1901 – L’esclusa

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La società delineata da Pirandello ne L’esclusa evidenzia come il matrimonio si riduca a rapporti gerarchici precostituiti dove l’uomo è il padre-padrone e la donna un soprammobile in attesa di sistemazione. Il rapporto di coppia esclude ogni forma di dialogo aperto ed egualitario, coprendo sotto la vernice del formalismo gli impulsi e i sentimenti autentici.

Approfondimenti nel sito

Sezione Tematiche
Giuseppe Bonghi – Introduzione a «L’esclusa»
Fulvia Mezi – Maria, “L’esclusa” di Luigi Pirandello
Marcello Sabbatino – Il delirio mistico della folla nell’«Esclusa» di Pirandello
Simone Germini – «L’esclusa»: La lotta di Marta Ajala contro il fango
Annalisa Grasso – Analisi de «L’esclusa»: i pregiudizi della società secondo Pirandello
Ilde Rampino – A proposito de «L’esclusa», di Luigi Pirandello
Silvia Savini – “L’esclusa”, gli esclusi – Breve analisi del romanzo

Sezione Audio – L’esclusa – Audio Lettura – Legge Edoardo Camponeschi

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««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

l'esclusa

L’esclusa – Indice

Introduzione

Parte prima
Capitolo 1Capitolo 2Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14

Parte seconda
Capitolo 1 – Capitolo 2 – Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14 – Capitolo 15

Introduzione

            L’esclusa è il primo romanzo di Pirandello. Segna il cambio di strada. Sino ad allora è stato un poeta faticoso, un filologo romanzo laureatosi a Bonn con una tesi sul dialetto di Girgenti, un traduttore dal tedesco, un intellettuale in cerca. Ma insomma, anche per lui, è il romanzo la prova del nove della sua nobiltà. Capuana i libri non solo li scrive, ma anche li fa scrivere agli altri, sospinge il conterraneo; e Pirandello si mette in pista, a caccia del Graal. Lo fa a Monte Cavo, nell’estate del 1893, se vogliamo dare retta a una nota che chiude l’edizione definitiva, quella Bemporad del 1927.

            I modelli, talora, si esibiscono, poi si procura di occultarli.

Così succede per la lettera dedicatoria a Capuana nell’edizione Treves del 1908, dove accanto alla gratitudine personale affiora urgente il bisogno di rivendicare la propria originalità, prima di farla sparire come testimonianza inutile. Ma quell’annotazione no, viene invece aggiunta, a ulteriore precisazione di un accenno fatto in quella stessa lettera dedicatoria poi eliminata; mentre la primissima edizione, dispersa a puntate su «La Tribuna» del 1901, non contiene menzioni di sorta.

            Dunque, Monte Cavo 1893. Il che non è nemmeno troppo perspicuo. Monte Cavo, dov’è? È una montagna che domina i Colli Albani, sopra Rocca di Papa, e sfiora i mille metri. Decodifichiamo: Pirandello ci tiene a informare il lettore che ha scritto il romanzo fuori della Sicilia, sui Castelli Romani, e lo ha fatto all’età di ventisei anni. Torna così indietro, puntigliosamente, perché vuole andare più avanti, molto più avanti.

            Ma dai Castelli Romani, in questa prima impresa ambiziosa e impegnativa, scrive della Sicilia profonda, di Girgenti profondissima e arcaica. Senza understatement e anzi con furore, che dovrebbe essere liberatorio.

            L’argomento è quello, più o meno, della verghiana Cavalleria rusticana. Un dramma di corna. E difatti anche nell’Esclusa c’è il duello, sia pure non direttamente sceneggiato. Solo che qui il livello sociale ed economico è più elevato, i duellanti sono non contadini, ma agiati proprietari e borghesi. Questo fa la differenza. L’altra differenza è che a Catania fanno a coltellate per libidine e adulterio rischioso e consumato, nella Girgenti di Pirandello il movente di tutta la tragedia sono non le corna, ma l’ossessione delle corna.

            L’incipit del romanzo è, in questo senso, trionfale. In casa di Antonio Pentagora arriva il figlio, Rocco, reduce dalla disgrazia. La moglie lo ha tradito. Il padre allora lo consola a suo modo, quasi euforico per quella nuova dimostrazione: lo aveva detto e predetto al figlio ostinato, è già accaduto a lui stesso, e addirittura a suo padre. Tre generazioni si ritrovano a sopportare una sciagura: il «marchio dei cervi» sulla fronte. La madre di Rocco si è comportata così, così la nonna. Così fan tutte. In stile di profezia, se ne ricordi almeno il fratello di Rocco, Niccolino, ancora indenne perché troppo giovane. Tra quelle pareti Sidora, la sorella di Antonio Pentagora, incrocia isterica ma anch’essa presaga e nel fuoco del camino, acceso d’estate e d’inverno, vorrebbe «incenerire tutte le corna della famiglia».

            Questa ossessione è diffusa come una pandemia, assume i caratteri dell’ineluttabilità di un destino. Secondo Antonio Pentagora, «tutti gli uomini… venivano al mondo con la parte assegnata. Sciocchezza il credere di poterla cambiare». Dove si arriva alla fine? «Gira gira, alle corna. La parte era quella, doveva esser quella». Si intravede un solco del futuro pirandellismo, la smania teatrale di Ciampa lo scrivano nel Berretto a sonagli. Il quale Ciampa al confronto si offenderebbe: lui il torto lo ha subìto davvero, e ha cercato in tutti i modi di chiudere gli occhi, e invece in tutti i modi glielo hanno impedito.

            È un destino, cioè una cultura del destino, che contrassegna con particolare forza, come una morsa paralizzante, il Meridione d’Italia e la Sicilia.

            All’origine cosa c’è? Una lettera, incauta, di un brillante avvocato, Gregorio Alvignani, presto assunto ai fasti di deputato. Non dimostra nulla, anzi dimostra, insieme alle precedenti missive, che il corteggiamento è unilaterale e velleitario, eppure basta e avanza; nonostante la donna sia incinta, il che a maggior ragione dovrebbe indurre al perdono.

            Il fatto è scatenante, ma pretestuoso e persino sospetto. Si direbbe che il problema è un altro, e sottostà: è l’alfabetizzazione della donna, che ha studiato, sa leggere e scrivere, anzi scrive delle lettere forbite. Più tardi, tornerà in Collegio, diventa maestra, ruolo che fa indignare di nuovo il marito, il quale nel frattempo era tentato di perdonarla. Ma maestra no, mai; quella volontà di indipendenza, anche economica, è per lui inaccettabile.

            In una società in cui la donna è subalterna, l’unico lavoro che può svolgere è quello della levatrice. La maestra infrange un tabù, nel modo più pericoloso per il sistema, introduce un elemento nuovo, di consapevolezza, che domani potrà trasformarsi in spirito di rivolta. E acquista qui un valore che non è di pettegolezzo la voce che a ispirare il caso di Marta Ajala, l’esclusa, sia stata la vicenda di Giselda Fojanesi, la maestra discesa a Catania dal Nord, amante di Verga e moglie del poeta Antonio Rapisardi, sorpresa in flagrante con in mano lettere compromettenti e perciò colpita da pubblico e clamoroso ripudio. Certo, non conviene forzare le analogie, è assai probabile una reminiscenza da quella fonte, ma la comprensibile suggestione del riservatissimo Verga per il giovane Pirandello si può essere stemperata nell’eco di altri eventi di cronaca paesana, utili all’opportuno depistaggio.

            Risulta che il carteggio con l’Alvignani riguarda proprio la condizione della donna nella società, di cui a Marta tocca, all’inizio senza rendersene conto, di essere vittima sacrificale. E tutto il romanzo declina questo problema al femminile. Accanto a Marta, la sorella Maria e la madre Agata; e lateralmente, Anna Veronica, la quale le si avvicina perché a sua volta istruita da parallela disavventura. Laddove i nomi dei personaggi, come spesso nell’onomastica pirandelliana, sono significativi e compongono qui un quadro di atmosfera biblica e cristologica. In un’accezione evidentemente cattolica, come dimostra l’epiteto di «cane giudeo» affibbiato dalla peraltro mite e rassegnata Anna Veronica al vecchio Pentagora. E il quadro al femminile, che nella letteratura verista e realista vanta un illustre albero genealogico, è confermato e allargato nell’episodio sconfinante di Fana, la moglie dello stesso Pentagora, che muore in povertà e in solitudine, vittima pure lei, al suo livello generazionale, di una calunnia infondata. Il che conferisce un più allarmante valore sociologico alla quasi incredibile vicenda narrata nel romanzo.

            Ma non è tutto. Il caso di Marta è enorme. Dopo l’incidente, l’equivoco dovrebbe chiudersi, perché proprio le lettere comprovano che manca la colpa. Lo sa l’interessata, e dovrebbero capirlo gli attori del dramma, a cominciare dal marito; e dal corteggiatore, che oltre a sostenere il cerimoniale e inconcludente duello, potrebbe e dovrebbe scagionare la donna. Nient’affatto. È invece il padre di Marta, Francesco Ajala, il maggior responsabile dell’accusa e della rovina irreversibile della malcapitata, peggio dello stesso accecato marito. Il quale padre non vuole sentire ragione, si barrica nella sua stanza per integrale rifiuto della realtà abominevole, sino a respingere le suppliche della figlia incinta e ormai partoriente, sino a rimanere stroncato da un colpo apoplettico. Eroe dell’onore, morto sul campo: galantuomo di una razza di cui s’è perduto lo stampo o, secondo una valutazione meno ottimistica, un «pazzo furioso». In ogni caso, leader in una comunità di folli. Si indovina, in questo familismo patologico e lacerato, un retroterra psichico di natura edipica. Se non ci si fa ingannare dall’enfasi dei sentimenti, qui sta acquattata la logica esorcistica del figlio cambiato.

            È troppo? Per amor di tesi lo scrittore accumula troppi elementi, calcolando per giunta l’effetto in sovraccarico di coincidenze che portano al parossismo la situazione? Sicuramente lo anima una straordinaria tensione, che è la pressione che l’ambiente ha esercitato su di lui, alimentando il suo bisogno di fuga, che si esprime attraverso il suo personaggio portavoce, mimetizzato al femminile.

            Questa tensione e aggressività la percepiamo con evidenza nella ritrattistica dell’esordiente romanziere: nei membri della famiglia Pentagora, nel profilo del “mostro ” Matteo Falcone dai piedi deformi, nuovo e non autorizzato spasimante della donna, e della sua casa abitata da due anziane da incubo, nel grottesco della grassona Juè e dei suoi due mariti tra loro fratelli. Diciamo la verità, la percepiamo, al di là di singoli esempi, praticamente a ogni pagina; quella “pena di vivere” che è un connotante sentimento pirandelliano, qui è espressa con un’energia che, non foss’altro, attesta un’eccezionale esperienza spirituale alla sua sorgente, la quale deve fare il suo corso e difatti negli anni sarà come un fiume in piena e riempirà migliaia di pagine.

           Si noti che a fronte di questa galleria del brutto sta la figura di Marta, offesa socialmente ma apprezzata per la sua bellezza. Ma se dovessimo immaginare un volto per questa donna, saremmo in difficoltà, a parte gli accenni alle guance colorite e alle labbra accese, che però sono piuttosto psicologici che anatomici. Come se Pirandello non avesse pensato a dare davvero un volto a un personaggio che gli assomiglia troppo, a dispetto del travestimento. Si veda l’episodio della Madonnina portata alla convalescente Marta, per un sorteggio che la favorisce e che non può non far rammentare a rovescio la novella omonima, dove il bambino perde la fede proprio per l’uso strumentale che il prete ne fa per convincerlo o per adescarlo. Episodio qui positivo, che tuttavia è smentito in forma assai più aggravata dall’infamia della processione dei Santi Cosimo e Damiano, dalle teste ferrate dei Santi brandite contro la ringhiera del balcone, equivalente di una lapidazione pubblica della colpevole da parte del villaggio.

            Esclusa. Un titolo bellissimo e radicale per un’opera prima che affonda la lama nel ventre oscuro della crisi e dispone i preparativi di un rifiuto progressivo e di una fuga.

            La famiglia si dibatte nel conflitto tra onta e onore, nel terrore dello scandalo sempre imminente, e dal suo interno si alza angosciosa la deprecazione contro i mariti, contro i figli, ovviamente contro le mogli, tenuto conto del potere maschile nella tribù. La lettera, che è il principale strumento della comunicazione, mentre vorrebbe contribuire a un chiarimento in quel magma collettivo e individuale di pregiudizi e di ignoranza, determina l’affioramento delle contraddizioni, l’esplosione del conflitto ormai inevitabile. I personaggi si rinfacciano sia l’inerzia che l’eventuale azione, si affibbiano reciprocamente la patente di pazzi, che è il lasciapassare della libertà.

            Se si fa attenzione, nel compatto di questa vicenda ancora naturalistica si agitano i fermenti dell’anima pirandelliana, i temi della sua arte successiva, persino la sua predestinazione al linguaggio drammaturgico.

            L’esclusione è progressiva, verticale ma visualizzata anche geograficamente. Il movimento è dal chiuso soffocante del nucleo familiare, dalla stanza ossessiva della tortura in cui altri invece si barrica, verso un esterno, che è sempre più lontano. Dal profilo di una Girgenti funestata dalla luce, eccezionalmente senza il dualismo dei templi greci che offrono una diversa memoria e promettono un riscatto, e che copre per intero la Parte Prima dell’opera, verso Palermo, in cui nulla cambia, e dove la perdita delle radici comincia a diventare alienazione. Verso Roma, dove ha fatto carriera il deputato Alvignani, a sua volta deluso e difatti tentato sulla corsia del ritorno. «Vivere! Vivere!», così esortava nella trappola delle sue lettere l’Alvignani. La realtà dell’esclusione anela, come nell’abbraccio di un’ombra infera, al fantasma della Vita.

            Nascosto, uno schema che, pur con variazioni, ricalca quello del ciclo dei Vinti. Ma la posizione pirandelliana è integrale, più metafisica, perché più intellettuale. Una somma di disgrazie – la barbarie degli affetti, l’equivoco dei rapporti sociali, le gravidanze infruttuose, l’imprevedibilità stessa dell’esistenza – favorisce la crescita del personaggio, la sua sfida nei confronti del mondo, in altri termini la sua fuoriuscita.

            Come si manifesta questa sfida? Ecco l’amletico problema. Siccome a lanciare la sfida è una donna, sarà l’istruzione, e l’indipendenza attraverso l’istruzione. Ma non è sufficiente. Marta alla fine compie quell’adulterio, a cui tutti paradossalmente hanno congiurato, ma anche allora non sceglie, vi cade per fatalità, senza vendetta. Cede senza concedere.

            Non ha mai amato nessuno – confessa – né il marito né l’amante. Il vero scandalo, in fondo, è questo: prima c’era la colpa, ma senza peccato; poi c’è il peccato, ma senza sesso, senza sesso che sia godimento. Marta Ajala, donna perduta, non è – lo avevamo inteso da un pezzo – la splendida, sensuale e passionale Anna Karenina, la quale si uccide per il conflitto straziante tra l’amante e il marito.

            Pirandello nella lettera orgogliosa di dedica a Capuana sottolinea il rovesciamento che è lo snodo della vicenda: il personaggio è schiacciato dalla società quando è innocente, ed è o sarebbe riammesso quando si macchia di quella colpa a cui è stato costretto: qui è il «fondo… essenzialmente umoristico del romanzo», secondo l’autore che si preoccupa di retrodatare il più possibile il gancio e il marchingegno della sua poetica matura. Ma, al di là dello spettacolare capovolgimento, cosa c’è di umoristico in questa vicenda disperata?

            Cosa c’è di umoristico nell’epilogo? L’esclusione diviene ormai autoesclusione. Suicidio? Suicidio alla Karenina, in una stazione sotto un treno, o annegata in qualche spiaggia deserta? Marta grida più volte la sua determinazione irrevocabile, incerta se rivelare la sua nuova gravidanza. Ma un dubbio rimane. Ed è il dubbio del suo autore, che da un’edizione all’altra significativamente modifica lo scenario, preferendo l’ambiguità, che non nega il pur impossibile rientro dell’esclusa.

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Parte prima
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