ero al caffè. Non m’hai visto?

             –    No, affatto. Ah, eri al caffè? Come stai, come stai, amico mio?

             –    Male; non mi toccare.

             –    Hai qualche cosa da dirmi?

             –    Sì; grave.

             –    Grave? Eccomi qua!

             –    Qua, no: su a casa tua.

             –    Ma… c’è cosa? Che c’è, Luca? Tutto quello che posso, amico mio…

             –    T’ho detto, non mi toccare: sto male.

             Erano arrivati alla casa. Paroni trasse di tasca la chiave; aprì la porta; accese un fiammifero, e prese a salir la breve scaletta erta, seguito da Luca Fazio.

             – Attento… attento agli scalini…

             Attraversarono una saletta; entrarono nello scrittojo, appestato da un acre fumo stagnante di pipa. Paroni accese un sudicio lumetto bianco a petrolio, su la scrivania ingombra di carte, e si volse premuroso al Fazio. Ma lo trovò con gli occhi schizzanti dalle orbite, il fazzoletto, premuto forte con ambo le mani, su la bocca. La tosse lo aveva riassalito, terribile, a quel puzzo di tabacco.

             – Oh Dio… stai proprio male, Luca…

             Questi dovette aspettare un pezzo per rispondere. Chinò più volte il capo. S’era fatto cadaverico.

             –    Non chiamarmi amico, e scostati – prese infine a dire. – Sono agli estremi… No, resto… resto in piedi… Tu scostati.

             –    Ma… ma io non ho paura… – protestò Paroni.

             –    Non hai paura? Aspetta… – sghignò Luca Fazio. – Lo dici troppo presto. A Roma, vedendomi così agli estremi, mi mangiai tutto: serbai solo poche lire per comperarmi questa rivoltella.

             Cacciò una mano nella tasca del pastrano e ne trasse fuori una grossa rivoltella.

             Leopoldo Paroni, alla vista dell’arma, in pugno a quell’uomo in quello stato, diventò pallido come un cencio, levò le mani, balbettò:

             –    Che… che è carica? Ohe, Luca…

             –    Carica, – rispose frigido il Fazio. – Hai detto che non hai paura…

             –    No… ma, se, Dio liberi…

             –    Scostati! Aspetta… M’ero chiuso in camera, a Roma, per finirmi. Quando, con la rivoltella già puntata alla tempia, ecco che sento picchiare all’uscio…

             –    Tu, a Roma?

             –    A Roma. Apro. Sai chi mi vedo davanti? Guido Mazzarini.

             –    Lui? a casa tua?

             Luca Fazio fece di sì, più volte, col capo. Poi seguitò:

             – Mi vide con la rivoltella in pugno, e subito, anche dalla mia faccia, comprese che cosa stessi per fare; mi corse innanzi; m’afferrò per le braccia; mi scosse e mi gridò: «Ma come? così t’uccidi? Oh Luca, sei tanto imbecille? Ma va’… se vuoi far questo… ti pago io il viaggio; corri a Costanova, e ammazzami prima Leopoldo Paroni!».

             Paroni, intentissimo finora al truce e strano discorso, con l’animo in subbuglio nella tremenda aspettativa d’una qualche atroce violenza davanti a lui, si sentì d’un tratto sciogliere le membra; e aprì la bocca a un sorriso squallido, vano:

             – …Scherzi?

             Luca Fazio si trasse un passo indietro; ebbe come un tiramento convulso in una guancia, presso il naso, e disse, con la bocca scontorta:

             – Non scherzo. Mazzarini m’ha pagato il viaggio; ed eccomi qua. Ora io, prima ammazzo te, e poi m’ammazzo.

             Così dicendo, levò il braccio con l’arma e mirò.

             Paroni, atterrito, con le mani innanzi al volto, cercò di sottrarsi alla mira, gridando:

             –   Sei pazzo?… Luca… sei pazzo?

             –   Non ti muovere! – intimò Luca Fazio. – Pazzo, eh? ti sembro pazzo? E non hai urlato per tre ore al caffè che Pulino è stato un imbecille perché, prima d’impiccarsi, non è andato a Roma ad ammazzar Mazzarini?

             Leopoldo Paroni tentò d’insorgere:

             –   Ma c’è differenza, per dio! Io non sono Mazzarini!

             –   Differenza? – esclamò il Fazio, tenendo sempre sotto mira il Paroni. – Che differenza vuoi che ci sia tra te e Mazzarini, per uno come me o come Pulino, a cui non importa più nulla della vostra vita e di tutte le vostre pagliacciate? Ammazzar te o un altro, il primo che passa per via, è tutt’uno per noi! Ah, siamo imbecilli per te, se non ci rendiamo strumento, all’ultimo, del tuo odio o di quello d’un altro, delle vostre gare e delle vostre buffonate? Ebbene: io non voglio essere imbecille come Pulino, e ammazzo te!

             –   Per carità, Luca… che fai? Ti sono stato sempre amico! – prese a scongiurar Paroni, storcendosi, per scansar la bocca della rivoltella.

             Guizzava veramente negli occhi di Fazio la folle tentazione di premere il grilletto dell’arma.

             –   Eh, – disse col solito ghigno frigido su le labbra. – Quando uno non sa più che farsi della propria vita… Buffone! Stai tranquillo; non t’ammazzo. Da bravo repubblicano, tu sarai libero pensatore, eh? Ateo! Certamente… Se no, non avresti potuto dire imbecille a Pulino. Ora tu credi ch’io non ti ammazzi, perché spero gioje e compensi in un mondo di là… No, sai? Sarebbe per me la cosa più atroce credere che io debba portarmi altrove il peso delle esperienze che mi è toccato fare in questi ventisei anni di vita. Non credo a niente! Eppure, non t’ammazzo. Né credo d’essere un imbecille, se non t’ammazzo. Ho pietà di te, della tua buffoneria, ecco. Ti vedo da lontano, e mi sembri così piccolo e miserabile. Ma la tua buffoneria la voglio patentare.

             –   Come? – fece Paroni, con una mano a campana, non avendo udito l’ultima parola, nell’intronamento in cui era caduto.

             –   Pa-ten-ta-re, – sillabò Fazio. – Ne ho il diritto, giunto come sono al confine. E tu non puoi ribellarti. Siedi là, e scrivi.

             Gl’indico la scrivania con la rivoltella, anzi quasi lo prese e lo condusse a seder lì per mezzo dell’arma puntata contro il petto.

             –   Che… che vuoi che scriva? – balbettò Paroni annichilito.

             –   Quello che ti detterò io. Ora tu stai sotto; ma domani, quando saprai che mi sono ucciso, tu rialzerai la cresta; ti conosco; e al caffè urlerai che sono stato un imbecille anch’io. No? Ma non lo faccio per me. Che vuoi che m’importi del tuo giudizio? Voglio vendicar Pulino. Scrivi dunque… Lì, lì, va bene.

             Due parole. Una dichiarazioncina, «Io qui sottoscrìtto mi pento…» Ah, no, perdio! scrivi, sai? A questo solo patto ti risparmio la vita! O scrìvi, o t’ammazzo… «… Mi pento d’aver chiamato imbecille Pulino, questa sera, al caffè, tra gli amici, perché, prima d’uccidersi non è andato a Roma ad ammazzar Mazzarini.» Questa è la pura verità: non c’è una parola di più. Anzi, lascio che gli avresti pagato il viaggio. Hai scritto? Ora seguita: «Luca Fazio, prima d’uccidersi, è venuto a trovarmi…». Vuoi metterci armato di rivoltella? Mettilo pure: «armato di rivoltella». Tanto, non pagherò la multa per porto d’arma abusivo. Dunque. «Luca Fazio è venuto a trovarmi, armato di rivoltella», hai scritto? «e mi ha detto che, conseguentemente, anche lui, per non esser chiamato imbecille da Mazzarini o da qualche altro, avrebbe dovuto ammazzar me come un cane». Hai scritto, come un cane? Bene. A capo. «Poteva farlo, e non l’ha fatto. Non l’ha fatto perché ha avuto schifo e pietà dime e della mia paura. Gli è bastato che gli dichiarassi che il vero imbecille sono io. »

             Paroni, a questo punto, congestionato, scostò furiosamente la carta, e si trasse indietro protestando:

             – Questo poi…

             – Che il vero imbecille sono io, – ripeté, freddo, perentoriamente, Luca Fazio. – La tua dignità la salvi meglio, caro mio, guardando la carta su cui scrivi, anziché quest’arma che ti sta sopra. Hai scritto? Firma adesso. Si fece porgere la carta; la lesse attentamente: disse:

             – Sta bene. Me la troveranno addossò, domani. La piegò in quattro e se la mise in tasca.

             – Consolati, Leopoldo, col pensiero ch’io vado a fare adesso una cosa un tantino più difficile di quella che or ora hai fatto tu. Buona notte.

L’imbecille – Audio lettura 1 – Legge Gian Maria Volontè
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