«L’esclusa»: La lotta di Marta Ajala contro il fango

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Di Simone Germini

«L’esclusa» concede molto al romanzo d’appendice, eppure già in questa prima prova narrativa di Pirandello troviamo diversi elementi fondamentali della sua scrittura, come la caricatura espressionista, che deforma mostruosamente o ridicolmente numerosi personaggi.

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L esclusa. analisi del romanzo
Antonio Donghi – Donna al caffè – 1931

«L’esclusa»: La lotta di Marta Ajala contro il fango

da IMalpensanti

Meglio, meglio chiudersi in un sogno continuo, sopra le volgarità e le comuni miserie dell’esistenza quotidiana, sopra il giogo livellatore delle leggi a un palmo del fango, rete protettrice dei nani, ostacolo e pastoja a ogni ascensione verso un’idealità!

Pubblicato nel 1901 sulla «Tribuna», L’esclusa è il primo romanzo di Pirandello. Nella lettera a Luigi Capuana premessa all’edizione del 1908, Pirandello stesso rivela il nucleo tematico e lo sviluppo narrativo dell’opera, il primo rappresentato dalla totale sottomissione dei personaggi, completamente privi di volontà, alla gretta e meschina legge sociale, vera e propria trappola mortale che condiziona l’esistenza degli individui dalla nascita, il secondo dal dramma dell’innocente vittima di questa spietata e assurda legge:

Qui ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontariamente; mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile; e fa sì che un’innocente, scacciata dalla società – per esservi riammessa – debba prima passare sotto le forche dell’infamia, commettere cioè davvero quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata. 

L’«innocente» protagonista del romanzo è Marta Ajala, scacciata dal marito, Rocco Pentàgora, per un adulterio mai commesso. Tra Marta e Gregorio Alvignani, noto avvocato del paese e futuro deputato, non c’è stato che uno scambio epistolare, eppure tanto basta per decretare la condanna unanime della protagonista (del resto le corna sono lo stemma della famiglia Pentàgora), ripudiata persino dal padre, che non crede alla sua innocenza e reagisce allo scandalo seppellendosi nella sua camera, le imposte serrate di giorno e di notte, fino a morire. Oltre al padre, che non si riconcilia con lei e non la perdona, Marta perde, nello stesso drammatico momento, anche il figlio, «un mostriciattolo quasi informe», rischiando ella stessa di morire a causa del parto. Ai lutti si aggiunge presto il fallimento della conceria di famiglia, che getta la protagonista, la madre Agata e la sorella Maria nella miseria. Marta è spinta a trovare conforto nella fede, ma il conforto della fede è possibile solamente dopo una reale caduta, come nel caso dell’amica Anna Veronica, mentre lei non ha commesso nessuna colpa:

Ma lei? Aveva la coscienza sicura, lei, che non sarebbe mai venuta meno ai suoi doveri di moglie, non perché stimasse degno di tale rispetto il marito, ma perché non degno di lei stimava il tradirlo, e che mai nessuna lusinga sarebbe valsa a strapparle una anche minima concessione. La gente, ora, vedendola lì in chiesa, umile e prostrata, non avrebbe supposto ch’ella avesse accettato come giusta la punizione e che s’inginocchiasse davanti a Dio a mendicare conforto e rifugio, perché non si riconosceva più il diritto di levarsi in piedi e a fronte alta davanti agli uomini? Non èer questi, è vero, non per la punizione immeritata, non per la sciagura del padre, di cui lei non voleva riconoscersi cagione, si era lasciata indurre da Anna a venire in chiesa per confessarsi; ma per sé, per aver lume e pace da Dio. Che avrebbe detto però, tra poco, a quel vecchio confessore? Di che doveva pentirsi? Che aveva fatto, qual peccato commesso da meritare tutti quei castighi, quelle pene, e l’infamia, la sciagura del padre e del figliuolo, il perpetuo lutto in casa, e forse la miseria, domani? Accusarsi? pentirsi? Se male aveva fatto, senza volerlo, per inesperienza, non lo aveva scontato a dismisura? Certo quel sacerdote le avrebbe consigliato d’accettare con amore e con rassegnazione il castigo mandato da Dio. Ma da Dio, proprio? Se Dio era giusto, se Dio vedeva nei cuori… Gli uomini, piuttosto… Strumenti di Dio? Ma ricevono da Dio forse la misura del castigo? Eccedono, o per bassezza di spirito o per aberrazione d’onestà… Accettare umilmente la condanna, senza ragionarla, e perdonare? Avrebbe potuto perdonare? No! No!» 

Prostrarsi nel tempio significherebbe ammettere una colpa che non è stata commessa. Marta non ha niente di cui pentirsi, niente di cui chiedere perdono e se ne va, lascia la chiesa, senza confessarsi, definitivamente consapevole di non possedere quella fede che ci vuole, secondo la morale comune, incarnata da un contadino «assorto nella preghiera, estatico»: «Dentro il cranio, il cervello le si era ormai ridotto come una spugna arida, da cui non poteva più spremere un pensiero che la confortasse, che le desse un momento di requie». Schiacciata dalla «sorte iniqua» che le è piombata addosso e contro la quale non può nulla, Marta inaridisce, diviene di pietra e non sente più nulla, né cordoglio per la morte del padre, né pietà per la madre e la sorella, né amicizia per Anna Veronica. La preghiera per lei non è che un «vano agitarsi delle labbra», di cui non comprende il senso.

L’esclusione pubblica di Marta e della sua famiglia dalla società, dal gretto e soffocante microcosmo paesano, viene sancita nel giorno in cui il popolo si rende implacabile censore, durante la processione dei santi patroni, San Cosimo e Damiano. Le statue dei santi vengono condotte sotto l’abitazione delle Ajala da una folla inferocita, che sbraita contro le donne, e le teste ferree sbattute con violenza contro la ringhiera del balcone. La condanna del popolo imbestialito, ordita da Antonio Pentàgora, il suocero della protagonista. L’offesa pubblica, invece di abbatterla, incita Marta alla lotta contro il fango, «rete protettrice dei nani», come la definisce l’Alvignani, e la protagonista ricorre all’arma dello studio, interrotto a causa del matrimonio. Marta supera l’esame per diventare maestra e grazie all’insegnamento sente di poter risorgere «dall’onta vile e ingiusta; armata di sprezzo», orgogliosa di prendersi cura della madre e della sorella, ma la sua carriera nel collegio del paese dura poco, ostacolata dalle altre insegnanti, dalle studentesse e dai loro genitori. Un’adultera non può ricoprire l’importante ruolo di educatrice – la morale comune schiaccia i meriti. A Marta, alla madre e alla sorella, sfrattate, incalzate dalla miseria, non resta che la fuga, e le donne si trasferiscono a Palermo, dove l’Alvignani ha trovato un posto per la protagonista, nel Collegio Nuovo.

A Palermo Marta sembra rinascere. In lei si ridesta il senso antico, infantile della vita, «lucido e gajo», e prova finalmente un piacevolissimo e benefico sentimento di soddisfazione: «Era paga: aveva vinto; sentiva di far bene, e le piaceva di vivere». La primavera torna anche per lei, non solo per la terra, e Marta si sottrae «all’incubo delle tristi memorie», ma non dura molto: la protagonista viene presto insidiata dai tre professori del collegio, in particolar modo dal mostruoso e folle Falcone (una delle più straordinarie caricature espressioniste di Pirandello), e pedinata dal marito, furioso per la sua fuga e certo che lei si trovi a Palermo per la sua relazione con l’Alvignani: «sassi, spine ovunque, per quella via lontana dalla vita».

Mentre la madre e la sorella, creature quasi evanescenti, ritrovano la serenità perduta, una nuova vita calma e modesta, corrispondente alle loro nature arrese, Marta è tormentata dall’insoddisfazione. L’energia giovanile sprecata, le aspirazioni frustrate – Marta si sente esclusa dalla vita e ne prova dolore:

Ma lei? la sua vita, la sua giovinezza dovevano rimanere sepolte lì, nel passato? Non se ne doveva più parlare? Quel ch’era stato era stato? Morta? Tutto morto, per lei? Viva solamente per far vivere gli altri? Sì, sì, se ne sarebbe magari contentata se, esclusa così dalla vita, le avessero almeno concesso di godere in pace dello spettacolo dolce e quieto di quella casetta, ch’era come edificata sul sepolcro di lei… Ma che si parlasse almeno un poco, che si avesse qualche compianto almeno della sua giovinezza morta, della sua vita spezzata! Era stato pure un delitto spezzarle la vita così, senza ragione, stroncarle così la giovinezza! Non se ne doveva più parlare?

Marta si sente come sepolta viva e l’assurdo e violento corteggiamento del Falcone, sommato alla rabbia del marito, che minaccia nuovi scandali, nuovo fango, acuiscono questa sensazione angosciante. La protagonista sente approfondirsi ogni giorno di più il distacco tra lei, la madre e la sorella, che ignorano le sue sofferenze, i suoi turbamenti e «con la schiva umiltà contegnosa, coi riguardi timorosi e l’apprensione costante di non dar mai nell’occhio alla gente, erano già rientrate in quel mondo da cui ella era stata espulsa e condannata senza remissione».

Il dramma della condanna iniqua, senza colpa, allontana Marta da tutti, dal mondo e dalla vita, la isola, relegandola in una dimensione sospesa, di morte-in-vita, in uno stato di prigionia, di impossibilità, di impotenza insostenibile per una giovane nel pieno delle sue forze, intellettualmente dotata, coscienziosamente sviluppata e bella. In questo momento così complicato e doloroso ricompare Gregorio Alvignani, con la sua vibrante esortazione a vivere, vivere, vivere e Marta cede al seduttore, ma con sgomento, in uno stato di annebbiamento, di incoscienza, senza trasporto: «Quand’egli la abbracciò, ella ebbe un fremito per tutte le membra, un singulto, come uno schianto, di chi cede senza concedere». Marta si abbandona all’Alvignani «senza volontà», come se le ingiustizie patite avessero conferito un diritto all’amante, il diritto di possederla, di farla sua. Marta si sente «come giunta al suo fine, piombata nel suo fondo, dove tutti, tutti, la avevano spinta, quasi a furia d’urtoni alla terga, e precipitata. […] Dove tutti avevano voluto ch’ella arrivasse, era arrivata». Il fatto che ha sancito la condanna di Marta Ajala all’esclusione, all’emarginazione dalla società infine si compie, deve compiersi e la protagonista, che ne percepisce la terribile ineluttabilità, mentre l’Alvignani, ebbro di piacere, la stringe forte a sé, invocandola come sua, sua, sua, si sente ridotta a una cosa da prendere e usare, priva di coscienza, priva di volontà. Questo processo di reificazione costituisce probabilmente il momento culminante del dramma di Marta Ajala e rivela tutta l’assurda influenza della legge sociale sull’individuo, ridotto a burattino, a fantoccio che d’umano conserva solamente la forma – la sostanza è annullata, cancellata, annichilita.

Marta, sconvolta, costringe se stessa a vedere nella caduta «una vendetta voluta da lei, la vendetta della sua antica innocenza, contro tutti». Un’illusione fragile, destinata a dissolversi presto, al primo debole soffio della coscienza riacquistata, e Marta si trova sprovvista dell’unico sostegno sul quale aveva fondato la sua coraggiosa lotta contro il fango: l’innocenza, perduta per sempre. «Tutti l’hanno voluto…», sussurra la protagonista tra sé, rabbiosamente, a denti stretti, e scrive all’Alvignani una lunga lettera di sfogo, in cui il rimorso della caduta si mostra «in uno slancio aggressivo di passione, nella frase appositamente ripetuta e sottolineata: “Ora sono tua!” quasi per fargli paura». L’Alvignani tenta di rassicurare Marta, ma sofisticando, sostenendo che la coscienza non rappresenta altro che il giudizio del mondo radicato dentro di noi. Il deputato si compiace di se stesso, dei suoi brillanti ragionamenti, dei suoi sofismi e la protagonista si costringe a credere alle parole dell’amante, che la scagionano, ma in cuor suo non è affatto convinta. Frequentare l’Alvignani le pesa, le sue notti sono tormentate dall’angoscia, e Marta si reca dall’amante esclusivamente per sentirsi dire ciò che «avrebbe voluto credere: che ella non era stata vinta; che quell’uomo non s’era impadronito di lei per violenza altrui; ma che ella lo aveva voluto, e ormai doveva starci, poiché gli s’era data». Marta non ama l’Alvignani e lui lo sa, sa che la donna non gli si concede per «virtù d’amore», ma che gli si aggrappa «come un naufrago s’aggrappa ad un altro, senza probabilità di scampo, disperatamente». Così la relazione tra i due si trascina per un paio di mesi, fino a un punto morto, stagnante, reso particolarmente sgradevole «dall’ombra della colpa» che, da Marta, si proietta su entrambi.

Marta resta incinta dell’Alvignani e per lei si prospettano due vie: trasferirsi a Roma con il deputato e abbandonare la madre e la sorella, oppure tornare dal marito, che, dopo aver rischiato di perdere la vita a causa del tifo, desidera riavere la moglie, e a tal proposito ha inviato il professor Blandino a Palermo come ambasciatore. L’Alvignani la spinge proprio verso questa seconda possibilità:

vedi, vedi, sarebbe questa la vera vendetta, questa; e se io fossi in te, non esiterei un solo minuto! Pensaci! Innocente, ti hanno punita, scacciata, infamata; e ora che tu, spinta da tutti, perseguitata, non per tua passione, non per tua volontà, hai commesso il fallo – per te è tale! – il fallo di cui t’accusarono innocente, ora ti riprendono, ora ti rivogliono! Vacci! Li avrai puniti tutti quanti, come si meritavano! 

Vili sofismi che non convincono Marta, la quale vede davanti a sé una sola possibilità: la morte. Il pensiero del suicidio assume ogni giorno maggiore consistenza, ma giunge la notizia dell’agonia della madre di Rocco, anche lei scacciata dal marito e abbandonata a Palermo, sola, come una «cagna», sepolta in una stamberga, e Marta corre dalla donna, «orribile immagine dell’imminente suo destino». Marta confessa a Rocco, giunto per assistere la madre moribonda, la sua relazione con l’Alvignani, verso cui l’hanno spinta tutti, e il marito per primo, cacciandola di casa, ingiustamente. Ed eccoci giunti all’amaro finale del romanzo: Marta e Rocco si riconciliano, al cospetto del cadavere di Fana Pentàgora, ennesima povera vittima della brutale e assurda legge sociale che domina L’esclusa e tutti i suoi personaggi. Commessa infine quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata, Marta Ajala viene riammessa nella società, riassumendo il ruolo di moglie di Rocco Pentàgora. La sua coraggiosa e disperata lotta contro il fango la vede sconfitta; ancora una volta gli altri decidono per lei, e la legge per tutti.

L’esclusa concede molto al romanzo d’appendice, eppure già in questa prima prova narrativa di Pirandello troviamo diversi elementi fondamentali della sua scrittura, come la caricatura espressionista, che deforma mostruosamente o ridicolmente numerosi personaggi; come la rappresentazione e la critica della gretta e meschina legge sociale, feroce e assurda; come il tema dell’esclusione, dell’emarginazione dell’individuo, centrale nei tre maggiori romanzi dello scrittore siciliano: Il fu Mattia Pascal, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno, nessuno e centomila. L’esito non cambia: come nell’Esclusa, anche in queste opere i protagonisti, tutti emarginati, lacerati, Amleti incerti, sono destinati alla sconfitta.

Simone Germini

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