Di Pia Schwarz Lausten.
Al centro dei drammi borghesi si vede spesso una situazione familiare o altri rapporti sentimentali. Anche qui, al livello che appartiene alla tradizione del dramma borghese e naturalistico ci sono elementi sentimentali come la follia, l’amore, la vendetta.
Le finzioni di Enrico IV
da tidsskrift
Pirandello scrisse l’Enrico IV nel 1921 (la prima edizione è del 1922), meno di un anno dopo la stesura del famoso capolavoro Sei personaggi in cerca d’autore, in cui la scomposizione e la sperimentazione scenica arrivarono al punto estremo.
Enrico IV è uno dei testi più geniali e affascinanti di Pirandello forse per la sua felice combinazione di riflessione filosofica e intensità drammatica. Inoltre esso si svolge contemporaneamente a più livelli scenici o testuali, di cui si possono individuare almeno tre che sono da prendere in considerazione: un livello psicologico-sentimentale da dramma borghese ottocentesco, che comprende tra l’altro i conflitti interpersonali; un livello astratto da dramma contemplativo dove le vicende di Enrico possono assumere valore allegorico; e un livello metateatrale, un discorso sulla possibilità della tragedia stessa, che è il risultato delle riflessioni dell’autore sui modi della conoscenza artistica nel moderno.
Credo che il senso dell’opera si debba trovare a livello astratto e metateatrale (come hanno già suggerito R. Alonge e R. Luperini.) Perciò sarà anche importante analizzare la funzione della follia del protagonista. Spesso è stato messo in rilievo il lato tragico della sua follia e del suo vivere nella maschera eterna. Ma la mia ipotesi è. che la sua finzione della follia non abbia un valore così univocamente negativo, e che – invece di un fenomeno concreto, psichiatrico come vorrebbe il critico Elio Gioanola – sia da considererare un discorso più astratto, con un significato soprattutto simbolico.
Finzione e realtà
L’intero dramma ruota intorno ad un sottile gioco ambiguo tra finzione (il tempo e lo spazio medievale) e realtà attuale, «in una villa solitaria della campagna umbra ai nostri giorni.» Il protagonista vive da 20 anni isolato in una villa, prima credendo poi fingendo di essere l’imperatore tedesco Enrico IV (1050-1106). La spiegazione di questo modo di vivere si trova negli antefatti, fuori dalla cornice testuale del dramma. Il protagonista aveva partecipato ad una mascherata insieme a degli amici durante la quale è caduto da cavallo ed è impazzito. Tutti si erano mascherati da personaggi storici, lui aveva scelto Enrico IV perché la donna di cui era innamorato aveva scelto per sé la parte di Matilde di Toscana – nemica di Enrico IV. In questo modo egli poteva rimproverare indirettamente alla donna amata la sua crudeltà, ma soprattutto poteva avere l’occasione di gettarsi ai suoi piedi come fece l’imperatore a Canossa.
La sua follia, che durò 12 anni, consistette nel credere di essere veramente Enrico IV. Per assecondarlo i parenti gli costruirono un ambiente medievale con quattro valletti. Un giorno, però, otto anni prima dell’inizio dell’azione del dramma, egli guarì ma scelse di lasciare tutto com’era, facendo finta d’essere ancora un pazzo che si crede Enrico IV.
Nel corso del dramma il rapporto tra finzione e realtà subisce dei cambiamenti: durante la mascherata, prima della caduta dal cavallo, il ruolo d’Enrico era ovviamente pura finzione. Tutti recitavano una parte da loro scelta. Poi, con la follia, finzione e realtà coincidevano nella coscienza de protagonista. Infine, dopo la sua guarigione, egli distingue di nuovo tra il ruolo e la realtà, ma solo per sé, non agli occhi degli altri per i quali egli mantiene l’illusione della follia. Enrico ha scelto di continuare la recita del ruolo storico e della follia, e questa finzione è la sua unica realtà. Non ha un’identità più autentica, è solo personaggio (un personaggio moderno) chi recita un altro personaggio (storico), scomparso come «persona». Il protagonista ha quindi due facce o maschere con cui svolgere la sua recita ambigua: il personaggio moderno e quello storico, l’imperatore Enrico IV. Queste suo carattere ambiguo traspare già nella lista dei personaggi, dove il protagonista, a differenza degli altri, viene presentato come: … (Enrico IV) – una disposizione tipografica singolare – dove il nome del ruolo storico, della finzione, ha preso il posto del nome vero reale. La realtà risulta uguale alla finzione.
Enrico ha scelto di rifugiarsi nella dimensione storica, già scritta, per trovare quella consistenza e sicurezza che l’esistenza comune non gli ha potute dare. Quello che all’inizio è una situazione causata da un «caso», diventa la sua scelta esistenziale dopo la guarigione Sostituendo la sua precedenti identità reale con una maschera, con una vita fittizia, irreale, ma storicamente ben definita, egli riesce a fissare lo spaventoso flusso temporale della vita in una forma. La dimensione storica, (il medioevo, in cui tra l’altro si credeva ancora in qualcosa) viene contrapposta all’epoca moderna, alla vita attuale che non è così sistemata, coerente e accessibile all’interpretazione e alla conoscenza: il modo di vivere di Enrico assume quindi anche valore di contestazione nei confronti della volgarità e dell’insensatezza del presente.
Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’inganno; non per rappresentarlo davanti a me(…); sentendovi vivi, vivi veramente nella storia del mille e cento, qua alla Corte del vostro imperatore Enrico IV! E pensare (…) gli uomini del mille e novecento si abbaruffano intanto, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia! con me! Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare. Il piacere, il piacere della storia, insomma che è così grande! (cito da L.Pirandello: Enrico IV. Oscar Mondadori, 1986, p. 202.)
La scelta della recitazione come realtà, la difesa dell’immobilità della storia significa qui la salvezza e la liberazione dall’angosciosa mancanza di senso tipica del moderno.
Tragedia storica?
Apparentemente Enrico IV è una tragedia – almeno così l’aveva sottotitolato Pirandello al principio. Ma è davvero una tragedia? E come si congiungerebbe con l’idea espressa dall’autore ad esempio nel saggio sull’Umorismo (1908) e ne Il fu Mattia Pascal (1904), sull’impossibilità della tragedia nel mondo moderno?
Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe?
(…) Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. (Pirandello: Il fu Mattia Pascal. Oscar Mondadori, 1986, p. 162-163.)
La tendenza dell’uomo moderno a ‘vedersi vivere’ come da fuori e avvertire la finzione teatrale del proprio ruolo è conseguenza del mondo relativizzato in cui tutti i fenomeni (anche l’identità dell’individuo)
«o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto a nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua.» (Pirandello: L’Umorismo. Oscar Mondadori, 1986, p. 154.)
La scissione tra i fatti e il loro senso rende impossibile la tragedia che esige inoltre l’assolutezza passionale e la perfetta identificazione dei personaggi e del proprio ruolo.
L’esperienza teatrale di Pirandello si basa sulla coscienza dell’impossibile del dramma nell’epoca moderna e sulla conseguente caduta della sua aura. Gli obiettivi principali nella ricerca di Pirandello sono infatti «l’autonomia piena dei personaggi dall’autore e la dissacrazione e momento artistico», cioè uno smascheramento di tutti gli artifici teatrali che ci giunge sino ad una «destrutturazione dell’atto scenico» (R. Luperini: Introduzione a Pirandello. Edit. Laterza 1992, p. 87-88). Ciò è in coerenza con la poetica dell’umorismo il cui metodo essenziale è la scomposizione delle apparenze, l’individuazione del «contrario» di ogni gesto o parola, per rispondere ad un bisogno di cogliere e mettere in evidenza le contraddizioni della realtà. L’umorismo di Pirandello è contro ogni aspirazione a un’armonia e a un’istintività «naturali», e mette invece in rilievo l’artificialità dell’arte.
In Enrico IV sembra salvo «il principio generale della tragicità come azione: esemplare recitata intorno al potere, o, comunque, nelle case dei potenti» (Giorgio Bàrberi Squarotti: Le sorti del «tragico». Ravenna 1978, p. 174.) I personaggi appartengono all’aristocrazia, all’alta borghesia o al clero; spazio è quello tradizionale, una reggia; le tre unità aristoteliche sono rispettate; il dramma si conclude con un omicidio. E la vita dell’imperatore Enrico IV è piena di eventi drammatici e tragici: «stoffa, oh, stoffa da cavarne non una ma parecchie tragedie, la storia di Enrico IV la offrirebbe davvero». E’ tuttavia una conferma ambigua: di quale Enrico si tratta? del personaggio storico o di quello moderno?
La tragedia infatti è lontana, nei libri di storia, e gli eventi tragici de storia non vengono mai rappresentati. La tragedia storica non si può rappresentare sul palcoscenico, è solo una finzione nella finzione. Il «re» è un comune borghese che finge da otto anni di essere Enrico IV (re di Germania grande e tragico imperatore!» p. 129), in uno scenario realizzato solo per lui. I personaggi non arrivano mai a rappresentare le tragedie della storia del medievale, sono – con un chiaro paragone ai Sei personaggi in cerca d’autore – «come sei pupazzi appesi al muro, che aspettano qualcuno che li prendi che li muova così o così e faccia dir loro qualche parola.» (p. 132). C’è forma e ci manca il contenuto.
Inoltre, l’illusione realistica della recita storica di Enrico viene continuamente rotta con la sua messa in evidenza della maschera: il trucco esagerato; la parrucca visibile; le sue battute prefissate, cioè le citazioni dai libri di storia, che vengono spesso alternate o interrotte dalle battute appartenenti ad un altro livello stilistico, quello del personaggio moderno. Enrico entra ed esce dal ruolo come vuole. Anche l’arredamento del palcoscenico mette in evidenza il carattere di finzione dell’ambito storico (i mobili antichi contrapposti ad es. ai quadri recenti).
La finzione dell’ambito storico e tragico è un carnevale o una mascherata come quella che la causò. Ma mentre alla base della mascherata fatale c’era la non-serietà («babele», «burla»), Enrico era già ed è tuttora più serio degli altri, e con la vera follia egli aveva rivoltato quel gioco in seria verità. Si può forse dire che la tragedia era praticabile e realizzabile solo nella vera follia – che però non vediamo mai rappresentata sul palcoscenico. Solo qui coincidevano la realtà presente e il passato tragico nella coscienza di Enrico. La follia aveva spezzato la mascherata con la sua serietà e tragicità.
Tragedia borghese?
Se la tragedia storica non si può rappresentare, a quale livello testuale si trova?
Al centro dei drammi borghesi si vede spesso una situazione familiare o altri rapporti sentimentali. Anche qui, al livello che appartiene alla tradizione del dramma borghese e naturalistico ci sono elementi sentimentali come la follia, l’amore, la vendetta. Nel tempo attuale, presente, si svolge un dramma causato da un menage a tre. Belcredi viene ucciso alla fine perché è il rivale in amore, e perché è colpevole della disgrazia di Enrico (indirettamente veniamo a sapere che è stato Belcredi a far cadere il cavallo di Enrico). Ma non è qui il vero significato del dramma. Questi elementi patetici funzionano quale materiale di riuso, e come dimostrato da Lone Klem, alcuni di essi sono stati aggiunti alla fine della stesura del testo, forse per favorire la digeribilità del testo (Lone Klem: «Ingenting er sandt. Efterskrift til Enrico IV». in: Lene Waage Petersen e Jorn Moestrup (eds.): L Pirandello, Vol. I+II. Copenaghen 1989, p. 225.)
A prima vista è tragico il destino del protagonista la cui vita è scivolata via a causa degli anni di pazzia. Tutto quello che non ha vissuto lui, l’hanno vissuto gli altri, mentre è stato chiuso dentro. Ora, nel confronto improvviso con le persone del suo passato, traspare infatti in alcune battute di Enrico un tono emotivo e malinconico, di rancore nei confronti degli altri. Sono momenti in cui egli sembra non poter resistere ad una esperienza tragica del proprio destino:
Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche, vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti così sfuggita da voi; dispetti e ire contro voi stesso; o rimorsi; anche rimorsi. Ah, se sapeste, io me ne son trovati tanti davanti! (…) A voi, Pietro Damiani, invece, il ricordo di ciò che siete stato, di ciò che avete fatto, appare ora riconoscimento di realtà passate, che vi restano dentro – è vero? come un sogno. E anche a me – come un sogno … (p. 165-167).
Queste battute indicano certo la presenza di una dimensione tragica a livello psicologico-esistenziale che però non viene veramente rappresentata nel suo insieme, solo indirettamente in piccoli frammenti. Le battute vengono presto alternate da un altro tono stilistico, quello recitato dai libri di storia:
Tutt’a un tratto infuriandosi e afferrandosi il sajo addosso:
Questo sajo qua! (…) Domani a Bressanone, ventisette vescovi tedeschi e lombardi firmeranno con me la destituzione di Papa Gregorio VII ….
Enrico si riprende e rientra pienamente nel ruolo del re, nella sua finzione. Il suo sentimento tragico non si può mantenere né rappresentare. Egli è uno che si vede agire e recitare un ruolo, come Oreste nel teatrino delle marionette. Il suo rancore non è abbastanza profondamente sentito, e viene sopraffatto dal piacere tutto intellettuale e a lungo goduto della sua commedia. Quando si smaschera ai servitori, infatti, lo fa con «gaja prorompente frenesia», non con amaro risentimento. C’è quindi una doppiezza in Enrico, tra il suo modo tragico-patetico di esprimersi (anche se solo indirettamente) in certe battute, e contemporaneamente il suo distacco dai propri sentimenti.
Secondo alcuni critici l’aspetto tragico e assurdo del dramma si trova nel destino di Enrico, simbolo delle condizioni esistenziali dell’uomo. Egli sarà come dice anche lui
la caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii (indica Belcredi) quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere … (p. 215).
Ma nel radicalizzare questa recita continua, nella sua totale estraneità al mondo normale, nel suo distacco dai sentimenti e dalle ipocrisie degli altri, nella scelta volontaria e cosciente di una vita contemplativa, Enrico si oppone invece attivamente a ciò che è la tragedia della vita normale. Sono tragiche le condizioni esistenziali dell’uomo moderno con la labilità della vita, l’impossibilità di trovarvi una sicurezza stabile e definitiva, la relatività, anche nei rapporti interpersonali, che comporta incomunicabilità e solitudine:
Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi (…) potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca … (p. 199)
Ma nemmeno questa «tragedia» della normalità si può rappresentare interamente sul palcoscenico. E la dimensione tragica del destino di Enrico, che traspare in piccoli frammenti eflashes nelle sue battute, è troppo ambigua per costituire l’unico significato del dramma. Qui, come altrove, Pirandello salva il suo protagonista dalla tragedia.
Tragedia astratta
Il senso del testo si trova invece se lo si considera une «tragedia astratta», con l’espressione di R. Alongé. La soluzione di vita di Enrico diventa emblema di un modo di vivere particolare, tipico per molti degli (anti-)eroi di Pirandello. Anche il suo gesto finale rientra in una lettura simile.
Enrico IV rappresenta in forma drammatica problemi e temi che già avevamo visto in altri testi, ad es. Uno, nessuno, centomila (1925), il romanzo che Pirandello stava per concludere nel 1922 e che tratta in modo un po’ più teorico la condizione dell’uomo nel mondo relativizzato. Il rifiuto di Enrico della società e la sua esclusione dalla stessa hanno molti tratti in comune con quello degli altri «matti» nell’opera di Pirandello.
Anche Enrico è un personaggio «umoristico» nel senso che non è in grado di fondare un autentico conflitto tragico. E’ uno degli innumerevoli personaggi di natura contemplativa, estranei al mondo intorno. Si «vedono vivere», si sdoppiano come davanti a uno specchio, come l’artista «umorista» di Pirandello:
In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquiétante; (…) allora la compagine dell’esistenza quotidiana, (…) ci appare priva di senso, priva di scopo; (Pirandello: L’umorismo. Oscar Mondadori, 1986, p. 160-61.)
Il folle e l’attore sono appunto le due figure rappresentate dal protagonista, e si caratterizzano per la distanza non solo dall’esistenza reale, in cui sono immersi gli uomini comuni, ma anche dai propri sentimenti che vivono sdoppiati, come da fuori:
quella subitanea lucidité di rappresentazione lo poneva fuori, a un tratto, d’ogni intimità col suo stesso sentimento, che gli appariva – non finto, perché era sincero – ma come qualche cosa a cui dovesse dare li per li il valore… (p. 149)
Enrico «s’esaltava spesso», ma «si vedeva subito, lui stesso, nell’atto della sua esaltazione» (p. 149). Come Moscarda (di Uno, nessuno, centomila) e Serafino Gubbio (del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925) egli ha lo sguardo intenso e pungente, la risata folle, il «parlato continuo» (quasi delirico), ed è infatti già – prima dell’incidente che causa la sua vera follia – un diverso, un mezzo pazzo agli occhi degli altri. Neanche nell’amore le cose gli andavano bene. A donna Matilde facevano paura quegli occhi che la guardavano «con una contenuta, intensa promessa di sentimento duraturo.» (p. 148)
Enrico era già dapprima un attore bravo, e diventa magnifico (da folle) con la maschera di Enrico IV. Ha sempre avuto la vocazione di recitare, invece di vivere la vita. «L’essere attori vuoi dire per Pirandello, entrare in una parte fino al punto da scomparire come persona, (…) a prezzo della rinuncia ad una vita propria, come esemplarmente si verifica in Trovarsi, il dramma di un’attrice che vive veramente solo quando si cala in una parte, al punto da non esserci più come io quando è fuori scena.» (Elio Gioanola: Mito e follia nell’«Enrico IV». in: AA.VV. : La «persona» nell’opera di L. Pirandello, Roma, 1990, p. 133.)
Come lo specchio di Moscarda e la macchina fotografica di Serafino Gubbio, la maschera di Enrico è la cosa che prima lo aliena completamente, nella vera follia, e che poi funziona da «gradino» o da mezzo per salvarsi, per porsi fuori dal mondo circostante. Si può dire che Enrico sceglie la finzione come soluzione al problema del rapporto tra io e la realtà. Egli dimostra che l’autenticità è un’ideale irraggiungibile e che la finzione vissuta coscientemente è meglio della normalità vissuta incoscientemente.
La fine del testo, specialmente il gesto violento di Enrico, ha dato luogo ad interpretazioni diverse. Il dramma finisce in modo aperto, come tanti altri testi pirandelliani. Ritorna matto Enrico IV? O uccide Belcredi in un momento di lucidità fingendo di essere matto?
Il gruppo di persone venuto da fuori, con a capo lo psichiatra, vuole fare un esperimento che deve togliere Enrico dalla follia in cui credono che si trovi. Confrontandolo con una copia fedele di sé stesso e di donna Matilde com’erano 20 anni prima, durante la mascherata, gli vogliono far venire uno shock. Come se fosse un orologio, che si può rimettere in moto e riprendere il tempo da dove si era fermato. Lo shock dovrebbe renderlo cosciente degli anni trascorsi. Quest’esperimento costituisce l’intreccio scenico, e si svolge su un altro livello, (quello psicologico dei conflitti interpersonali), rispetto a quello su cui si trova già Enrico, nella sua dimensione astratta, al di là di quel modo di ragionare degli altri (psicologico, ‘meccanistico’).
Enrico abbraccia improvvisamente la giovane Frida ridendo come un pazzo. Lei è spaventata, e quando arrivano Belcredi, Di Nolli e il Dottore per strappargli Frida dalle braccia, egli «si fa terribile» e ordina ai quattro valletti di trattenerli:
Belcredi (si libera subito e si avventa su Enrico IV): Lasciala! Lasciala! Tu non sei pazzo!
Enrico IV (fulmineamente, cavando la spada dal fianco di Landolfo che gli sta presso): Non sono pazzo? Eccoti! E lo ferisce al ventre, (p. 219)
Nel tumulto che sorge Donna Matilde grida che Enrico è pazzo, Belcredi grida che non è pazzo. Tutti escono e quando da fuori si sente un grido di donna Matilde più acuto degli altri, a cui segue il silenzio, Enrico dice «Ora sì…per forza… (…) qua insieme, qua insieme… e per sempre.»
Considerando il gesto di Enrico a livello del dramma psicologico, naturalistico, sembra che Enrico si spaventi veramente a vedere donna Matilde (e Belcredi) dopo tutto questo tempo, che venga strappato dalla sua finzione e spinto a commettere l’ultimo gesto. Lo shock lo renderebbe incapace di controllare il suo comportamento, come un «lampo di follia» che lo acceca e lo butta in balia degli istinti e del rancore. Il colpo del dottore sarebbe riuscito, si avrebbe un cortocircuito («notte») nella sua mente e «i suoi atti alla fine del dramma (sarebbero) pazzi» (Lone Klem: Dramaets krise hos Pirandello. Copenaghen, 1977.) Sarebbe quindi per pura necessità e costrizione (e non per scelta) che rimane isolato (prigioniero) nella sua pazzia alla fine. La finzione funzionerebbe come giustificazione dell’atto criminale, «fuga, alibi imposto dal rigurgito di un vitalismo incontrollabile.» ( R. Barilli: Pirandello. Una rivoluzione culturale. Milano 1986, p. 246.) La tragedia consisterebbe nella fissazione eterna del suo ruolo, della maschera-forma, la «reclusione eterna nell’illusione».(M. Bradbury: Da litteraturen blev moderne. Gyldendal, Copenaghen, 1989, p. 250.) Enrico esce sì dalla sua «fredda» armonia per entrare nel caos del mondo normale, ma che il suo atto sia risultato di «forze irrazionali su cui non è padrone (…) forze vitali dentro di lui che non conosceva e che d’improvviso accechino la sua coscienza maltrattata» non credo.(Klem 1977, p. 230.)
L’interpretazione psicologica fondata sul motivo del tempo perduto, la giovinezza trascorsa, il rancore, oppure la vita degli istinti rimossi che lo raggiunge, è insufficiente e un modo troppo naturalistico di spiegare il gesto violento e l’intero dramma di Enrico. L’ambiguità ed i problemi interpretativi specialmente della fine di Enrico IV si possono infatti considerare come il risultato dell’incompatibilità tra due diversi tipi di concezione della vita e dell’uomo, quello naturalistico e quello del movimento moderno che lo ha sostituito. La distinzione di R.Luperini a questo proposito tra punto di vista psicologico e conoscenza allegorica, può essere utile qui. Secondo lui lo squilibrio nell’io e nel suo rapporto con il mondo non è solo una condizione psicologica o un disturbo psichiatrico, ma «è la situazione tipica della conoscenza per l’allegorista moderno, da Baudelaire a Pirandello.» (R. Luperini: Introduzione a Pirandello. Edit. Laterza, 1992, p. 98.) Il significato del dramma supera la sfera individuale per assumere un significato più universale a un livello allegorico.
Il gesto violento dell’omicidio è simbolico più che tragico. Se l’omicidio fosse il risultato di una vendetta amara, di gelosia, guidato dall’irrazionalità degli istinti, allora tutto ciò che rappresenta la scelta esistenziale di Enrico, la scelta della recitazione come realtà e della vita contemplativa, tutto ciò perderebbe validità. L’omicidio è l’artificio dell’autore per far tagliare tutti i ponti a Enrico con il resto del mondo, per confermare il suo rapporto di distacco con la realtà, la sua finzione e il suo diritto a starsene fuori, a contemplare l’insensatezza della normalità, gli intrighi degli altri etc. Enrico difende la finzione della pazzia, come un luogo esistenziale più «sincero». Il dramma diventa quindi espressione di una visione di vita anti-naturalistica, moderna, e forse «decadente». (cfr. M. Nojgaard: En hypotese om Enrico IV. Randbemœrkning til Lone Klem’s Pirandello-disputats. NOK 62, Romansk Institut, Odense, 1984).
Gli atti di Enrico sono coscienti alla fine, e egli ne sarebbe perciò moralmente responsabile, ma ciò non ha importanza. L’omicidio rende «reale» e credibile la finzione, ora gli altri possono credere che sia pazzo per davvero: «Tu non sei pazzo!» (…) «Non sono pazzo? Eccoti!» E lo uccide. Enrico non uccide Belcredi perché è impazzito, ma per poter rimanere nella (finzione della) follia, al suo livello di vita preferito, quello contemplativo, astratto. A livello allegorico la vita di Enrico è un lucidissimo e disperato tentativo di difendere la propria finzione, che è anche un rifiuto e uno smascheramento della vita normale. Il dramma è esempio del fatto che la finzione è l’unica vita possibile per lui, non c’è nessuna vita più autentica al di fuori di essa, solo altre finzioni.
Quando Enrico si «spoglia», non è un segno di debolezza o per costrizione, ma per dimostrare che ha scelto liberamente la «corda pazza» (del Berretto a sonagli). Non è la pazzia «calda» recitata da Beatrice, ma il principio è lo stesso: la follia – anche quella finta – ha delle potenzialità che non hanno né la corda seria, né la corda civile.
Enrico sceglie di rimanere nella sua finzione della follia, «e viverla con la più lucida coscienza» (p. 214), perché è una dimensione più rassicurante e meno ipocrita della vita degli altri. Loro non sono coscienti di portare maschere, pretendono di sapere la verità:
Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. (p. 216)
Enrico espone infatti la propria maschera, ci gioca coscientemente, la esagera volutamente, per dimostrare il suo carattere fittizio, per far vedere l’assurdità nel fatto che tutti si fissino nel proprio «concetto», nell’immagine di sé, senza esserne coscienti — credendo che sia la verità. Enrico non cerca di nascondere la tintura dei capelli, al contrario di donna Matilde che postula che la finzione sia vera.
Voi, Madonna, certo non ve li tingete per ingannare gli altri, né voi; ma solo un poco – poco poco – la vostra immagine davanti allo specchio. Io lo faccio per ridere. Voi lo fate sul serio, (p. 166)
La sua scelta non è semplicemente una fuga dalla vita, è di carattere allegorico in quanto mette in dubbio le norme, le regole, lo stesso senso della vita normale. E’ una ribellione che rifiuta la «mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii (…) quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere – l’abito, il loro abito, perdonateli, ancora non lo vedono come la loro stessa persona.» (p. 215).
L’isolamento di Enrico nella villa è il compimento concreto e finale di uno stato già presente, in cui ha sempre vissuto, come estraneo al mondo circostante. Ora, nella finzione, Enrico non ha più conflitti col mondo circostante. Il conflitto arrivò al suo culmine durante la cavalcata carnevalesca dove venne anche «risolto», in un primo momento negativamente e tragicamente con la vera pazzia; e dopo, con la guarigione, la maschera lo aiuta a distaccarsi dai drammi banali della vita normale.
Ma che vuoi che m’agiti più ciò che avvenne tra noi; la parte che avesti nelle mie disgrazie con lei (…) la parte che lui adesso ha per voi! – La mia vita è questa! Non è la vostra! (p. 217)
Enrico rifiuta l’idea che hanno gli altri di lui come un «poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita», (p. 194) E’ vero che vive fuori dal mondo normale, ma porta in sé in un certo senso il tempo e la vita, anche se fermati nel momento storico. Come lo fanno tanti altri personaggi pirandelliani, Enrico ha costruito un mondo o modello suo fuori dal tempo e dal mondo normali come difesa dalla realtà – e per sostituirla – non per «incorniciare il vuoto» (Klem 1977, p. 461.) Ha scelto una forma non come involucro vuoto, ma come mezzo per strutturare l’esperienza e l’esistenza umana altrimenti inafferrabili e fluide.
La soluzione di Enrico, la sua ricreazione della vita, non è una fuga, come si è detto, dalla vita, ma vuole dimostrare l’assurdità della vita in generale, la miseria dell’uomo a un livello metastorico, universale. Come gli altri «matti» pirandelliani Enrico rappresenta una dimensione astratta, forse metafisica, scelta come soluzione. E’ un tentativo di trascendere il fluire del tempo, e il gruppo di visitatori costituisce un irrompere del tempo contro lo sforzo del protagonista di trascenderlo. E contro il suo sforzo di decidere sulla propria identità, che può anche significare scegliere di essere senza identità, o di avere un’identità fittizia.
La follia
Da quest’ottica interpretativa è importante l’analisi del concetto della follia che diventa interessante soprattutto a livello astratto, cioè al di fuori del livello psicologico e diagnostico. Secondo E. Gioanola, invece, l’universo di Pirandello, sia della vita interiore dell’autore sia dei testi sarebbe schizoide. Cioè l’io sarebbe diviso come conseguenza dell’angoscia di impazzire sul serio. E
nella ricerca dell’io vero il soggetto abbandona assieme alle forme anche la vita e va verso una purezza che coincide con l’astrazione, con il lontano, con il vuoto, con il nulla. La divisione schizoide difende dalla follia vera e propria ma non porta affatto alla salvezza, raggelando il soggetto in una sideralè lontananza dagli altri, dal mondo, dalla vita (Gioanola 1990, p. 126.)
Gioanola interpreta le vicende in un’ottica psicanalitica, sostenendo che nell’opera e nella vita di Pirandello «la follia rappresenta più una possibilità che una condizione, ma questa possibilità è la condizione di tutta l’opera». Il suo punto di partenza è che esiste tra vissuto personale e scrittura una serie di strette omologie strutturali. L’interesse verso i problemi della psiche dell’uomo non è solo culturale, o dovuto alla follia della moglie, Antonietta, ma secondo Gioanola sintomo della profonda angoscia della psicosi latente nell’autore stesso. I personaggi divisi, i «matti» sarebbero da interpretare come un’esorcizzazione contro la pazzia potenziale in Pirandello. Perfino la poetica dell’umorismo – che sembra diventare un discorso psichiatrico in Gioanola — si adatta alle «esigenze di una psicologia turbata» (Gioanola: Pirandello. La follia. Genova, 1983, p. 50).
Mentre la normalità psichica dimostra un’identità tra io e corpo, nello stato schizoide c’è un distacco dal corpo e quindi dalla vita, secondo questo punto di vista.
La corporeità è essenziale all’identificazione, e il sentire il proprio corpo fuori dei confini dell’io implica la possibile perdita del principio d’identità, come innumerevoli volte si da nell’opera pirandelliana.
Quando Pirandello parla di follia intende, secondo Gioanola,
la condizione di chi, chiuso nelle difese dell’io diviso, intraprende la strada dell’ascesa verso l’assoluto dell’io vero (Gioanola 1990, p. 125-126.)
Enrico infatti vive, come altri «matti» di Pirandello, lontano dalla vita dei sentimenti in una dimensione ascetica e riflessiva da santo.
Può darsi che Enrico si possa considerare un esempio di una psiche schizoide,come lo vede Gioanola. La dissoluzione del personaggio sarebbe la difesa contro l’annullamento totale del soggetto, che respinge o espelle una parte del sé, il lato «pericoloso», minaccioso, che diventa quindi il doppio, ossia «proiezioni negative e persecutorie del sé». Anche la fine del dramma si spiega con questa dissociazione schizoide dell’io. E’ uno sdoppiamento dove – per proteggersi dalla vera psicosi – Enrico si è diviso in due. Durante la divisione ha espulso la parte della «bestia», l’io impuro e falso, che rappresenta il corporeo, la sessualità, i bassi istinti etc., per avviarsi verso la perfezione dell’io puro, ascetico. Belcredi sarebbe così l’alter ego, il doppio maligno e persecutore di Enrico che ritorna. L’arrivo di Belcredi e Matilde diventa un ritorno del rimosso, di fantasmi (come quelli che Enrico sogna la notte). Enrico uccide per gelosia, ma «è geloso essenzialmente della propria immagine». Con ciò si tocca secondo Gioanola «la problematica scottante dell’omosessualità», in quanto la gelosia esagerata nel linguaggio freudiano sarebbe collegata all’omosessualità (Gioanola 1983, p. 149-152.)
La lettura di Gioanola presenta delle conclusioni probabilmente valide, ma si ferma a un primo livello di diagnosi psicologica, e presenta anche qualche debolezza. Il discorso sulla divisione, sul doppio etc. è piuttosto l’antefatto psicologico del dramma, non il dramma stesso.
Da Gioanola la follia dei personaggi pirandelliani viene letta in chiave abbastanza letterale e negativa: i «folli» soffrono, sono freddi, l’attività mentale è una condanna, la ricerca dell’autenticità fuori del corpo li porta all’ascesi, lontani dal flusso vitale. Vengono contrapposti ad una follia «calda», la sfrenatezza della cultura carnevalesca rappresentata da Belcredi & co., la pazzia «agitata e torbida dei «viveurs» marionette deformi di quella «grande pupazzata» che è la vita.» (Gioanola 1990, p. 138.)
Uno dei punti chiavi di Gioanola è che questa scissione tra anima e corpo, tra vivere e pensare, trova il suo parallelo nella critica di Pirandello della «logica», chiamata «macchinetta infernale» e «veleno» nel suo saggio sull’Umorismo:
L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica (…) tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo. (p. 162-163)
Gioanola riduce i matti a pura logica, con il loro parlare polemico e continuo. E l’attività mentale esagerata dei «matti» sarebbe da intendere come negativa di fronte all’ideale flusso vitale.
A mio avviso, Gioanola ignora tuttavia che la logica rifiutata da Pirandello è un’altra, non quella dei matti, che è l’antilogica, anticonformista e volubile, ed è proprio quella che esprime le sue idee ad esempio sulla necessità del mantenere e rendere visibili i contrasti nell’uomo e nel mondo. Trovarsi davanti a un pazzo significa:
trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! (Enrico IV p. 198)
Secondo Gioanola i matti sono vittime del loro «implacabile razionalismo», isolati, disinteressati, senza vita, la follia è uguale alla morte. Egli sottolinea il lato negativo e pessimistico della loro follia, che certamente è presente, ma è solo una mezza verità. Infatti, nel 1924, in una risposta a un giornalista, Pirandello dice a proposito della psicologia dei pazzi:
Logica, no. Il pazzo costruisce senza logica. Essa è forma e la forma è in contrasto con la vita. La vita è informe e illogica. Perciò io credo che i pazzi siano più vicini alla vita. Niente c’è di fissato in noi. Noi abbiamo dentro tutte le possibilità. Tanto è vero che da noi impensatamente e improvvisamente può scappare fuori il ladro, il pazzo…; (G. Giudice: Luigi Pirandello. Torino, 1963, p. 354.)
Nei testi di Pirandello i «matti» (si tratta molto spesso di follia simulata) non sono privi di sentimenti. Ridono e piangono per gioia o dolore, e anche se rinunciano alla sessualità, la loro logica non è quella fredda, negativa e formale del mondo razionale che, proprio per esorcizzare o «disarmare» la follia costruisce mascherate come quella di Enrico e dei suoi «amici». I matti invece sospendono gli usuali significati, facendo calare su di essi gli interrogativi e i dubbi di chi vi cerca un significato universale. Enrico dice ai normali:
Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti – voi dite – lo faremo noi! Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni! Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti! (p. 195)
Se i ragionamenti dei matti fossero da considerarsi negativi e sintomi di vera «pazzia», come lo vede Gioanola, non ci sarebbe nemmeno coerenza tra la poetica dell’umorismo e i testi letterari di Pirandello. Si toglierebbe validità al suo discorso poetico, dato che le teorie vengono spesso formulate tramite i matti. I matti sono spesso i portavoci dell’autore. Non ci si può limitare a giudicare la logica dei matti come negativa e morbosa. È proprio la loro estraneità e capacità di astrazione che sospende il senso comune, mostrando la «follia» della vita associata di ogni giorno, la sua insensatezza.
Pirandello «ragiona di pazzia in termini di psichiatria pre-freudiana» sostiene Gioanola. Pirandello era infatti influenzato dalle teorie sulle «alterazioni della personalità» di alcuni medici-filosofi francesi (Binet, Ribot), teorie in cui non è tanto una questione di io vero o falso, quanto una battaglia tra molti io differenti (cfr. ad esempio Remo Bodei: «Un episodio di fine secolo», in: ATQUE, materiali tra filosofia e psicoterapia, n. 1, 1990, p. 91-105.) I personaggi di Pirandello consistono, in conformità con quella teoria, di «una aggregazione «sincronica» di elementi non tra loro coerenti», e secondo Gioanola sono «perciò potenzialmente schizoidi». Invece si potrebbe dire che Enrico ha lasciato predominare un altro io, e dimostra così – invece della malattia – la presenza delle possibilità di cambiare personalità che l’uomo possiede.
Invece di vedere la dissociazione del soggetto come malattia mentale, la si può interpretare come una sospensione dell’idea stessa di soggetto. Il processo di dissoluzione del soggetto si riconosce in molti personaggi pirandelliani, e comporta tra l’altro il venire meno della distinzione tra la sfera del soggetto e quello dell’oggetto. Vivendo come pura maschera, Enrico viene «oggettivato», come succede ad esempio anche a Moscarda ( in Uno, nessuno, centomila ad esempio: «Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.» La sua coscienza si apre alla sfera oggettiva, qui intesa come il ruolo del personaggio storico le cui vicende egli lascia vivere in sé. Enrico non ha più un nome proprio, rinuncia ad una vita propria e scompare come soggetto.
Meta-teatro
Enrico IV si propone come un discorso meta-teatrale, come metafora di se stessa e di ogni rappresentazione teatrale. Più che un conflitto a livello interpersonale tra Belcredi e Enrico, o un conflitto nella psiche di Enrico, sembra svolgersi un conflitto tra diversi tipi di rappresentazioni o visioni teatrali. E’ come se con Enrico IV succedesse una distruzione degli elementi drammatici tipici ad es. del dramma psicologico, per fare posto ad una «tragedia astratta» (R. Alongé: Pirandello tra realismo e mistificazione. Guida Editori, 1977, p. 246.) Il dramma diventa così una testimonianza della stessa crisi formale del contemporaneo Sei personaggi in cerca d’autore.
La tragedia (anche quella astratta) non è teatrabile, e in questo senso il secondo atto è la fine ideale del dramma, è come un suggello della tragedia astratta, che poi viene messa in crisi nel terzo atto. Nel terzo atto, con gli elementi tecnici e le luci che si accendono d’improvviso, entra in scena la «commedia sentimentale», creata e vissuta dagli altri che cercano di coinvolgere Enrico. Sembra un tentativo di drammatizzare. All’improvviso Enrico si trova su un altro tipo di palcoscenico, quello a cui ha rinunciato già da tanto tempo, cioè quello dei drammi psicologici, degli intrighi interpersonali. Il terzo atto ha la funzione di contrapporre i due tipi di dramma, la commedia sentimentale e il dramma astratto come lo ha dimostrato R. Alongé.
Dunque, Belcredi è il rivale di Enrico anche e soprattutto nel senso metateatrale siccome è lui a trascinarlo giù ad un livello banale, via dalla dimensione contemplativa, dal dramma astratto, forzandolo a recitare la commedia patetica. Belcredi irride la finzione di Enrico chiamandola burla, commedia, puerilità etc. Vuole smascherare Enrico perché egli rappresenta un mondo, e meta-testualmente un tipo di dramma, sovversivo e inaccettabile per il mondo comune. Enrico lascia per un po’ il suo ruolo e il linguaggio folle, cioè le battute prefissate della storia, per compiere l’omicidio che è l’unica via d’uscita dalla crisi, una crisi tra due tipi di dramma, una crisi nella stessa struttura teatrale. La commedia sentimentale rischia di distruggere il dramma astratto. Perciò Enrico deve uccidere Belcredi e con lui tutto ciò che rappresenta, per liberarsi definitivamente di quel tipo di dramma.
Non era rappresentabile la tragedia classica, storica. E bisognava anche rompere con quella psicologica-sentimentale che non si poteva veramente mettere in scena, se non per frammenti intercalati nel gioco dei vari livelli stilistici. Perciò Pirandello le sostituisce con un dramma astratto e metateatrale, in cui sono evidenti la scomposizione e la distruzione degli elementi drammatici, ed in cui le vicende di Enrico assumono senso soprattutto al di là del livello psicologico.
Riassunto
Nella prima parte dell’articolo ho cercato di dimostrare che – anche se l’Enrico IV è chiamata una tragedia – vi ha luogo invece una scomposizione degli elementi drammatici che la rende una «tragedia astratta» e metateatrale.
La finzione di essere pazzo e di credersi Enrico IV è l’unica realtà del protagonista, ma non è univocamente il polo negativo o tragico di una vita autentica e normale. Egli difende l’immobilità e la certezza della storia, che risulta una liberazione dalle angosce dell’esistenza moderna in cui non si da un senso delle cose. L’omicidio finale non è perciò, secondo me, guidato dalla follia o dall’irrazionalità degli istinti, come sostiene Lone Klem, ma è il suo tentativo di difendere la finzione, la «follia» che è la sua ragione, un mezzo per completare il suo distacco critico e cognitivo dalla «normalità».
La seconda metà dell’intervento consiste soprattutto in una discussione della interpretazione psicanalitica di E. Gioanola. Secondo me ci sono alcuni elementi importanti che vengono ignorati nella sua analisi della follia. Soprattutto il fatto che la logica rifiutata da Pirandello (perché essa tende a fissare la mutabilità e la relatività della vita) non è la logica dei matti. La logica dei matti è invece volubile e anticonformista, ed è spesso portavoce delle teorie di Pirandello, come è il caso in Enrico IV.
Pia Schwarz Lausten – Università di Copenaghen
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