Legge Valter Zanardi.
«Vorrei che prima di condannare, tentassimo di esaminar bene, se ci riesce, il prò e il contro, senza servirci di quelle parole che sono come le mosche d’agosto pronte ad accorrere a ogni lagrima o a ogni sputo (scusate).»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 29 agosto 1894, poi in Beffe della morte e della vita, prima serie, Lumachi, Firenze.
Le tre carissime
Legge Valter Zanardi
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Quelle tre ragazze che s’incontravano dappertutto: ai concerti: a ogni prima rappresentazione, sempre in un palchetto di platea, o a passeggio, al Pincio o per il Corso, sul tramonto, l’una con la madre bianca e stanca a braccetto, le altre due avanti, vestite sempre un po’ alla bizzarra. Quelle, sì: le Marùccoli.
Povere figliuole, dopo tanti sacrifizii, a un certo punto, perdettero la pazienza e, insieme, la stima di quanti nello stesso caso non avrebbero avuto il coraggio di far come loro (dico il coraggio, non il desiderio). Ricordo che scoppio d’indignazione, allora! Le mamme specialmente non se ne potevano dar pace in presenza delle loro figliuole, e battevano le mani, inorridite, esclamando:
– Che mondo! che mondo!
E io, a sentirle, sorridevo tra me, studiando l’aria compunta e stordita delle loro timorate figliuole.
Ci vengono effettivamente dalla società un buon numero di leggi e regolamenti, che dovrebbero tenere a freno questa mala bestia che si chiama uomo. Da secoli la società s’industria a insegnarle la creanza, a farle dire per esempio: Buon giorno o buona sera; ad andar vestita decentemente per via, diritta su due zampe soltanto, ecc. ecc. Ma ogni tanto la mala bestia ne fa qualcuna delle sue. Che è che non è, ce la pigliamo con la società, come se da essa ci venisse il danno, solo perché abbiamo voluto costringerla a imporre alla natura certi doveri, che questa poi non vuole né riconoscere né rispettare. Quasi che una donna non possa amare neanche per isbaglio un altr’uomo che non sia precisamente suo marito, solo perché dalla società le si è fatto dire che una moglie non deve. La società, poverina, lo dice e lo impone; ma che colpa ha, se la natura poi se ne ride?
Come pare, voi dite, che non sono ammogliato!
Veniamo al caso delle Marùccoli.
Vorrei che prima di condannare, tentassimo di esaminar bene, se ci riesce, il prò e il contro, senza servirci di quelle parole che sono come le mosche d’agosto pronte ad accorrere a ogni lagrima o a ogni sputo (scusate).
Non sapete tante cose, delle quali a prima giunta pare che non si debba tener conto, ma che pure hanno o dovrebbero avere il maggior peso nella famosa bilancia della giustizia.
Non vi meravigliate per tanto, se a un piatto di questa bilancia mi vedrete, fra l’altro, recare a bracciate tante cose che ancora m’ubriacano. Ecco: tutti questi abiti smessi delle tre povere figliuole. Voi ignorate che uscivano dalle loro mani questi abiti tanto ammirati per la loro bizzarra leggiadria: la madre, espertissima, tagliava, e loro tre imbastivano, cucivano a mano e a macchina per intere giornate, come tre gaje sartine. E non sapete che coi pizzi e i nastri appendevano a ogni abito la speranza, che con quello avrebbero finalmente dato nell’occhio a qualcuno che le avrebbe sposate.
La madre aveva una modestissima pensione lasciatale dal marito (quel bravo signor Carlo Marùccoli, che tutti poi riconobbero per un gran galantuomo: ah lui, sì! – perché era morto, lui, quando avvenne lo scandalo); e avevano anche una piccola vigna – come la chiamano a Roma – con un grazioso villino oltre Ponte Molle; ma né questa né quella potevano bastare a sopperire alle spese.
La vita che conducevano si reggeva dunque su miracoli d’economie segrete e sacrifizii dissimulati con ogni arte. Erano sempre liete le tre care figliuole, né quel loro cocente e onestissimo desiderio d’un marito le rendeva mai fastidiose, specialmente con noi (dico con me e col povero Tranzi), di cui del resto conoscevano la buona volontà che avremmo avuto di farle felici, se… Il se, ve lo immaginerete facilmente: io, un povero pittore; il Tranzi, maestro di musica. Arti belle, non dico di no; ma buone da mantenerci la moglie, non credo.
Nessuno mai, prima, le aveva giudicate civette. Ora, si sa, ora tutti i vizii, tutti i difetti erano in loro. Non me ne faccio nient’affatto il paladino: domandatene pure a tanti altri che frequentavano con me la casa. Chi può dire d’aver mai ricevuto un anche minimo incitamento da loro? Si scherzava, si rideva, si sfrottolava del più e del meno, la sera, ma nei modi più leciti e corretti, come si deve davanti a tre fanciulle che, occorrendo, col tatto e col garbo più squisito, avrebbero saputo mettere a posto chiunque dalla festosità della conversazione si fosse sentito spinto a eccedere un po’ nei gesti o nelle parole.
Ma che non fossero civette, una prova posso darvela io, a mie spese e a spese del povero Tranzi. Perché non dirlo? Io ero innamorato della seconda; il Tranzi, di Giorgina, la maggiore. Qualche sera, nel lasciar la loro casa, conversando tra noi, sinceramente ci affliggevamo che le tre buone, belle e care ragazze non riuscissero a trovar marito e, non potendo esser noi, per due di esse almeno, avremmo voluto che fossero altri che lo potevano, ai quali davamo di bestie perché, non sentendosi in alcun modo particolarmente incoraggiati, non sapevano decidersi. Orbene, io e il Tranzi, più d’una volta, a qualcuno di costoro che sbuffava contro la noja della propria esistenza oziosa e si dichiarava stanco della vita, arrivammo finanche a dar per ricetta infallibile di sposare una delle Marùccoli. Soltanto, poiché Irene non raccoglieva tante simpatie quanto le altre due, io consigliavo Giorgina; il Tranzi, Carlotta; cioè, io la sua, e lui la mia.
Ma con l’una o con l’altra delle tre quegli sciocchi sarebbero guariti senza dubbio della noja e d’ogni altro male, giacché ciascuna avrebbe reso lieta la vita al proprio marito. A uno a uno, invece, quegli sciocchi, dopo aver goduto un pezzo della dolce compagnia e lusingato forse con gli sguardi o con graziose premure le tre ragazze, andavano a prender moglie altrove; e se ne pentivano dopo.
Io davo a Giorgina lezioni di pittura, a tempo perso. Il Tranzi insegnava con più regolarità a Carlotta musica e canto. L’una e l’altra ci si dimostravano gratissime del poco che facevamo per loro. Dico di più. Dico anche quello che un altro forse non direbbe per paura del ridicolo. Quando, qualche sera, comparivano in salotto a noi due soli, abbigliate con qualche abito nuovo, già pronte per recarsi o in casa di famiglie amiche o a teatro, si accorgevano tutt’e tre del desiderio che suscitavano in noi; e per il nostro desiderio segreto, ma sfavillante dagli occhi, avevano uno sguardo e un sorriso indefinibile, di compiacimento per sé e di pietà per noi. Irene intendeva più di tutte e arrossiva confusa e, a cancellare la confusione, ci domandava con una grazia indicibile, guardandosi l’abito:
– Siamo belle così?
Oh, potrei fare, su questo proposito, un lungo discorso su quel che gli occhi dicono, quando le labbra non debbono parlare. Allorché Carlotta, per esempio, attendeva quasi per scrupolo di coscienza a qualche imbecille che le stava attorno con soverchia insistenza, spesso parlandogli o ridendogli, volgeva uno sguardo a me, e quello sguardo mi compassionava amorosamente; mi diceva:
– Dovresti esser tu!
Perché gli occhi di Carlotta vi assicuro che mi davano del tu. Delle tre, Carlotta, era la più bella, almeno per me; Irene, la più intelligente; Giorgina la più piacente.
Il ritratto che feci di loro a gruppo, è certo la meno peggio delle cose mie. Lo esposi a Monaco, tanti anni fa, col titolo: Le tre carissime. Fu venduto e ora non so più chi lo possegga e dove sia andato a finire.
Con me e col Tranzi, nessuna ipocrisia, mai! Quando, in teatro, vedevamo qualcuna di loro più del solito raggiante, bastava farle un cenno del capo, perché intendesse. E il cenno significava.
– Abbiamo trovato?
– No! – rispondeva la testina, scrollandosi vivacemente, con gli occhi socchiusi e un sorriso birichino su le labbra.
Non trovavano, non trovavano ancora, non trovavano mai quelle tre care ragazze!
Ebbene, un bel giorno, si stancarono; perdettero la pazienza, alla fine.
Chi sa da quanto tempo frenavano, dentro, le smanie della loro speranza frustrata di continuo e reprimevano i segni delle loro disillusioni! Il primo segno ch’io potei scorgere, e che m’è rimasto impresso come, in un dramma, una frase che lasci intravedere la catastrofe, fu quella mattina che dovevamo recarci alla vigna di Ponte Molle, e Giorgina si presentò al Tranzi col capo chino, reggendo in alto con due dita un filo d’argento allungato dal sommo della fronte, al quale gli occhi si sforzavano d’alzarsi per guardarlo e si storcevano.
– Tranzi, un capello bianco!
Perché aveva già varcato la trentina. Avevo notato in quegli ultimi tempi che s’era accostata con insolita insistenza ad Arnaldo Ruffo, uno dei più assidui frequentatori della casa; poi, che s’era messa d’improvviso a parlare di lui con acredine non meno insolita; e che s’era voltata infine a tormentare il Tranzi, sferzando la pigrizia di lui, dicendogli che non aveva alcun diritto di lamentarsi della ingiustizia della sorte, giacché egli non voleva far più nulla e nulla tentare per far valere le sue doti artistiche; aveva l’abbozzo di un’opera giovanile? ebbene; perché non lo ripigliava? perché non si dava a qualche altro lavoro?
Quasi con le lagrime a gli occhi il povero Tranzi allora le rivelò le segrete miserie di cui era piena la sua vita; le disse tra l’altro che, da circa un anno, aveva dovuto finanche privarsi del pianoforte che teneva a nolo. Senz’altro, allora, Giorgina gli propose di lavorare lì, in casa loro, mettendo a disposizione di lui il pianoforte, di cui avrebbe potuto servirsi con la massima libertà: lo avrebbero lasciato solo nel salotto; la famiglia si sarebbe ritirata al lato opposto della casa. Tanto disse, tanto fece, che lo costrinse ad accettare. So che arrivò finanche a chiuderlo a chiave nel salotto; e la chiave la teneva lei.
Chi sa che la scoperta di quel capello bianco, insieme con tante altre piccole cose tristi, su cui gli occhi fino allora si erano chiusi con pena, non abbia determinato davvero in lei, e conseguentemente nelle sorelle, la ribellione! La quale fu tanto più violenta quanto più lunga e paziente era stata la speranza, che a un tratto dovette loro apparir vana e quasi derisoria.
Ho sentito più d’uno incolpare la maggiore delle Marùccoli del suicidio di Angiolo Tranzi. E un’infamia. Che colpa ebbe la Marùccoli, se il Tranzi volle farsi un rimorso della gioja che ella, improvvisamente, nella sua ribellione contro il tempo perduto nella vana attesa, e contro la sorte che la condannava ad appassire senz’amore, gli volle concedere, deliberatamente, quasi in premio al lungo desiderio di lui rassegnato al silenzio?
No, no: il Tranzi, l’ho conosciuto bene, era troppo tarlato dentro, e non potè resistere alla irruzione su lui di questa gioja ardentissima, ribelle a ogni pregiudizio. Il tarlo di troppi disinganni lo aveva roso dentro, tutto; all’urto della gioja, si infranse.
Io lo vidi quel giorno rincasare con gli occhi gonfi e rossi: s’era messo a piangere, capite? – dopo. E dovette piangere a lungo, certo convinto d’aver commesso un delitto; e la donna, la ragazza, dovette confortarlo, rianimarlo, scacciando l’ombra del rimorso, con cui egli voleva offuscare a lei, in quel momento, il sole della gioja recente. E chi sa! l’avvilimento per questa scena, nel tumulto interno, nella improvvisa dissociazione di tanti sentimenti e di tanti pensieri, forse avrà pure contribuito a determinare in lui l’atto violento contro se stesso.
E la Marùccoli non lo pianse: della morte di lui anzi si sentì ferita, come d’un insulto.
Tutt’e tre le sorelle si ritirarono allora nel bel villino della vigna. Per un ritegno più facile a intendere che a definire, io, dopo la morte del Tranzi, mi astenni dal visitarle laggiù. Non saprei più darne perciò notizie precise. So che il villino fu sempre molto frequentato, ma che i più assidui, dopo un certo tempo, si allontanavano per dar posto ad altri.
Le tre sorelle senza più alcun freno, nella libertà della campagna, parevano addirittura impazzite; facevano i più strani disegni per l’avvenire: Giorgina si sarebbe consacrata alla pittura; e ogni mattina, con un cappellaccio di paglia in capo, florida, esuberante di forza e di salute, usciva all’aperto a sfidare a duello i cipressetti di Monte Mario: arma, il pennello; luogo, una tavoletta, finché i raggi del sole non dicevano basta. Carlotta – mi dissero – s’era più che mai confermata nell’idea d’aver nella propria gola il tesoro d’una bellissima voce di contralto, con la quale istupidiva ogni dopo pranzo le pazienti orecchie d’un decrepito maestrucolo di canto. Irene s’era fisso il chiodo di far l’attrice drammatica, e declamava ad altissima voce, con grandi gesti, condannando la vecchia madre a farle la controparte. La povera vecchietta, paziente, la secondava, stando seduta e leggendo placidamente con gli occhiali su la punta del naso:
Odetto: – Voi pretendete obbligarmi ad uscire?
Conte: (leggeva la madre): – Di casa mia… Sì, e sul momento.
Odetto: – E mia figlia?
Conte: – Oh, mia figlia… La tengo meco.
Odetto: – Qui? Senza di me?
Conte: – Senza di voi.
Odetto: – Via! voi siete pazzo, signore… Mia figlia mi appartiene, e voi non isperate di separarmi da lei.
Così, finché non tornò al villino, dopo alcuni mesi d’assenza, uno degli assidui che si erano pe’ primi eclissati: voglio dire il Ruffo.
Arnaldo Ruffo, ve l’ho accennato, prima dell’avventura del povero Tranzi aveva fatto concepire serie speranze a Giorgina. Era uno di quelli che potevano, benché due capatine a Monte Carlo avessero scemato di molto le sue sostanze: bel giovane, alto, bruno, solido: il marito che ci voleva per Giorgina. Il primo amore, in lui, col possesso, divampò, diventò passione violenta. Pare che i parenti abbiano tentato di strapparlo alla ragazza una seconda volta, costringendolo a provare la sciocca medicina di un viaggetto di distrazione. Tornato, come una farfalletta al lume, al villino Marùccoli, pare altresì che abbia trovato Giorgina innamorata già di un altro assiduo del momento e che nel villino siano accadute furibonde scene di gelosia. Alcuni amici mi raccontarono di aver sorpreso, una sera, nel bujo d’un viale, questo brano di dialogo:
– Ebbene, e tu allora sposami!
E la voce del Ruffo, concitata, sorda:
– No! No! No!
Allora, una gran risata dispettosa di Giorgina:
– E allora, lasciami in pace!
Il resto lo sapete.
Da due anni ormai, Giorgina Marùccoli è legittima sposa di Arnaldo Ruffo. Dopo Giorgina si maritò Carlotta, subito. Irene è ancora fidanzata. Mi sono imbattuto l’altro jeri nel promesso sposo, in gran faccende per il nido: è contentone! e m’ha detto che sposerà prestissimo.
Capite? Prima, no; poi, sì. Ci ho gusto per i signori uomini! Anzi, guardate, quasi quasi, ora – dopo tanto tempo – sarei tentato di fare una visita di congratulazione a Giorgina, la coraggiosa. Non è molto felice, poverina: ha il marito geloso del passato – (stupido! come se la colpa non fosse sua). – Ma, dopo tutto, chi è felice in questo mondo?
Ora intanto, tra poco, tutt’e tre avranno uno stato, finalmente una casa, uno scopo nella vita: quello che desideravano onestamente. E già sulle ginocchia della nonnina, che sarà ridotta più bianca della cera, dorme roseo il primo nipotino. Mi figuro la buona vecchietta nell’atto di contemplarlo, beata, mentre con una mano tremula allontana una mosca ostinata, che vuol posarsi giusto lì, sul tondo visetto caro.
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