064. Le medaglie – Novella

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Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 21 agosto 1904, poi in Erma bifronte, Treves Milano 1906.
«Li conosceva dunque davvero tutti gli orrori della guerra; tutto ciò che narrava, lo aveva veduto, sentito, provato; c’era stato insomma davvero, alla guerra, quantunque non vi avesse preso parte attiva.»

Novella dalla Raccolta “La mosca” (1923)

««« Introduzione alle novelle

Le medaglie
Renato Guttuso ( 1911 – 1987), Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, 1951-52, Uffizi, Firenze

Le medaglie – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Le medaglie – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

4. Le medaglie – 1904

Sciaramè, quella mattina, s’aggirava per la sua cameretta come una mosca senza capo. Più d’una volta Rorò, la figliastra, s’era fatta all’uscio, a domandargli:

– Che cerca?

E lui, dissimulando subito il turbamento, frenando la smania, le aveva risposto, dapprima, con una faccetta morbida, ingenua:

–    Il bastone, cerco. E Rorò:

–    Ma lì, non vede? All’angolo del canterano.

Ed era entrata a prenderglielo. Poco dopo, a una nuova domanda di Rorò, aveva ancora trovato modo di dirle che gli bisognava un… sì, un fazzoletto pulito. E lo aveva avuto; ma ecco, non si risolveva ancora ad andarsene.

La verità era questa: che Sciaramè, quella mattina, cercava il coraggio di dire una certa cosa alla figliastra; e non lo trovava. Non lo trovava, perché aveva di lei la stessa suggezione che aveva già avuto della moglie, morta da circa sette anni. Di crepacuore, sosteneva Rorò, per la imbecillità di lui.

Perché Carlandrea Sciaramè, agiato un tempo, aveva perduto a un certo punto il dominio dei venti e delle piogge, e dopo una serie di mal’annate, aveva dovuto vendere il poderetto e poi la casa e, a sessantotto anni, adattarsi a fare il sensale d’agrumi. Prima li vendeva lui, gli agrumi, ch’erano il maggior prodotto del podere (li vendeva per modo di dire: se li lasciava rubare, portar via per una manciata di soldi dai sensali ladri); ora avrebbe dovuto farla lui la parte del ladro, e figurarsi come ci riusciva!

Già, non gliela lasciavano nemmeno mettere in prova. Una volta tanto, qualche affaruccio, per pagargli la senseria, come carità. E per guadagnarsela, quella senseria, doveva correre, povero vecchio, un’intera giornata, infermiccio com’era, gracile, malato di cuore, con quei piedi gonfi, imbarcati in certe scarpacce di panno sforacchiate. Quand’era al vespro, rincasava, disfatto e cadente, con due lirette in mano, sì e no.

La gente però credeva che di tutte le pene che gli toccava patire si rifacesse poi nelle grandi giornate del calendario patriottico, nelle ricorrenze delle feste nazionali, allorché con la camicia rossa scolorita, il fazzoletto al collo, il cappello a cono sprofondato fin su la nuca, recava in trionfo le sue medaglie garibaldine del Sessanta.

Sette medaglie!

Eppure, arrancando in fila coi commilitoni nel corteo, dietro la bandiera del sodalizio dei Reduci, Sciaramè sembrava un povero cane sperduto. Spesso levava un braccio, il sinistro, e con la mano tremicchiante o si stirava sotto il mento la floscia giogaja o tentava di pinzarsi i peluzzi ispidi sul labbro rientrato; e insomma pareva facesse di tutto per nascondere così, sotto quel braccio levato, le medaglie, dando a ogni modo a vedere che non gli piaceva farne pompa.

             Molti, vedendolo passare, gli gridavano:

             – Viva la patria, Sciaramè!

             E lui sorrideva, abbassando gli occhietti calvi, quasi mortificato, e rispondeva piano, come a se stesso:

             – Viva… viva…

             La Società dei Reduci Garibaldini aveva sede nella stanza a pianterreno dell’unica casupola rimasta a Sciaramè di tutte le sue proprietà. Egli abitava su, con la figliastra, in due camerette, a cui si accedeva per una scaletta da quella stanza terrena. Su la porta era una tabella, ove a grosse lettere rosse era scritto:

             REDUCI GARIBALDINI

             Dalla finestra di Rorò s’allungava graziosamente su quella tabella una rappa vagabonda di gelsomini.

             Nella stanza, un tavolone coperto da un tappeto verde, per la presidenza e il consiglio; un altro, più piccolo, per i giornali e le riviste; una scansia rustica a tre palchetti, polverosa, piena di libri in gran parte intonsi; alle pareti, un gran ritratto oleografico di Garibaldi; uno, di minor dimensione, di Mazzini, uno, ancor più piccolo, di Carlo Cattaneo; e poi una stampa commemorativa della Morte dell’Eroe dei Due Mondi, fra nastri, lumi e bandiere.

             Rorò, ogni giorno, rassettate le due camerette di sopra, indossata una ormai famosa camicetta rossa fiammante, scendeva in quella stanza a terreno e sedeva presso la porta a conversare con le vicine, lavorando all’uncinetto. Era una bella ragazza, bruna e florida, e la chiamavano la Garibaldina.

             Ora Sciaramè, quel giorno, doveva dire appunto alla figliastra di non scendere più in quella stanza, sede della Società, e di rimanersene invece a lavorare su, nella sua cameretta, perché Amilcare Bellone, presidente dei Reduci, s’era lamentato con lui, non propriamente di quest’abitudine di Rorò, ch’era infine la padrona di casa, ma perché, con la scusa di venire a leggere i giornali, vi entrava quasi ogni mattina un giovinastro, un tal Rosolino La Rosa, il quale, per essere andato in Grecia insieme con tre altri giovanotti del paese, il Betti, il Gàsperi e il Marcolini, a combattere nientemeno contro la Turchia, si credeva garibaldino anche lui.

             Il La Rosa, ricco e fannullone, era orgoglioso di questa sua impresa giovanile; se n’era fatta quasi una fissazione, e non sapeva più parlar d’altro. Uno de’ suoi tre compagni, il Gàsperi, era stato ferito leggermente a Domokòs; ed egli se ne vantava quasi la ferita fosse invece toccata a lui. Era anche un bel giovane, Rosolino La Rosa: alto, smilzo, con una lunga barba quadra, biondo rossastra, e un pajo di baffoni in su, che, a stirarli bene, avrebbe potuto annodarseli come niente dietro la nuca.

             Ci voleva poco a capire che non veniva nella sede dei Reduci per leggere i giornali e le riviste, ma per farsi vedere lì come uno di casa tra i garibaldini, e anche per fare un po’ all’amore con Rorò dalla camicetta rossa.

             Sciaramè lo aveva capito anche lui; ma sapeva pure che Rorò era molto accorta e che il giovanotto era ricco e sventato. Poteva egli, in coscienza, troncare la probabilità d’un matrimonio vantaggioso per la figliastra? Egli era vecchio e povero; tra breve, dunque, come sarebbe rimasta quella ragazza, se non riusciva a procurarsi un marito? Poi, non era veramente suo padre e non aveva perciò tanta autorità su lei da proibirle di fare una cosa, in cui non solo riteneva che non ci fosse nulla di male, ma da cui anzi prevedeva che potesse derivarle un gran bene.

             D’altro canto, però, Amilcare Bellone non aveva torto, neanche lui. Questi erano affari di famiglia, in cui la Società dei Reduci non aveva che vedere. Già nella via si sparlava di quell’intrighetto del La Rosa e di Rorò, a cui pareva tenesse mano la Società; e il Bellone, ch’era di questa e del suo buon nome giustamente geloso, non poteva permetterlo. Che fare intanto? Come muoverne il discorso a Rorò?

             Era da più di un’ora tra le spine il povero Sciaramè, quando Rorò stessa venne a offrirgliene il modo.

             Già acconciata con la sua camicetta rossa fiammante, entrò nella camera del patrigno, spazientita:

             –    Insomma, esce o non esce questa mattina? Non mi ha fatto neanche rassettare la camera! Me ne scendo giù.

             –    Aspetta, Rorò, senti, – cominciò allora Sciaramè, facendosi coraggio. – Volevo dirti proprio questo.

             – Che?

             –   Che tu, ecco, sì… dico, non potresti, dico, non ti piacerebbe lavorare quassù, in camera tua, piuttosto che giù?

             –    E perché?

             –    Ma, ecco, perché giù; sai? i… i socii… Rorò aggrottò subito le ciglia.

             –    Novità? Scusi, si sono messi forse a pagarle la pigione, i signori Reduci? Sciaramè fece un sorrisino scemo, come se Rorò avesse detto una bella spiri tosaggine.

             –    Già, – disse. – È vero, non… non pagano la pigione.

             –    E che vogliono dunque? – incalzò, fiera, Rorò. – Che pretendono? Dettar legge, per giunta, in casa nostra?

             –    No: che c’entra! – si provò a replicare Sciaramè. – Sai che fui io, che volli io offrir loro…

             –    La sera, – concesse, per tagliar corto Rorò. – La sera, padronissimi! giacché lei ebbe la felicissima idea d’ospitarli qua. E so io quel che mi ci vuole ogni notte a prender sonno, con tutte le loro chiacchiere e le canzonacce che cantano, ubriachi! Ma basta, Ora pretenderebbero che io…?

             –    Non per te, – cercò d’interromperla Sciaramè, – non per te, propriamente, figliuola mia…

             –    Ho capito! – disse, infoscandosi, Rorò. – Avevo capito anche prima che lei si mettesse a parlare. Ma risponda ai signori Reduci così: che si facciano gli affari loro, che ai miei ci bado io; se questo loro non accomoda, se ne vadano, che mi faranno un grandissimo piacere. Io ricevo in casa mia chi mi pare e piace. Devo renderne conto soltanto a lei. Dica un po’: forse lei non si fida più di me?

             –    Io sì, io sì, figliuola mia!

             –    E dunque, basta così! Non ho altro da dirle.

             E Rorò, più rossa in volto della sua camicetta, voltò le spalle e se ne scese giù, con un diavolo per capello.

             Sciaramè diede un’ingollatina, poi rimase in mezzo alla camera a stirarsi il labbro e a battere le palpebre, stizzito, non sapeva bene se contro se stesso o contro Rorò o contro i Reduci. Ma qualche cosa bisognava infine che facesse. Intanto, questa: uscir fuori. Un po’ d’aria! All’aria aperta, chi sa! qualche idea gli sarebbe venuta.

             E scese la scaletta, con una mano appoggiata al muro e l’altra al bastoncino che mandava innanzi; poi giù un piede gonfio e poi l’altro, soffiando per le nari, a ogni scalino, la pena e lo stento; attraversò la stanza terrena e uscì senza dir nulla a Rorò, che già parlava con una vicina e non si voltò neppure a guardarlo.

             Ah che sollievo sarebbe stato per lui se questa benedetta figliuola si fosse maritata, magari con qualche altro giovine, se non proprio col La Rosa! Col La Rosa, veramente – a pensarci bene – gli sembrava difficile: punto primo, perché Rorò era povera; poi, perché la chiamavano la Garibaldina, e i signori La Rosa, invece, per il figliuolo sventato cercavano una ragazza assennata, senza fumi patriottici. Non che Rorò ne avesse: non ne aveva mai avuti; ma s’era fatta pur troppo questa fama, e forse ora se n’avvaleva, come d’una ragna a cui nessuno poteva dire che lei avesse posto mano, per farvi cascare quel farfallino del La Rosa.

             «Magari!» sospirava tra sé e sé Sciaramè, pensando che, veramente, pareva già avviluppato bene il farfallino.

             Via, come andare a guastar quella ragna proprio adesso, per far piacere ai signori Reduci che non pagavano neppure la pigione? E in che consisteva, alla fin fine, tutto il male per Amilcare Bellone? Nel fatto che il La Rosa aveva portato in Grecia la camicia rossa. Dispetto e gelosia! La camicia rossa addosso a quel giovanotto pareva a quel benedett’uomo un vero e proprio sacrilegio, e lo faceva infuriare come un toro. Se a leggere i giornali, là dai Reduci, fosse venuto qualche altro giovanotto, certo non se ne sarebbe curato.

             Così pensando, Sciaramè pervenne alla piazza principale del paese e andò a sedere, com’era solito, davanti a uno dei tavolini del Caffè, disposti sul marciapiede.

             Lì seduto, ogni giorno, aspettava che qualcuno lo chiamasse per qualche commissione: aspettando, mangiato dalle mosche e dalla noja, s’addormentava. Non prendeva mai nulla, in quel Caffè, neanche un bicchier d’acqua con lo schizzo di fumetto; ma il padrone lo sopportava perché spesso gli avventori si spassavano con lui forzandolo a parlare e di Calatafimi e dell’entrata di Garibaldi a Palermo e di Milazzo e del Volturno. Sciaramè ne parlava con accorata tristezza, tentennando il capo e socchiudendo gli occhietti calvi. Ricordava gli episodii pietosi, i morti, i feriti, senz’alcuna esaltazione e senza mai vantarsi. Sicché, alla fine, quelli che lo avevano spinto a parlare per goderselo, restavano afflitti, invece, a considerare come l’antico fervore di quel vecchietto fosse caduto e si fosse spento nella miseria dei tristi anni sopravvissuti.

             Vedendolo, quella mattina, più oppresso del solito, uno degli avventori gli gridò:

             – E su, coraggio, Sciaramè! Tra pochi giorni sarà la festa dello Statuto. Faremo prendere un po’ d’aria alla vecchia camicia rossa!

             Sciaramè fece scattare in aria una mano, in un gesto che voleva dire che aveva altro per il capo. Stava per posare il mento su le mani appoggiate al pomo del bastoncino, quando si sentì chiamare rabbiosamente da Amilcare Bellone sopravvenuto come una bufera. Sobbalzò e si levò in piedi, sotto lo sguardo iroso del Presidente della Società dei Reduci.

             – Gliel’ho detto, sai: a Rorò. Gliel’ho detto questa mattina – premise, per ammansarlo, accostandoglisi.

             Ma il Bellone lo afferrò per un braccio, lo tirò a sé e, mettendogli un pugno sotto il naso, gli gridò:

             –    Ma se è là! – Chi?

             –    Il La Rosa! – Là?

             –    Sì, e adesso te lo accomodo io. Te lo caccio via io, a pedate!

             – Per carità! – scongiurò Sciaramè. – Non facciamo scandali! Lascia andar me. Ti prometto che non ci metterà più piede. Credevo che bastasse averlo detto a Rorò… Ci andrò io, lascia fare!

             Il Bellone sghignò; poi, senza lasciargli il braccio, gli domandò:

             – Vuoi sapere che cosa sei?

             Sciaramè sorrise amaramente, stringendosi nelle spalle.

             – Mammalucco? – disse. – E te ne accorgi adesso? Lo so da tanto tempo, io, bello mio.

             E s’avviò, curvo, scotendo il capo, appoggiato al bastoncino.

             Quando Rorò, che se ne stava seduta presso la porta, scorse il patrigno da lontano, fece segno a Rosolino La Rosa di scostarsi e di sedere al tavolino dei giornali. Il La Rosa con una gambata fu a posto; aprì sottosopra una rivista, e s’immerse nella lettura.

             E Rorò:

             – Così presto? – domandò al patrigno, col più bel musino duro della terra. – Che le è accaduto?

             Sciaramè guardò prima il La Rosa che se ne stava coi gomiti sul piano del tavolino e la testa tra le mani, poi disse alla figliastra:

             –    Ti avevo pregata di startene su.

             –    E io le ho risposto che a casa mia… – cominciò Rorò; ma Sciaramè la interruppe, minaccioso, alzando il bastoncino e indicandole la scaletta in fondo:

             –    Su, e basta! Debbo dire una parolina qua al signor La Rosa.

             –    A me? – fece questi, come se cascasse dalle nuvole, voltandosi e mostrando la bella barba quadra e i baffoni in su.

             Si levò in piedi, quant’era lungo, e s’accostò a Sciaramè che restò, di fronte a lui, piccino piccino.

             – State, state seduto, prego, caro don Rosolino. Vi volevo dire, ecco… Va’ su tu, Rorò!

             Rosolino La Rosa si spezzò in due per inchinarsi a Rorò, che già s’avviava per la scaletta, borbottando, rabbiosa.

             Sciaramè aspettò che la figliastra fosse su; si volse con un fare umile e sorridente al La Rosa e cominciò:

             –    Voi siete, lo so, un buon giovine, caro don Rosolino mio. Rosolino La Rosa tornò a spezzarsi in due:

             –    Grazie di cuore!

             –    No, è la verità – riprese Sciaramè. E io, per conto mio mi sento onorato…

             –    Grazie di cuore!

             –    Ma no, è la verità, vi dico. Onoratissimo, caro don Rosolino, che veniate qua per… per leggere i giornali. Però, ecco, io qua sono padrone e non sono padrone. Voi vedete: questa è la sede della Società dei Reduci; e io, che sono padrone e non sono padrone, ho verso i miei compagni, verso i socii, una… una certa responsabilità, ecco.

             –    Ma io… – si provò a interrompere Rosolino La Rosa.

             –    Lo so, voi siete un buon giovine – soggiunse subito Sciaramè, protendendo le mani, – venite qua per leggere i giornali; non disturbate nessuno. Questi giornali, però, ecco… questi giornali, caro don Rosolino mio, non sono miei. Fossero miei… ma tutti, figuratevi! Non essendo socio…

             –    Alto là! – esclamò a questo punto il La Rosa, protendendo lui, adesso, le mani, e accigliandosi. – Vi aspettavo qua: che mi diceste questo. Non sono socio? Benissimo. Rispondete ora a me: in Grecia, io, ci sono stato, sì o no?

             –    Ma sicuro che ci siete stato! Chi può metterlo in dubbio?

             –    Benissimo! E la camicia rossa, l’ho portata, sì o no?

             –    Ma sicuro! – ripeté Sciaramè.

             –    Dunque, sono andato, ho combattuto, sono ritornato. Ho prove io, badate, Sciaramè, prove, prove, documenti che parlano chiaro. E allora, sentiamo un po’: secondo voi, che cosa sono io?

             –    Ma un bravo giovinotto siete, un buon figliuolo, non ve l’ho detto?

             –    Grazie tante! – squittì Rosolino La Rosa. – Non voglio saper questo. Secondo voi, sono o non sono garibaldino?

             –    Siete garibaldino? Ma sì, perché no? – rispose, imbalordito, Sciaramè, non sapendo dove il La Rosa volesse andar a parare.

             –    E reduce? – incalzò questi allora. – Sono anche reduce, perché non sono morto e sono ritornato. Va bene? Ora i signori veterani non permettono che io venga qua a leggere i giornali perché non sono socio, è vero? L’avete detto voi stesso. Ebbene: vado or ora a trovare i miei tre compagni reduci di Domokòs, e tutti quattro d’accordo, questa sera stessa, presenteremo una domanda d’ammissione alla Società.

             –    Come? come? – fece Sciaramè, sgranando gli occhi. – Voi socio qua?

             –    E perché no? – domandò Rosolino La Rosa, aggrottando più fieramente le ciglia. – Non ne saremmo forse degni, secondo voi?

             –    Ma sì, non dico…per me, figuratevi! tanto onore e tanto piacere! –esclamò Sciaramè, – Ma gli altri, dico, i… i miei compagni…

             –    Voglio vederli! – concluse minacciosamente il La Rosa. – Io so che ho diritto di far parte di questa Società più di qualche altro; e, all’occorrenza, Sciaramè, potrei dimostrarlo. Avete capito?

             Così dicendo, Rosolino La Rosa prese con due dita il bavero della giacca di Sciaramè e gli diede una scrollatina; poi, guardandolo negli occhi, aggiunse:

             – A questa sera, Sciaramè, siamo intesi?

             Il povero Sciaramè rimase in mezzo alla stanza, sbalordito, a grattarsi la nuca.

             Erano rimasti a far parte della Società dei Reduci poco più d’una dozzina di veterani, nessuno dei quali era nativo del paese. Amilcare Bellone, il presidente, era lombardo, di Brescia; il Nardi e il Navetta romagnoli, e tutti insomma di varie regioni d’Italia, venuti in Sicilia chi per il commercio degli agrumi e chi per quello dello zolfo.

             La Società era sorta, tanti e tanti anni fa, d’improvviso una sera per iniziativa del Bellone. Si doveva festeggiare a Palermo il centenario dei Vespri Siciliani. Alla notizia che Garibaldi sarebbe venuto in Sicilia per quella festa memorabile, s’erano raccolti nel Caffè i pochi garibaldini residenti in paese, con l’intento di recarsi insieme a Palermo a rivedere per l’ultima volta il loro Duce glorioso. La proposta del Bellone, di fondare lì per lì un sodalizio di Reduci che potesse figurare con una bandiera propria nel gran corteo ch’era nel programma di quelle feste, era stata accolta con fervore. Alcuni avventori del Caffè avevano allora indicato al Bellone Carlandrea Sciaramè, che se ne stava al solito appisolato in un cantuccio discosto, e gli avevano detto ch’era anche lui un veterano garibaldino, il vecchio patriota del paese; e il Bellone, acceso dal ricordo dei giovanili entusiasmi e un po’ anche dal vino, gli s’era senz’altro accostato: – Ehi, commilitone! Picciotto! Picciotto!  – Lo aveva scosso dal sonno e chiamato, tra gli evviva, a far parte del nascente sodalizio. Costretto a bere, a quell’ora insolita, tropp’oltre la sua sete, Carlandrea Sciaramè s’era lasciata scappare a sua volta la proposta che, per il momento, la nuova Società avrebbe potuto aver sede nella stanza a terreno nel suo casalino. I Reduci avevano subito accettato; poi,  dimenticandosi che Sciaramè aveva profferto quella stanza precariamente, erano rimasti lì per sempre, senza pagar la pigione.

             Sciaramè però, dando gratis la stanza, aveva il vantaggio di non pagare le tre lirette al mese che pagavano gli altri per l’abbonamento ai giornali, per l’illuminazione, ecc. ecc. Del resto, per lui, il disturbo era, se mai, la sera soltanto, quando i socii si riunivano a bere qualche fiasco di vino, a giocare qualche partitina a briscola, a leggere i giornali e a chiacchierar di politica.

             Nessuno supponeva che il povero Sciaramè, tra la figliastra e il Bellone, fosse come tra l’incudine e il martello. Il presidente bresciano non ammetteva repliche: impetuoso e urlone, s’avventava contro chiunque ardisse contradirlo.

             – I ragazzini! oh! i ragazzini! – cominciò a strillare quella sera, dopo aver letta la domanda del La Rosa e compagnia, quasi ballando dalla bile e agitando la carta sotto il naso dei socii e sghignazzando, con tutto il faccione affocato. – I ragazzini, signori, i ragazzini! Eccoli qua! Le nuove camicie rosse, a tre lire il metro, di ultima fabbrica, signori miei, incignate in Grecia, linde, pulite e senza una macchia! Sedete, sedete; siamo qua tutti; apro la seduta: senza formalità, senz’ordine del giorno, le liquideremo subito subito, con una botta di penna! Sedete, sedete.

             Ma i socii, tranne Sciaramè, gli s’erano stretti attorno per vedere quella carta, come se non volessero crederci e lo affollavano di domande, segnatamente il grasso e sdentato romagnolo Navetta, ch’era un po’ sordo e aveva una gamba di legno, una specie di stanga, su cui il calzone sventolava e che, andando, dava certi cupi tonfi che incutevano ribrezzo.

             Il Bellone si liberò della ressa con una bracciata, andò a prender posto al tavolino della presidenza, sonò il campanello e si mise a leggere la domanda dei giovani con mille smorfie e giocolamenti degli occhi, del naso e delle labbra, che suscitavano a mano a mano più sguajate le risa degli ascoltatori.

             Il solo Sciaramè se ne stava serio serio ad ascoltare, col mento appoggiato al pomo del bastoncino e gli occhi fissi al lume a petrolio.

             Terminata la lettura, il presidente assunse un’aria grave e dignitosa. Sciaramè lo frastorno, alzandosi.

             –    A posto! A sedere! – gli gridò Bellone.

             –    Il lume fila – osservò timidamente Sciaramè.

             –    E tu lascialo filare! Signori, io ritengo oziosa, io ritengo umiliante per noi qualsiasi discussione su un argomento cosi ridicolo. (Benissimo!) Tutti d’accordo, con una botta di penna, respingeremo questa incredibile, questa inqualificabile… questa non so come dire!(Scoppio d’applausi.)

             Ma il Nardi, l’altro romagnolo, volle parlare e disse che stimava necessario e imprescindibile dichiarare una volta per sempre che per garibaldini dovevano considerarsi quelli soltanto che avevano seguito Garibaldi (Bene! Bravo! Benissimo!), il vero, il solo, Giuseppe Garibaldi (Applausi fragorosi, ovazioni), Giuseppe Garibaldi, e basta.

             –    E basta, sì, e basta!

             –    E aggiungiamo! – sorse allora a dire, pum, il Navetta, – aggiungiamo, o signori, che la… la, come si chiama? la sciagurata guerra della Grecia contro la… la, come si chiama? la Turchia, non può, non deve assolutamente esser presa sul serio, per la… sicuro, la, come si chiama? la pessima figura fatta da quella nazione che… che…

             –    Senza che! – gridò, seccato, il Bellone, sorgendo in piedi. – Basta dire soltanto: «da quella nazione degenere!».

             –    Bravissimo! Del genere! del genere! Non ci vuol altro! – approvarono tutti. A questo punto Sciaramè sollevò il mento dal bastoncino e alzò una mano.

             –    Permettete? – chiese con aria umile.

             I socii si voltarono a guardarlo, accigliati, e il Bellone lo squadrò, fosco.

             – Tu? Che hai da dire, tu?

             Il povero Sciaramè si smarrì, inghiottì, protese un’altra volta la mano.

             –    Ecco… Vorrei farvi osservare che… alla fin fine… questi… questi quattro giovanotti…

             –    Buffoncelli! – scattò il Bellone. – Si chiamano buffoncelli e basta. Ne prenderesti forse le difese?

             –    No! – rispose subito Sciaramè. – No, ma, ecco, vorrei farvi osservare, come dicevo, che… alla fin fine, hanno… hanno combattuto, ecco, questi quattro giovanotti, sono stati al fuoco, sì… si sono dimostrati bravi, coraggiosi…, uno anzi fu ferito… che volete di più? Dovevano per forza lasciarci la pelle, Dio liberi? Se Lui, Garibaldi, non ci fu, perché non poteva esserci – sfido! era morto… – c’è stato il figlio però, che ha diritto, mi sembra, di portarla, la camicia rossa, e di farla portare perciò a tutti coloro che lo seguirono in Grecia, ecco. E dunque…

             Fino a questo punto Sciaramè potè parlare meravigliato lui stesso che lo lasciassero dire, ma pur timoroso e a mano a mano vie più costernato del silenzio con cui erano accolte le sue parole. Non sentiva in quel silenzio il consenso, sentiva anzi che con esso i compagni quasi lo sfidavano a proseguire per veder dove arrivasse la sua dabbenaggine o la sua sfrontatezza, oppure per assaltarlo a qualche parola non ben misurata; e perciò cercava di rendere a mano a mano più umile l’espressione del volto e della voce. Ma ormai non sapeva più che altro aggiungere; gli pareva d’aver detto abbastanza, d’aver difeso del suo meglio quei giovanotti. E intanto quelli seguitavano a tacere, lo sfidavano a parlare ancora. Che dire? Aggiunse:

             –    E dunque mi pare…

             –    Che ti pare? – proruppe allora, furibondo, il Bellone, andandogli davanti, a petto.

             –    Un corno! un corno! – gridarono gli altri, alzandosi anch’essi.

             E se lo misero in mezzo e presero a parlare concitatamente tutti insieme e chi lo tirava di qua e chi di là per dimostrargli che sosteneva una causa indegna e che se ne doveva vergognare. Vergognare, perché difendeva quattro mascalzoni scioperati! – O che le epopee, le vere epopee come la garibaldina, potevano avere aggiunte, appendici? Di ridicolo, di ridicolo s’era coperta la Grecia!

             Il povero Sciaramè non poteva rispondere a tutti, sopraffatto, investito. Colse a volo quel che diceva il Nardi e gli gridò:

             –    L’impresa non fu nazionale? Ma Garibaldi, scusate, Garibaldi combatté forse soltanto per l’indipendenza nostra? Combatté anche in America, anche in Francia combatté, Cavaliere dell’Umanità! Che c’entra!

             –    Ti vuoi star zitto, Sciaramè? – tuonò a questo punto il Bellone, dando un gran pugno su la tavola presidenziale. – Non bestemmiare! Non far confronti oltraggiosi! Oseresti paragonare l’epopea garibaldina con la pagliacciata della Grecia? Vergognati! Vergognati, perché so bene io la ragione della tua difesa di questi quattro buffoni. Ma noi, sappi, prendendo stasera questa decisione, faremo un gran bene anche a te; ti libereremo da un moscone che insidia all’onore della tua casa; e tu devi votare con noi, intendi? La domanda dev’essere respinta all’unanimità, perdio! Vota con noi! vota con noi!

             –    Permettete almeno che io mi astenga… – scongiurò Sciaramè, a mani giunte.

             –    No! Con noi! con noi! – gridarono, inflessibili, i socii, irritatissimi.

             E tanto fecero e tanto dissero, che costrinsero il povero Sciaramè a votar di no, con loro.

             Due giorni dopo, sul giornaletto locale, comparve questa protesta del Gàsperi, il ferito di Domokòs.

GARIBALDINI VECCHI E NUOVI

Riceviamo e pubblichiamo:

             Egregio Signor Direttore,

             a nome mio e de’ miei compagni, La Rosa, Betti e Marcolini, Le comunico la deliberazione votata ad unanimità dal Sodalizio dei Reduci Garibaldini, in seguito alla nostra domanda d’ammissione.

             Siamo stati respinti, signor Direttore!

             La nostra camicia rossa, per i signori veterani del Sodalizio, non è autentica. Proprio così! E sa perché? perché, non essendo ancor nati o essendo ancora in fasce, quando Giuseppe Garibaldi – il vero, il solo – come dice la deliberazione – si mosse a combattere per la liberazione della Patria, noi poveretti non potemmo naturalmente con le nostre balie e con le nostre mamme seguir Lui, allora, e abbiamo avuto il torto di seguire invece il Figlio (che pare, a giudizio dei sullodati veterani, non sia Garibaldi anche lui) nell’Eliade sacra. Ci si fa una colpa, infatti, del triste e umiliante esito della guerra greco-turca, come se noi a Domokòs non avessimo combattuto e vinto, lasciando sul campo di battaglia l’eroico Fratti e altri generosi.

             Ora capirà, egregio signor Direttore, che noi non possiamo difendere, come vorremmo, il Duce nostro, la nobile idealità che ci spinse ad accorrere all’appello, i nostri compagni d’arme caduti e i superstiti, dall’indegna offesa contenuta nell’inqualificabile deliberazione dei nostri Reduci: non possiamo, perché ci troviamo di fronte a vecchi evidentemente rimbecilliti. La parola può parere in prima un po’ dura, ma non parrà più tale quando si consideri che questi signori hanno respinto noi dal sodalizio senza pensare che intanto ne fa parte qualcuno, il quale non solo non è mai stato garibaldino, non solo non ha mai preso parte ad alcun fatto d’armi, ma osa per giunta d’indossare una camìcia rossa e di fregiarsi il petto di ben sette medaglie che non gli appartengono, perché furono di suo fratello morto eroicamente a Digione.

             Detto questo, mi sembra superfluo aggiungere altri commenti alla deliberazione. Mi dichiaro pronto a dimostrare coi documenti alla mano quanto asserisco. Se vi sarò costretto, smaschererò anche pubblicamente questo falso garibaldino, che ha pure avuto il coraggio di votare con gli altri contro la nostra ammissione.

             Intanto, pregandola, signor Direttore, di pubblicare integralmente nel suo periodico questa mia protesta, ho l’onore di dirmi

             Suo dev.mo

             ALESSANDRO GÀSPERI

             Era noto anche a noi da un pezzo che della Società dei Reduci Garibaldini faceva parte un messer tale che non è punto reduce come non fu mai garibaldino. Non ne avevamo mai fatto parola, per carità di patria, né ce ne saremmo mai occupati, se ora l’atto inconsulto della suddetta Società non avesse giustamente provocato la protesta del signor Gàsperi e degli altri giovani valorosi che combatterono in Grecia. Riteniamo che la Società dei Reduci, per dare almeno una qualche soddisfazione a questi giovani e provvedere al suo decoro, dovrebbe adesso affrettarsi ad espellere quel socio per ogni riguardo immeritevole di farne parte.

             (N. d. R.)

             Amilcare Bellone, col giornaletto in mano – mentre tutto il paese commentava meravigliato la protesta del Gàsperi – si precipitò, furente, nella sede della Società e, imbattutosi in Carlandrea Sciaramè, che s’avviava triste e ignaro al Caffè della piazza, lo prese per il petto e lo buttò a sedere su una seggiola, schiaffandogli con l’altra mano in faccia il giornale.

             –    Hai letto? Leggi qua!

             –    No… Che… che è stato? – balbettò Sciaramè, soprappreso con tanta violenza.

             – Leggi! leggi! – gli gridò di nuovo il Bellone, serrando le pugna, per frenare la rabbia; e si mise a far le volte del leone per la stanza.

             Il povero Sciaramè cercò con le mani mal ferme le lenti; se le pose sulla punta del naso; ma non sapeva che cosa dovesse leggere in quel giornale. Il Bellone gli s’appressò; glielo strappò di mano e, apertolo, gl’indico nella seconda pagina la protesta.

             –    Qua! qua! Leggi qua!

             –    Ah, – fece, dolente, Sciaramè, dopo aver letto il titolo e la firma. – Non ve l’avevo detto io?

             – Va’ avanti! Va’ avanti! – gli urlò il Bellone; e riprese a passeggiare. Sciaramè si mise a leggere, zitto zitto. A un certo punto, aggrottò le ciglia;

             poi le spianò, sbarrando gli occhi e spalancando la bocca. Il giornale fu per cadérgli di mano. Lo riprese, lo accostò di più a gli occhi, come se la vista gli si fosse a un tratto annebbiata. Il Bellone s’era fermato a guardarlo con occhi fulminanti, le braccia conserte, e attendeva, fremente, una protesta, una smentita, una spiegazione.

             – Che ne dici? Alza il capo! Guardami!

             Sciaramè, con faccia cadaverica, restringendo le palpebre attorno a gli occhi smorti, scosse lentamente la testa, in segno negativo, senza poter parlare; posò sul tavolino il giornale e si recò una mano sul cuore.

             – Aspetta… – poi disse, più col gesto che con la voce.

             Si provò a inghiottire; ma la lingua gli s’era d’un tratto insugherita. Non tirava più fiato.

             –    Io… – prese quindi a balbettare, ansimando, – io ci… ci fui io… a… a Calatafimi… a… a Palermo… poi a Milazzo… e in… in Calabria a… a Melito… poi su, su fino a… a Napoli… e poi al Volturno…

             –    Ma come ci fosti? Le prove! Le prove! I documenti! Come ci fosti?

             –    Aspetta… Io… con… con Stefanuccio… Avevo il somarello…

             –    Che dici? Che farnetichi? Le medaglie di chi sono? Tue o di tuo fratello? Parla! Questo voglio sapere!

             –    Sono… Lasciami dire… A Marsala… stavamo lì, al Sessanta, io e Stefanuccio, il mio fratellino… Gli avevo fatto da padre… a Stefanuccio… Aveva appena quindici anni, capisci? Mi scappò di casa, quando… quando sbarcarono i Mille… per seguir Lui, Garibaldi, coi volontarii… Torno a casa; non lo trovo… Allora presi a nolo un somarello… Lo raggiunsi prima di Calatafimi, per riportarmelo a casa… A quindici anni, ragazzino, che poteva fare, cuore mio?… Ma lui mi minacciò che si sarebbe fatto saltar la… la testa, dice, con quel vecchio fucile più alto di lui che gli avevano dato… se io lo costringevo a tornare indietro… la testa… E allora, persuaso dagli altri volontarii, lasciai in libertà il somarello… che poi mi toccò ripagare… e… e m’accompagnai con loro.

             –    Volontario anche tu? E combattesti?

             –    Non… non avevo… non avevo fucile…

             –    E avevi invece paura?

             –    No, no… Piuttosto morire che lasciarlo! Seguisti dunque tuo fratello?

             –    Sì, sempre!

             E Sciaramè ebbe come un brivido lungo la schiena, e si strinse più forte il petto con la mano, curvandosi viepiù.

             – Ma le medaglie? La camicia rossa? – riprese il Bellone, scrollandolo furio samente, – di chi sono? Tue o di tuo fratello? Rispondi!

             Sciaramè aprì le braccia, senza ardire di levare il capo; poi disse:

             –    Siccome Stefanuccio non… non se le potè godere…

             –    Te le sei portate a spasso tu! – compì la frase il Bellone. – Oh miserabile impostore! E hai osato di gabbare così la nostra buona fede? Meriteresti ch’io ti sputassi in faccia; meriteresti ch’io… Ma mi fai pietà! Tu uscirai ora stesso dal sodalizio! Fuori! Fuori!

             –    Mi cacciate di casa mia?

             –    Ce n’andremo via noi, ora stesso! Fa’ schiodare subito la tabella dalla porta! Ma come, ma come non mi passò mai per la mente il sospetto che, per essere così stupido, bisognava che costui Garibaldi non lo avesse mai veduto nemmeno da lontano!

             –    Io? – esclamò Sciaramè con un balzo. – Non lo vidi? io? Ah, se lo vidi! E gli baciai anche le mani! A Piazza Pretorio, gliele baciai, a Palermo, dove s’era accampato! Le mani!

             –    Zitto, svergognato! Non voglio più sentirti! Non voglio più vederti! Fai schiodare la tabella e guai a te se osi più gabellarti da garibaldino!

             E il Bellone s’avviò di furia verso la porta. Prima d’uscire, si voltò a gridargli di nuovo:

             – Svergognato!

             Rimasto solo, Sciaramè provò a levarsi in piedi; ma le gambe non lo reggevano più; il cuore malato gli tempestava in petto. Aggrappandosi con le mani al tavolino, alla sedia, alla parete, si trascinò su.

             Rorò, nel vederselo comparire davanti in quello stato, gettò un grido; ma egli le fece segno di tacere; poi le indicò il cassettone nella camera e le domandò quasi strozzato:

             –    Tu… le carte di là… al La Rosa?

             –    Le carte? Che carte? – disse Rorò, accorrendo a sostenerlo, tutta sconvolta.

             –    Le mie… i documenti di… di mio fratello… – balbettò Sciaramè appressandosi al cassettone. – Apri… Fammi vedere…

             Rorò aprì il cassetto. Sciaramè cacciò una mano con le dita artigliate sul fascetto dei documenti logori, ingialliti, legati con lo spago; e, rivolto alla figliastra con gli occhi spenti, le domandò:

             – Li… li hai mostrati tu… al La Rosa?

             Rorò non potè in prima rispondere; poi, sconcertata e sgomenta, disse:

             – Mi aveva chiesto di vederli… Che male ho fatto?

             Sciaramè le si abbandonò fra le braccia, assalito da un impeto di singhiozzi. Rorò lo trascinò fino alla seggiola accanto al letto e lo fece sedere, chiamandolo, spaventata:

             –    Papà! papà! Perché? Che male ho fatto? Perché piange? che le è avvenuto?

             –    Va’… va’… lasciami! – disse, rantolando, Sciaramè. – E io che li ho difesi… io solo… Ingrati!… Io ci fui! Lo accompagnai… Quindici anni aveva… E il somarello… alle prime schioppettate… Le gambe, le gambe… Per due, patii… E a Milazzo… dietro quel tralcio di vite… un toffo di terra, qua sul labbro…

             Rorò lo guardava, angosciata e sbalordita, sentendolo sparlare così.

             – Papà… papà… che dice?

             Ma Sciaramè, con gli occhi senza sguardo, sbarrati, una mano sul cuore, il volto scontraffatto, non la sentiva più.

             Vedeva, lontano, nel tempo.

             Lo aveva seguito davvero, quel suo fratellino minore, a cui aveva fatto da padre; lo aveva raggiunto davvero, con l’asinelio, prima di Calatafimi, e scongiurato a mani giunte di tornarsene indietro, a casa, in groppa all’asinelio, per carità, se non voleva farlo morire dal terrore di saperlo esposto alla morte, ancora così ragazzo! Via! Via! Ma il fratellino non aveva voluto saperne, e allora anche lui, a poco a poco, fra gli altri volontarii, s’era acceso d’entusiasmo ed era andato. Poi, però, alle prime schioppettate… No, no, non aveva desiderato di riavere il somarello abbandonato, perché, quantunque la paura fosse stata più forte di lui, non sarebbe mai scappato, sapendo che il suo fratellino, là, era intanto nella mischia e che forse in quel punto, ecco, gliel’uccidevano. Avrebbe voluto anzi correre, buttarsi nella mischia anche lui e anche lui farsi uccidere, se avesse trovato morto Stefanuccio. Ma le gambe, le gambe! Che può fare un povero uomo quando non sia più padrone delle proprie gambe? Per due, davvero, aveva patito, patito in modo da non potersi dire, durante la battaglia e dopo. Ah, dopo, fors’anche più! quando, sul campo di battaglia, aveva cercato tra i morti e i feriti il fratellino suo. Ma che gioja, poi, nel rivederlo, sano e salvo! E così lo aveva seguito anche a Palermo, fino a Gibilrossa, dove lo aveva aspettato, più morto che vivo, parecchi giorni: un’eternità! A Palermo, Stefanuccio, per il coraggio dimostrato, era stato ascritto alla legione dei Carabinieri genovesi, che doveva poi essere decimata nella battaglia campale di Milazzo. Era stato un vero miracolo, se in quella giornata non era morto anche lui, Sciaramè. Acquattato in una vigna, sentiva di tratto in tratto, qua e là, certi tonfi strani tra i pampini; ma non gli passava neanche per la mente che potessero esser palle, quando, proprio lì, sul tralcio dietro al quale stava nascosto… Ah, quel sibilo terribile, prima del tonfo! Carponi, con le reni aperte dai brividi, aveva tentato di allontanarsi; ma invano; ed era rimasto lì, tra il grandinare delle palle, atterrito, basito, vedendo la morte con gli occhi, a ogni tonfo.

             Li conosceva dunque davvero tutti gli orrori della guerra; tutto ciò che narrava, lo aveva veduto, sentito, provato; c’era stato insomma davvero, alla guerra, quantunque non vi avesse preso parte attiva. Ritornato in Sicilia, dopo la donazione di Garibaldi a Re Vittorio del regno delle Due Sicilie, egli era stato accolto come un eroe insieme col fratellino Stefano. Medaglie, lui, però, non ne aveva avute: le aveva avute Stefanuccio; ma erano come di tutt’e due. Del resto, lui non s’era mai vantato di nulla: spinto a parlare, aveva sempre detto quel tanto che aveva veduto. E non avrebbe mai pensato di entrare a far parte della Società, se quella maledetta sera lì non ve lo avessero quasi costretto, cacciato in mezzo per forza. Dell’onore che gli avevano fatto e di cui egli alla fin fine non si sentiva proprio immeritevole, giacché per la patria aveva pure patito e non poco, s’era sdebitato ospitando gratis per tanti anni la Società. Aveva indossato, sì, la camicia rossa del fratello e si era fregiato il petto di medaglie non propriamente sue; ma, fatto il primo passo, come tirarsi più indietro? Non aveva potuto farne a meno, e s’era segretamente scusato pensando che avrebbe così rappresentato il suo povero fratellino in quelle feste nazionali, il suo povero Stefanuccio morto a Digione, lui che se le era ben guadagnate, quelle medaglie, e non se le era poi potute godere, nelle belle feste della patria.

             Ecco qua tutto il suo torto. Erano venuti i nuovi garibaldini, avevano litigato coi vecchi, e lui c’era andato di mezzo, lui che li aveva difesi, solo contro tutti. Ah, ingrati! Lo avevano ucciso.

             Rorò, vedendogli la faccia come di terra e gli occhi infossati e stravolti, si mise a chiamare ajuto dalla finestra.

             Accorsero, costernati, ansanti, alcuni del vicinato.

             – Che è? che è?

             Restarono, alla vista di Sciaramè, là sulla seggiola, rantolante. Due, più animosi, lo presero per le ascelle e per i piedi e fecero per adagiarlo sul lettuccio. Ma non lo avevano ancora messo a giacere, che…

             – Oh! Che? – Guardate! – Morto?

             Rorò rimase allibita, con gli occhi sbarrati, a mirarlo. Guardò i vicini accorsi; balbettò:

             – Morto? Oh Dio! Dio! Morto?

             E si buttò sul cadavere, poi, in ginocchio, a pie del letto, con la faccia nascosta, le mani protese:

             – Perdono, papà mio! Perdono!

             I vicini non sapevano che pensare. Perdono? Perché? Che era accaduto? Ma Rorò parlava di certe carte, di certi documenti… che ne sapeva lei? Fu strappata dal letto e trascinata nell’altra camera. Alcuni corsero a chiamare il Bellone, altri rimasero a vegliare il morto.

             Quando il presidente della Società dei Reduci, col Navetta, il Nardi e gli altri socii, sopravvenne, fosco e combattuto, Carlandrea Sciaramè sul suo lettuccio era parato con la camicia rossa e le sette medaglie sul petto.

             I vicini, vestendo il povero vecchio, avevano creduto bene di fargli indossare per l’ultima volta l’abito delle sue feste. Non gli apparteneva? Ma ai morti non si sogliono passare, sulle lapidi, tante bugie, peggiori di questa? Là, le medaglie! Tutt’e sette sul cuore!

             Pum, pum, pum, il Navetta, con la sua gamba di legno, gli s’accostò, aggrondato; lo mirò un pezzo; poi si voltò ai compagni e disse, cupo:

             – Gli si levano?

             II Bellone, che s’era ritratto con gli altri in fondo alla camera, presso la finestra, a confabulare, lo chiamò a sé con la mano, si strinse nelle spalle e confermò il pensiero di quei vicini, brontolando:

             – Lascia. Ora è morto.

             Gli fecero un bellissimo funerale.

Raccolta La mosca
01 – La mosca – 1904
02 – L’eresia catara – 1905
03 – Le sorprese della scienza – 1905
04 – Le medaglie – 1904
05 – La Madonnina – 1913
06 – La berretta di Padova – 1902
07 – Lo scaldino – 1905
08 – Lontano – 1902
09 – La fede – 1922
10 – Con altri occhi – 1901
11 – Tra due ombre – 1907
12 – Niente – 1922
13 – Mondo di carta – 1909
14 – Il sonno del vecchio – 1906
15 – La distruzione dell’uomo – 1921

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