Lazzaro – Atto Secondo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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Lazzaro - Atto II
Piccolo Teatro Città di Sacile, Lazzaro, 1966

1929
Lazzaro
Atto Secondo

        Atrio rustico della casa di campagna di Diego Spina. L’atrio è coperto da una tettoja, di cui si vedono le tegole, spioventi verso il fondo; e poggia su due pi­lastri imbasati su un murello basso di cinta che s’apre nel mezzo per dare accesso nell’atrio mediante uno scalino. Lungo il murello di cinta è un sedile di pietra. Nel fondo è il podere: tripudio di verde nel sole: un paradiso. Nel lato destro dell’atrio è l’apertura della scala che conduce al piano superiore della villa. Di qua e di là sono altri due sedili di pietra, addossati al muro. Verso il fondo, dopo il sedile, un usciolo. Nel lato sinistro è la porta che immette, me­diante uno scalino d’invito, nell’abitazione del fattore. Nel mezzo della scena una vecchia tavola rustica e vecchie seggiole e qualche sgabello. Al levarsi della tela sono in iscena Arcadipane e un contadino, già carico di fagotti. Un altro fagotto è per terra, e una grossa bisaccia sulla tavola. Arca­dipane, alto, poderoso, con la barba crespa, nera, occhi grandi, ridenti e in­genui come quelli di un bambino, porta in capo un berretto nero villoso, che s’è fatto da sé, dalla pelle d’una capra; veste da contadino, di panno turchino, con gli stivaloni; invece del panciotto, sulla camicia bianca di grossa tela, ha un’altra camicia d’albagio, violacea, a quadri rossi e neri. Il colletto floscio della camicia di tela è rimboccato su questa d’albagio. Alla vita una cintura di cuojo.

        ARCADIPANE (prendendo da terra il fagotto): Vedi se puoi portare anche questo. Così avremo finito di sgomberare.

        Carica con garbo il fagotto sulle spalle del contadino. Intanto dalla porta a sinistra esce un altro contadino carico d’una cassa dipinta di verde. Lo segue Sara. Da lontano, si odono i sonagli d’una carrozza che s’avvicina.

        SARA: Anche questa cassa sul carretto?

        ARCADIPANE: Sì. (Al contadino:) Ma aspetta a scaricarla. Vengo io. Bisogna trovarle posto; e legar tutto bene. Andiamo. Io prendo la bisaccia. (La prende.)

        SARA: Sulla mula, la bisaccia.

        ARCADIPANE: Oh, viene una carrozza: non saranno mica loro?

        SARA: No. Troppo presto.

        ARCADIPANE: Su non resta più nulla?

        SARA: Più nulla, Va’, va’ a vedere chi può essere. Ma non è possibile che siano loro. (Rientra in casa.)

        Arcadipane dall’atrio segue i contadini che già sono svoltati a sinistra, uscendo dal fondo. La scena resta vuota per un momento. Rientra dal fondo Arcadipane seguito dal dottor Gionni.

        ARCADIPANE: Ecco, entri, signor dottore. Se vuol salire – non so – qua da me, o dal figlio. (Indica la scala a destra.)

        GIONNI: No no. Riparto subito. Ritornerò, dopo la visita che debbo fare qua vi­cino, nella campagna del Lotti.

        ARCADIPANE: Ah, per la madre: lo so. Pare che stia molto male.

        GIONNI: Eh, purtroppo. Passando, mi son fermato per prevenirvi… –

        ARCADIPANE: – aspetti: chiamo Sara. (Va alla porta a sinistra, sale lo scalino e chiama:) Sara, vieni: c’è qua il signor dottore. Sara entra dalla porta a sinistra.

        SARA (in apprensione): Che altro di nuovo?

        GIONNI: Nulla, non s’allarmi. Voglio soltanto prevenire Lucio d’una cosa.

        SARA: Dev’esser su, Lucio. Strano che non abbia sentito i sonagli della vettura.

        GIONNI: Dormirà.

        SARA: No. Magari! Non dorme più. E sono tanto in pensiero per lui, creda. Ora poi, con questa disgrazia del padre…

        GIONNI: Sì, ma ormai…

        SARA: Lei non può immaginarsi quella sua povera testa –

        ARCADIPANE: – senza mai requie –

        SARA: – con quegli occhi – io non so – come induriti, sì, mi fanno questa im­pressione: induriti dal dolore – eppure, accesi come avesse la febbre. Quello che pensa! Jersera m’ha detto che forse è prossima la resurrezione del padre.

        ARCADIPANE: Oh come? E non è già risorto? col miracolo… (e accenna al Gionni.)

        GIONNI: Per carità, non dite miracolo, non dite miracolo anche voi!

        ARCADIPANE: Lo gridano tutti a una voce!

        GIONNI: È ben questo il male, a cui bisogna riparare!

        ARCADIPANE: Male? Ne siamo sbalorditi tutti ancora! Non si parla d’altro nelle campagne.

        SARA: E figurarsi in città!

        GIONNI: Già, ma figuratevi anche lui, ora; voglio dire, quel che c’è da temere per lui, appunto per questo.

        ARCADIPANE: Perché tutti gridano al miracolo della resurrezione?

        GIONNI: Appunto, appunto. Non lo può ammettere, lui, codesto miracolo, cre­dendo come crede.

        ARCADIPANE: E perché no?

        GIONNI: Perché Dio solo può richiamare da morte a vita.

        ARCADIPANE: E come? non è stata forse volontà di Dio?

        GIONNI: Ecco! Bravo! Non sono mica un diavolo per voi?

        ARCADIPANE: Che dice mai, signor dottore!

        GIONNI: Mi vedo guardato da tutti come uno ch’abbia il potere infernale di re­suscitare i morti…

        ARCADIPANE: Eh, ne ha resuscitato uno!

        GIONNI: Appunto, per un miracolo! E proprio quest’uno, che dovrebbe ringra­ziarne Dio, mi fa stare ora in tanta apprensione che venga a saperlo!

        SARA: Ah, ecco, dice forse per questo, Lucio, allora –

        GIONNI: – che cosa? –

        SARA: – che è prossima la sua vera resurrezione!

        GIONNI: Suppone che alla fine lo riconoscerà anche lui?

        SARA: Lo spera, forse.

        GIONNI: Farebbe bene a non sperarlo tanto. Son venuto appunto a prevenirlo circa al modo di comportarsi con lui, appena verrà; e ne prevengo anzi anche voi…

        SARA: – ma noi no, non lo vedremo noi, dottore: ce n’andremo prima ch’egli arrivi –

        ARCADIPANE: – siamo sul punto d’andarcene –

        GIONNI: – ah, già, scusate… –

        SARA: Vado sii, vado su a chiamar Lucio. (Attraversa la scena ed esce, salendo la scala a destra.)

        GIONNI: Eh, lo so! V’ho reso un cattivo servizio, Arcadipane. Certo, voi, all’annunzio della morte… –

        ARCADIPANE: – non crederà, signor dottore, che Sara ed io ce ne fossimo ralle­grati –

        GIONNI: – non dico rallegrati, ma certo avreste potuto –

        ARCADIPANE: – regolare la nostra unione? ah questo, sì, subito.

        GIONNI (quasi tra sé): Strano!

        ARCADIPANE: Che cosa?

        GIONNI: Potreste ancora…

        ARCADIPANE: E come? con lui vivo?

        GIONNI: C’è l’atto di morte –

        ARCADIPANE: – sarà annullato! –

        GIONNI: – per ora c’è – con tanto di firma del necroscopo. – Legalmente, è morto. –

        ARCADIPANE: Lei non lo dice sul serio…

        GIONNI: No, ma – certo – legalmente…

        ARCADIPANE: Signor dottore, la legge… quella di Dio: non ce n’è altra.

        GIONNI: Ma i vostri figliuoli…

        ARCADIPANE: Basterà loro non esser fuori della legge di Dio. Non ho nulla da lasciar loro, altro che l’esempio dell’obbedienza a questa legge. Mi duole il cuore per una cosa soltanto: che non udrò più la mia voce qua sotto le tegole di quest’atrio che mi ricorda… ah se lei sapesse, quante notti, seduto su quello scalino là a guardare quella scala… S’immagini che amore ho potuto mettere a queste pietre, a questa terra, a ogni albero che vi ho piantato, con lei (allude a Sara) che da padrona mi s’è fatta compagna… – Eccola che ridi­scende col figlio. Mi ritiro. Non gli ho mai parlato; non mi son lasciato nemmeno vedere da lui.

        Via per il fondo, svoltando a sinistra. Vengono giù dalla scala a destra Lucio e Sara. Lucio ha ventidue anni. Esile, pallidissimo, col viso scavato dal tra­vaglio spirituale che gli ha acceso negli occhi una luce febbrile. Ha mani sensibilissime, gracili; e se le stringe spesso convulso. Non è affatto timido; anzi, come sospinto da un’ansia che, a volte, sembra irosa. Ha un po’ d’im­paccio dell’abito che indossa. Grigio, comperato bell’e fatto, piuttosto grezzo. Sembra un adolescente che porti per la prima volta i calzoni lunghi. Scende con la madre, in fretta.

        LUCIO: No, no dottore –

        GIONNI: – buon giorno, Lucio –

        LUCIO: – buon giorno – io non potrò tacere, gliel’avverto, non potrò tacere, se egli viene qua –

        GIONNI : – io intendevo, su ciò che gli è accaduto –

        LUCIO: – tacere che cosa? –

        GIONNI: – ma questo che dicono un miracolo – l’ajuto che ho prestato io…

        LUCIO: – e perché tacerlo? –

        GIONNI: – perché ancora non ne sa nulla! –

        LUCIO: – nulla? –

        SARA: – che è stato lei?… –

        GIONNI: – per carità, non una parola su questo punto! Non ricorda nulla di nulla. Sa soltanto d’essere stato investito da un’automobile. Crede d’avere avuto una commozione cerebrale che gli ha tolto la memoria di tutto.

        SARA: Non sa dunque nemmeno dell’atto di morte?

        GIONNI: Nulla, nulla! Non ne ha il minimo sospetto, vi dico. Ringrazia Dio, che oltre la commozione che, sì, poteva essere mortale, non abbia avuto altro danno dall’investimento.

        LUCIO: E le pare possibile che non venga a saperlo?

        GIONNI: Quel che preme è che non venga a saperlo ora, nello stato in cui si trova. Tu puoi comprendere che sconvolgimento avverrebbe nel suo spirito.

        LUCIO: E non crede che sarebbe salutare?

        GIONNI: No, Dio liberi! Levatelo dalla testa! Gridò al sacrilegio per una coni­glietta resuscitata, figurati ora, se venisse a sapere… Ti giuro, Lucio, che se non era per la tua sorellina che mi gridava disperatamente di dare a lui quello stesso ajuto, io per me avrei esitato, me ne sarei fatto scrupolo, proprio, per le conseguenze… –

        LUCIO: – e se ora io contassi? –

        GIONNI: – ma no, che dici? su queste conseguenze? –

        LUCIO: – per richiamarlo alla vita, dottore, e far che Dio veramente – nel suo corpo rimesso in piedi – compia intero il suo miracolo!

        GIONNI: Vuoi dunque rischiare d’ucciderlo.

        LUCIO: Io? No, dottore. Guardi che lo rischia lei, piuttosto.

        GIONNI: Come? Perché?

        LUCIO: L’ha rimesso in piedi, per far di nuovo camminare… che cosa? un corpo soltanto?

        GIONNI: Un corpo? Ma tuo padre ha la sua fede!

        LUCIO: Appunto. Gliel’ha lei rispettata, rimettendolo in piedi con un mezzo ch’egli stima sacrilego? Appena verrà a saperlo, lei lo avrà ucciso.

        GIONNI: Ma mi sto dando appunto pensiero di questo, mi pare!

        LUCIO: Che non venga a saperlo? Se non sarà oggi, sarà domani.

        GIONNI: A me basta che non sia in questo momento, almeno! Pensa infine ch’è stato proprio per causa tua… –

        LUCIO: – non dica mia, non dica mia: dica ch’è stato per questa prova suprema – di vita – che Dio ha voluto mandare a lui e a me!

        GIONNI (facendo spallucce): Prova suprema, prova suprema…

        LUCIO: Eh, più di così? Non l’impedisca in nessun modo, dottore, se egli viene qua, oggi, per affrontarla.

        GIONNI: Ma ti figuri che venga per questo?

        LUCIO: Non viene per parlare con me?

        GIONNI: Ma non aspettandosi, certo, a codesta prova suprema che tu dici!

        LUCIO: E a che cosa, allora?

        GIONNI: Ma io non so! Che tu receda, suppongo –

        LUCIO: – dal passo che ho dato? E vuole che non gli dica le ragioni per cui l’ho dato?

        GIONNI (arrabbiandosi): Digliele pure! Fa’ come credi! Gli sembreranno tutte eresie! Insomma, caro, senti: è veramente una sorte assai buffa, la mia! con­dannato a irritar tutti, sempre! Dev’esser la mia faccia – io non so – la mia voce… Rispetto la fede altrui, e irrito anche con la mia tolleranza! Penso come te, sento come te – ed eccoci qua – irritato tu, irritato io…

        LUCIO (sorridendo): Ma no, io non sono affatto irritato…

        GIONNI: E io sì; e me ne vado! Ho fatto, da medico, il mio obbligo; ti scon­giuro, da amico, di lasciar per ora tuo padre nell’ignoranza di quanto gli è ac­caduto.

        SARA: Sì, sì, credo anch’io che tu non debba dirgli nulla, per ora.

        LUCIO: Se credete che possa nuocergli, tacerò anche se mi costringerà a parlare –

        GIONNI: – non dico questo!

        LUCIO: Per forza, dottore! Vorrà parlarmi della mia fede perduta, e io dovrei allora rispondergli che non è vero che l’ho perduta, ma anzi acquistata –

        GIONNI: – non per lui – acquistata… –

        LUCIO: – la fede, ciascuno l’acquista per sé –

        GIONNI: – no, intendo dire: a suo modo di vedere… –

        LUCIO: – e acquistata, sa come? negando proprio quella morte, che voi avete tanta paura ch’egli venga a conoscere –

        GIONNI: – negando? come la neghi, la morte? –

        LUCIO: – col non presumere più che Dio, solo per il fatto naturale che domani questo mio corpo cadrà come una qualunque foglia appassita –

        GIONNI: – e non è morire questo? –

        LUCIO: – ma no! che morire, dottore – un po’ di polvere che ritorna polvere –

        GIONNI: – questo lo dice anche tuo padre! –

        LUCIO: – sì; ma egli presume appunto –

        GIONNI: – già, sì: che il suo spirito –

        LUCIO: – suo? come suo? Ecco, vede dov’è l’errore?

        SARA: – nel dire il suo spirito? –

        LUCIO: – ma sì, mamma! Ammetterlo eterno, infinito, e presumere che possa esser mio, di uno che è nel tempo, labile forma d’un momento, jeri o domani. Vedi com’è? Per non finire noi, annulliamo in nome di Dio la vita, e fac­ciamo regnare Dio anche di là (non si sa dove) in un presunto regno della morte, perché ci dia là, un premio o un castigo. Quasi che il bene e il male potessero esser quelli di uno che è parte, mentre Egli solo, che è Tutto, sa ciò che fa e perché lo fa. Ecco, vede, dottore? questo dovrebbe esser per lui, com’è stato per me, il vero risorgere dalla morte: negarla in Dio, e credere in questa sola Immortalità, non nostra, non per noi, speranza di premio o timore di castigo: credere in questo eterno presente della vita, ch’è Dio, e basta. E Dio allora veramente, dopo quest’esperienza che gli ha concesso di poter fare, compirà – e soltanto Lui – il miracolo della sua resurrezione. Non dirò, non dirò nulla, glielo prometto; mi lascerò dire da lui quello che vorrà; e dirò di tutto, non dubiti, per non aver la sua sorte, dottore: dico, d’irritarlo.

        GIONNI (ammirato di quanto Lucio, con un fervore semplice e dolce, ha detto): Eh già! Purché poi, tacendo, non lo irriti di più… È ben questa la mia sorte! Ora, per esempio, sono irritatissimo del consiglio che t’ho dato. Basta. Spe­riamo che tutto finisca bene. A rivederla, signora.

        SARA: A rivederla. Ma mi chiami Sara, non mi chiami signora. Tornerà?

        GIONNI: Sì sì, tra poco. A rivederla.

        Via per il fondo, voltando a sinistra. Si udrà, poco dopo, il suono delle so­nagliere.

        SARA: Andrò via anch’io, ora…

        LUCIO (avvertendo il suono): Senti, mamma?

        SARA: Che cosa?

        LUCIO: Queste sonagliere.

        SARA: Sono della carrozza del dottore.

        LUCIO: Quand’ero bambino, mi pareva che le campagne aperte, di mattina, nel sole, fossero fatte per diffonderne il suono festivo.

        SARA: Ma la campagna tu, da bambino, figlio mio… –

        LUCIO: – la vedevo dall’alto del cortile del Seminario, su a San Gerlando. I miei compagni nell’ora della ricreazione, si rincorrevano, gridando come pazzi e tirandosi sii le tonache, per correr meglio. Io me ne stavo là in fondo, da dove si godeva la gran veduta della vallata verde, con lo stradone che la solcava; e vi scorgevo, piccole piccole, le carrozze che andavano in campa­gna, con l’attacco a tre, e me ne giungeva da lontano lontano – ecco, com’è ora – questo suono. (Voltandosi alla madre che piange:) Tu piangi, mamma?

        SARA: Il pianto ch’è nella tua voce…

        LUCIO: Sì, avevo… avevo un’angoscia… L’angoscia della vita che avrebbe po­tuto esser bella. Mi pareva di sentir l’allegria d’una corsa in campagna, in quel verde indorato dal sole, nell’aria aperta. Ho così forte il senso dei luo­ghi, l’odore delle cose. Penso a quando uscivamo dal Seminario a due a due per la passeggiata, passando accanto a uno di quei landò d’affitto, in piazza, ecco, ne sento ancora quel tanfo di rimessa, e vedo perfino un filo di paglia tra le labbra bige di quei cavalli; odo sui lastroni della piazza il suono dei loro zoccoli ferrati, quando scalpitavano. Vedi, mamma, la fede, quand’ero così piccino là nel Seminario, era… era odore, sapore… l’odore dell’incenso, della cera… il sapore dell’ostia consacrata… e uno sgomento dei passi che facevano l’eco nell’interno della chiesa vuota…

        SARA: Eri così tanto piccino… col visino anche allora così sbiancato… Ah che pena, figlio, quando ti vedevo venire a casa, nelle feste, con quella tonacella. che facevi l’atto anche tu di sollevare, per correre a me, e subito la lasciavi andare per non far ridere le ragazzine di strada che ti davano la baja: «l’aba­tino! l’abatino!». E avevi gli occhi come spauriti, quando mi guardavi…

        LUCIO (coprendosi gli occhi con le mani): Ah no, mamma, non ricordare!

        SARA: Perché?

        LUCIO: Se sapessi che onta! perché avevo quegli occhi! Tutta la feccia della vita, così bambino, l’avevo già dentro; me l’aveva messo dentro uno, uno dei grandi, sai quello che poi impazzì? Si chiamava Spano: quello.

        SARA: Avevi appena sei anni…

        LUCIO: E sapevo tutto! E non so se era più orrore in me o terrore. Terrore di quella bestia mala che insudiciava tutto con l’immaginazione e non rispar­miava nessuno!

        SARA: Anche di me ti parlava? Oh vile!

        LUCIO: Non puoi immaginare in che soggezione mi tenesse! Faceva di me la sua volontà; m’atterriva!

        SARA: Ah tanto no, non lo sospettai mai!

        LUCIO: Sapessi…

        SARA: Ti vedevo avvilito, mortificato, come un bambino della tua età non po­teva essere; ma non avrei mai supposto per questo! Mi si torcevano le vi­scere, vedendo così – l’uno e l’altra – teneri teneri – avvizzire; e vedendo lui, vostro padre – che non era possibile (ora credo) non ne soffrisse – duro, ostinato, per non darmela vinta. Diceva che stavate bene –

        LUCIO: – ah sì, bene?

        SARA: – bene – e io, a prendervi le faccine e mostrargliele: «Hai il coraggio di dire che stanno bene?». Sentivo che non era vita per me da potersi reggere, con questo scempio che vedevo fare di voi, come alla mia stessa carne.

        LUCIO: Eh sì, difatti, la povera Lia… –

        SARA: Come me la vidi riportare a casa – cionca – finita – e vidi le suore che, dopo avermela ridotta in quello stato, me la dovevano assistere e curare… –

        LUCIO: – ah, loro? –

        SARA: – loro, capisci? non io! – loro! – m’avventai come una belva contro una; non so quello che le feci; me la strapparono dalle mani; mi presero per indemoniata. (Tronca, per frenare l’impeto d’odio che la riassale, e subito riprende:) Lucio, me ne fecero scappare – scappare – come una pazza! Pre­gai, scongiurai che la mia creatura mi fosse portata qua: ero sicura che l’a­vrei guarita: ma qua, sola con me, senza di lui: non potevo più vedermelo davanti: l’avrei ucciso. Mi rivoleva. Sì, perché – faceva il santo, il tiranno – ma poi, quello che più m’inferociva di lui, quando mi s’accostava, era quella mollezza della sua timidità… (Tronca con un’esclamazione e un atto di schifo:) – ah Dio! – Eppure ti giuro, Lucio, avrei, avrei fatto il sacrificio di resistere all’orrore che ormai ne avevo, purché ne fosse venuto un bene a voi, a voi, figli; e posi per patto che tu almeno fossi liberato e venissi qua con me, tu e la Lia. – Non volle, non volle. – E allora, lui no; e no anch’io! Quello che soffersi non te lo puoi immaginare: lo strazio mio qua, e il vostro là, a cui, anche se mi sacrificavo, non avrei potuto portar riparo.

        LUCIO: So che ricorresti ai tribunali –

        SARA: – mi diedero torto –

        LUCIO: – torto? –

        SARA: – a me, sì! dissero che dovevo stare con lui e la figlia; e che la pretesa di levar te dal seminario non era giusta; e insomma che ero io – io e non lui – a voler la fine della famiglia. Fu tale l’esasperazione, dopo due anni di lotta accanita, disperata, che buttai via tutto, via tutto! – Che vuoi? mi prese l’odio! – Di qua si vede la città – non potei più guardarla – voltavo la faccia, appena gli occhi, senza volerlo, m’andavano là. L’odio di quelle chiese, di quelle case, e il tribunale… tutto! – Quando a una madre si nega d’attendere ai suoi figli, a una madre che vuole la salute per i suoi figli le si dà torto – che vuoi? ci si danna! Buttai via tutto e mi feci contadina – contadina qua, sotto il sole, all’aperto! Un bisogno mi prese, un bisogno d’essere selvaggia; un bisogno di cadere a terra la sera come una bestia morta sotto la fatica – zappando, pestando le spighe sull’aja con le mule, a piedi nudi, sotto la cani­cola, girando a tondo con le gambe insanguinate e gridando come un’ub­briaca – bisogno d’essere brutale con chi mi pregava che avessi pietà di me – tu intendi chi – quest’uomo puro – puro, Lucio, come una creatura uscita ora dalle mani di Dio – quest’uomo che non ha saputo mai tollerare che mi fa­cessi uguale a lui, e che impedì che mi dannassi, insegnandomi le cose della campagna, la vita, la vera vita che ha qui, fuori della città maledetta, la terra; questa vita che ora sento, perché le mie mani la servono, l’ajutano a crescere, a fiorire, a fruttare; e la gioja della pioggia che viene a tempo; e l’afflizione della nebbia che brucia gli olivi sul fiorire; e hai visto l’erba sulla proda qua della stradetta, d’un verde così nuovo e fresco, all’alba, con la brina? e il piacere, il piacere, sai, di fare il pane con le tue stesse mani che hanno semi­nato il grano…

        LUCIO: Sì, sì, mamma – e vedi che sono venuto a te…

        SARA: Figlio mio, la gioja che m’hai data, Dio solo che t’ha mandato me la poteva dare! E l’ho gridato, l’ho gridato a tuo padre, che mi son sentita ribe­nedetta! M’hai ripagato di tutto, figlio, con la tua venuta; e anch’io, vedi, di tutto ti posso parlare, così senza vanto né rossore, perché io sola so quel che ho dovuto soffrire, scontare, per divenire così, come forse nessuno più in­tende che cosa voglia dire: naturale.

        LUCIO: Io, l’intendo, vedendoti, sentendoti parlare.

        SARA: Mi sono veramente liberata; non desidero perché ho; non spero perché, ciò che ho, mi basta; ho la salute, il cuore in pace e la mente serena.

        LUCIO: Ma tu non puoi, tu non devi, mamma, andar via di qua.

        SARA: Son già via: tutta la roba è partita.

        LUCIO: No, no: l’impedirò io! Di questo sì, gli parlerò, e forte!

        SARA: Tu non puoi impedirlo, Lucio –

        LUCIO: – sì che posso! debbo! –

        SARA: – non puoi e non devi, no; e io, del resto, non voglio, non voglio.

        LUCIO: Ma tutto quello che hai fatto qua… –

        SARA: – non l’ho fatto per me. Vorrei sì – e questo lo dissi anche a tuo padre-vorrei averlo fatto per voi, per te e Lia. Questo sì, tu puoi provarti a impe­dirlo: che il podere – questa ricchezza – vada perduto, in mano di nessuno. Tu hai pur diritto di difendere, se non per te, per la tua sorellina, questo bene. Ma non puoi per me, e non devi; ripeto: io non voglio.

        LUCIO: Sta bene: lo farò per me e per Lia. Ma tu dove andrai?

        SARA: Non temere, abbiamo già provveduto; sappiamo dove andare: per ora, da un fattore nostro amico, un po’ lontano da qui, alle Favare; poi, l’anno venturo, ci sarà affidato un podere qua vicino, a mezzadrìa; e ci sarà da gua­dagnare un po’ anche per noi che, finora, sai? non abbiamo guadagnato mai nulla. Si dovrà pur mettere da parte qualche cosa… –

        LUCIO: – già, sì, per… Mamma, perdonami, io non ho ancora saputo trovar l’a­nimo di parlartene: tu hai due figli…

        SARA: Sì, con lui – non l’hai ancora veduti – contadinotti, bruciati dal sole…

        LUCIO: E lui… –

        SARA: – se sapessi, in quale apprensione, in quanta soggezione lo tieni… –

        LUCIO: Io?

        SARA: Sì: teme e si vergogna; non gli par l’ora d’andarsene; mi sa con te, e son sicura ch’è di là, in questo momento, come la cagna coi cuccioli, a cui il pa­drone ne abbia tolto uno per farlo vedere, non osa ringhiare e allunga da sotto in su gli occhi pietosi a sogguardare che gli fanno…

        LUCIO: Vuoi chiamarlo?

        SARA: Sì? vuoi che lo chiami?

        LUCIO: Sì; coi bambini.

        SARA: Saranno qua fuori; m’aspettano per partire. (Va infondo e chiama verso destra:) Oh, Roro! Vieni… vieni, sì, qua… Coi bambini… vieni, vieni…

        LUCIO: Lo chiami Roro?

        SARA: Io, sì: si chiama Rosario; lo chiamo Roro. Il piccolo era già sulla mula. Eh, appena può cavalcare, lui, tutto felice!

        LUCIO: Come si chiamano i bambini?

        SARA: Uno, Tonotto, il maggiore; e l’altro Michele. – Eccoli qua. (Entra dal fondo Arcadipane coi due ragazzi per mano.) Questo è Arcadipane. (/ due ragazzi corrono a lei: prima Tonotto e poi Michele.) E questo è Tonotto. E questo (prende in braccio il minore) è Michele.

        LUCIO (chinandosi a baciare Tonotto e poi baciando in braccio alla madre Michele): Come sono belli, mamma! Forti.

        SARA: Sani. (Ad Arcadipane:) Tu non ti ricordi di Lucio?

        ARCADIPANE: Sì, di quand’era bambino come quello. (Indica Tonotto.)

        LUCIO: Anch’io ho un ricordo… ma non so più se sia vero… Anche di te, mamma… Ma forse, non propriamente ricordo: una visione che mi fosse ve­nuta – non so – come da un’altra vita; come a guardare da una profonda lon­tana lontana finestra di sogno. Ma rivedendoti, ora… non so, m’è nato il dub­bio che…

        SARA: Ma si sa che ora sono un’altra!

        LUCIO: Sì, certo; ma il dubbio, dico, che io l’abbia sognata, quell’immagine: era così un’altra… – No, sai, non più bella, mamma! anzi… Sei così bella ora, tanto, tanto più bella! E quella, anzi, così triste… E anche di lui, l’immagine che serbavo… Ma dimmi un po’, mamma (non ridere) – tu non ricordi che a casa nostra… – quando c’eri – ci fosse una gatta bianca?

        SARA: Una gatta bianca? quando tu?… (D’improvviso, sovvenendogliene l’im­magine:) –sì sì, c’era! c’era! Ma non una gatta, un gatto era – sì sì – bianco – un bel gattone bianco – eh altro! – sì, mi ricordo!

        LUCIO: E allora…

        SARA: Allora, che cosa?

        LUCIO: Quella che ho sempre ricordato, mamma, sì, doveva essere la tua im­magine. – Una stanza… una sala da pranzo – grande – dal tetto basso –

        SARA: – ma sì, quella della casa dove stavamo prima –

        ARCADIPANE: – alla scesa di San Francesco –

        LUCIO: – io non me la ricordo affatto – ho solo, vaga, l’impressione di quella sala-

        SARA: – sì, con una finestra che dava sugli orti, di là dalla strada –

        LUCIO: – c’era in mezzo una tavola quadrata – la vedo – con un solo posto ap­parecchiato su una salvietta, ancora con le pieghe della stiratura – una botti­glia di vino nero, con la schiuma nel collo della bottiglia – (potrei prendermi sulle dita il filo di sole che vi batte sopra, dagli scuri della finestra accostati).

        – Lui sta seduto davanti a quella salvietta e mangia a capo chino. – Il gatto bianco sta seduto sulla tavola, in punta, dall’altro lato, ritto su le zampe davanti, con la coda che gli pende dalla tavola e che si muove di tanto in tanto, quasi per conto suo, come una serpetta. Tu, mamma, parli con lui e non badi a me; a un tratto ti volti, ti pieghi su le ginocchia, m’abbracci e, non so perché, ti metti a piangere, stringendomi forte forte; io, di sulla tua spalla, mi sporgo a guardar lui, come per il sospetto che sia lui a farti piangere; lo vedo alzare, brusco, con gli occhi rossi di pianto anche lui; andare a un angolo della stanza; prendere un fucile là appoggiato; ho una gran paura e sto per gridare, quando tu mamma d’improvviso mi lasci e corri dietro a lui uscito precipitosamente; resto come sospeso, smarrito, allora, e vedo il gatto balzare al piatto, addentare la carne rimasta e fuggire saltando dalla tavola. È curioso come mi sia rimasto così vivo il ricordo di questo gatto; mentre le vostre immagini – la tua, la sua… Ricordo bene il pianto.

        SARA: Era per te, figlio – anche il suo –

        ARCADIPANE: – per ciò che ella soffriva! –

        SARA: – m’ero ridotta a sfogarmene con tutti –

        ARCADIPANE: – ed era la pietà di tutti!

        SARA: Lucio, ora ti dico una cosa – davanti a lui. Non l’ho detta prima d’ora, neanche a me stessa. Quando, disperata, lasciai la casa e venni qua, sapevo, m’ero accorta che sotto la pietà di lui c’era già un sentimento per me (voltan­dosi ad Arcadipane) – di’, è vero? è vero? –

        ARCADIPANE (più col cenno del capo che con la voce, raumiliato): – Sì, è vero –

        SARA: – una donna fa presto ad accorgersene, pur lasciando lì l’avvertimento che se ne ha, come non avvertito, e seguitando a trattare come potevo io al­lora trattar lui –

        ARCADIPANE: – ero il suo servo – e giuro che anche il mio sentimento… –

        SARA: – non c’è bisogno che tu lo giuri; vedi che ho premesso che sto dicendo una cosa che rivelo ora per la prima volta a me stessa: anche tu non volevi aver coscienza che m’amavi, non è vero?

        ARCADIPANE: – ne avevo paura!

        SARA: Ebbene, e io ora debbo dire che fu proprio questo, sì, quest’avverti­mento segreto dell’amore di lui, Lucio, a tirarmi alla terra, a far la contadina; anch’io senza volerne aver coscienza, anzi come per una pazzia che volessi fare; ma sentendo in fondo che così soltanto mi sarei guardata dall’impazzire: sì, proprio, facendo la contadina come una pazza! E perciò tutti quegli sgarbi a lui, che non voleva ancora capire e cercava di trattenermi! – Devi ora ca­pire anche tu, Lucio, che – avendo tagliato la mia vita, così come sono stata costretta a fare – a te che ritorni, figlio mio, da quella vita che non potè più essere mia, io non posso, non posso più trovar posto in questa d’ora, ch’è di lui e di queste due creaturine. Io debbo, debbo andare con loro.

        LUCIO: Sì, mamma, è giusto; e non pensare ch’io voglia, o che abbia sperato con la mia venuta… –

        SARA: – lo so, Lucio: lo dico per rinfrancare lui di fronte a te. (Ad Arcadipane:) Ora ce n’andremo.

        LUCIO: So anche che non posso nemmeno venire con te…

        SARA: No, Lucio, non puoi.

        LUCIO: Ma vorrei che tu almeno… –

        SARA: – di’, di’, che cosa? –

        LUCIO: – ecco – anche nascosta, mamma… –

        SARA: – nascosta? io? –

        LUCIO: – sì – mi dessi la forza – dopo che avrò parlato con lui – di prendere il mio nuovo cammino – solo, come dovrò, e senza più l’ajuto di nessuno, senza più stato.

        SARA: Ma no, perché? Non vorresti rimanere? –

        LUCIO: – dove? – accanto a mio padre – così? (Indica il suo abito, non più da prete.) Tu sai com’è!

        SARA: Ma non potrà mandarti via!

        LUCIO: Mandarmi via, no; ma non vorrà più, certo, darmi i mezzi per ritornare ai miei studii –

        SARA: – te li darò io i mezzi, se lui non vuole, a qualunque costo! –

        LUCIO: – no, mamma: tu non puoi –

        SARA: – potrò, potrò, sì – a qualunque costo, ti dico! –

        LUCIO: – non puoi, intendo, per la stessa ragione, mamma, per cui non è possi­bile ch’io venga con te.

        SARA: Ma non è la stessa cosa! No! Se li accettassi da lui… (indica Arcadipane.) Li avrai da me, dal mio lavoro –

        LUCIO: – lo devi ai tuoi figli quanto verrà dal tuo lavoro. No. E del resto, forse è meglio ch’io abbandoni i miei studii e mi provi anch’io, mamma, a libe­rarmi come te –

        SARA: – no! no! –

        LUCIO: – sì, a trovare anch’io la mia naturalezza –

        SARA: – no! –

        LUCIO: – perché diventi semplice e facile anche la mia vita nell’umiltà d’un la­voro manuale –

        SARA: – ma non potrai! –

        LUCIO: – potrò, potrò –

        SARA: – non ne avrai la forza –

        LUCIO: – la troverò –

        SARA: – no, no: devi fare altro bene, tu con la luce, figlio, che hai qua, nella fronte.

        LUCIO: Potrò sempre farlo, anche lavorando umilmente.

        SARA: Non devi, no; in questo non devi prendere esempio da me, no: io ho po­tuto farlo perché soltanto così potevo trovare la mia liberazione, e salvarmi. Ma tu no, tu hai tante vie davanti a te –

        LUCIO: – non ne vedo per ora nessuna –

        SARA: – se non hai potuto camminare per quella su cui egli da bambino ti volle mettere, avrà lui l’obbligo, ora, di darti il tempo e il modo di trovarne un’al­tra, degna di te, su cui camminare e arrivar lontano!

        LUCIO: Ecco, mamma, sì. – Ma non per parlare di me, no; per parlare di tutto; io ho bisogno d’un conforto che in questo momento puoi darmi tu sola. Sono venuto da te, sfidando tutto, soltanto per avere questo conforto.

        SARA: Sì, sì, dimmi, che conforto?

        LUCIO: Sentirti vicina (sia pure nascosta) quando parlerò con lui; anche per te­nermi dal dire ciò che non debbo. Ho bisogno che questa forza mi venga da te: non me la negare. Poi andrai via. Nessuno ti tratterrà. Nessuno ti vedrà.

        SARA: Sì, Lucio, se tu vuoi –

        ARCADIPANE (in apprensione): Ma nascosta, dove?

        SARA: – no: non nascosta: perché nascosta? l’ho già veduto e gli ho parlato a viso aperto: saprei, a un bisogno, riparlargli. Aspetterò là: le stanze son vuote: non potrà credere ch’io voglia rimanere: non c’è più neppure una seg­giola: sederò su lo scalino sotto la finestra: aspettando che tu abbia finito di parlargli.

        ARCADIPANE: No, Sara… non lo fare!

        SARA: Di che temi?

        LUCIO: Ne rispondo io. Verrà via con me: tornerà ai suoi figli e a voi, non du­bitate.

        ARCADIPANE (a Sara): Ma non gli parrà che egli difenda la terra anche per te, se tu rimani qua?

        SARA: Gli ho già detto in faccia che non abbiamo bisogno del suo podere per vivere: se a noi non è venuto mai nulla…

        LUCIO: E nulla io farò per impedirgli di disporne come vorrà, state tranquillo. Accanto a lui, ripeto, non potrò più stare; andrò via anch’io. Del resto, mamma, lascia: va’, va’ pure con lui: mi farò forza da me.

        SARA: No no: io starò là, starò là. (Si odono i sonagli d’una vettura.) Andate, andate. Aspettatemi nel podere del Lotti: vi raggiungerò. Se non è il dottor Gionni di ritorno, saranno loro. Va’, va’. (Arcadipane, via dal fondo coi due ragazzi– Il rumore dei sonagli s’approssima. Sara s’avvia alla porta a sini­stra, prima d’entrare dice a Lucio:) Io sono qua, figlio mio. Entra e richiude la porta. Lucio resta in attesa. Poco dopo, la vettura, di là, si ferma. Si ode la voce di Cico.

        CICO: Ecco, ecco: la carrozzina è qua! Ajuto io! ajuto io!

        DEODATA: No, no, piano, Cico, lascia: so io come debbo prenderla.

        CICO: Pronta qua la carrozzina! – Ecco, brava. – E ora corre come sulle sue gambette!

        Appare in fondo, nel sole, Lia sulla sua sediolo a ruote. Seguono, correndo, Cico e Deodata.

        LIA: Lucio! Lucio! Dove sei?

        LUCIO (correndo e abbracciandola): Eccomi, Lia!

        DEODATA (con una maraviglia, subito spenta dalla delusione e quasi dal di­sprezzo): Eccolo là!

        CICO: Oh guarda! Non me n’ero neanche accorto…

        LIA (staccandosi dall’abbraccio): Lasciati vedere! Nooo, buffo! Dio, sembri più piccolo!

        DEODATA: Hai faccia da comparire così…

        CICO: Pare uno qualunque…

        LIA: Non sembri più tu!

        DEODATA: Sapessi che effetto fai a chi ti rivede! Ma dov’hai comprato cotesto abito? Non vedi come ti sgonfia da collo?

        LUCIO: Che volete che m’importi? – Dov’è il babbo? Non viene?

        LIA: Viene, sì, con Monsignore, in un’altra vettura: hanno aspettato il notajo.

        LUCIO: Per la cessione del podere?

        DEODATA: Figurati, appena ti vedrà così! Non vorrà più saper altro! – Intanto, guardala: (prende la faccia di Lia e la mostra a Lucio) le è bastato prender aria qua, appena appena, guardala, s’è tutta colorita.

        LIA: È tanto bello qua! tanto bello!

        LUCIO: Dunque, sempre ostinato?

        DEODATA: Tuo padre? più che mai!

        LIA: Sì: lo vedrai… fa paura; e anche una pena… una pena, Lucio…

        LUCIO: Ma non sospetta ancora nulla?

        LIA: Di che?

        LUCIO: Di ciò che gli è accaduto?

        LIA: Ah, no! neanche per ombra!

        DEODATA: Nulla! (Pausa tenuta.)

        CICO (assorto, come tutti gli altri, nella cosa terribile accaduta): Ed era morto! Proprio morto! (Pausa.)

        DEODATA: Morto, sì.

        LIA: Come l’ho visto…

        LUCIO (con intenzione): Morto?

        LIA: Sì.

        LUCIO: E allora, dillo! Morto. Devi dirlo anche tu!

        LIA: Morto, morto, sì.

        DEODATA: L’abbiamo visto tutti!

        CICO: Morto.

        DEODATA: Anche Monsignore!

        CICO: Anche lui: morto, lo vide bene. E poi l’accertarono due medici.

        DEODATA: Uno scrisse l’atto di decesso. (Pausa.)

        LUCIO (a Lia): Fosti tu, è vero?

        LIA: Io, che cosa?

        LUCIO: A far chiamare il dottor Gionni?

        LIA: Ah sì, io, io: mi misi a gridare! Nessuno voleva!

        DEODATA: lo, perché non ci credevo!

        CICO: Monsignore non voleva! non voleva! Corsi io per lui, a chiamarlo, il dot­tor Gionni. Lo volevo vedere anch’io là, davanti al cadavere!

        LUCIO: E allora?

        LIA: Subito, sai?… subito…

        LUCIO: Che cosa?

        LIA: – gli si rimise a battere il cuore, e il viso, da bianco che era… –

        CICO: – bianco… bianco… –

        DEODATA: – di cera. –

        LIA: – subito ritornò… – non ti so dire… – si vide… si vide che il sangue aveva ripreso a muoverglisi nelle vene –

        DEODATA: – e il respiro a sollevargli il petto –

        CICO: – riaprì le labbra –

        LIA: – sì, che cosa! appena appena! – la mia gioja! – era lì, ancora senza co­scienza di vita, ma non più morto! gioja ma – insieme – una cosa… una cosa che atterriva! –

        DEODATA (con tono cupo, e voce lenta e spiccata): – ancora, a pensarci, mi prende il tremito. Pausa lunga.

        CICO (piano, come in confidenza, a Lucio, diabolico): Hai avuto ragione, sai, di spogliarti.

        DEODATA (subito, forte, aspra, a Cico): No! – Non dirlo! non dirlo!

        CICO: M’è scappato! (E si tura la bocca.)

        DEODATA: M’avevi promesso di non dirlo.

        CICO: Non dirlo… Ma se poi lo pensi! – (A Lucio:) Tu capisci: Morto – non sa nulla. Dov’è stato? – Dovrebbe saperlo, e non lo sa. – Se non sa neppure della sua morte, nulla, è segno che, per chi muore, di là non c’è più nulla – nulla. (Pausa.)

        LIA (dopo una strana risatina, quasi tra sé): Le mie alucce, Deodata? Le alucce d’angeletta… Dovevo averle in compenso dei piedi che mi sono man­cati per camminare sulla terra… Addio voli lassù!

        LUCIO (commosso): No, Lia…

        LIA (dolce): Eh, se il paradiso non c’è… Pausa. E poi, tra silenzi, con cupa lentezza:

        CICO: L’altra casa del Signore… la casa di là… per tutti quelli che qua hanno patito rassegnati…

        DEODATA (c.s.): e non hanno goduto per non peccare…

        CICO (c.s.): gl’infelici, i diseredati…

        DEODATA (c.s.): La buona novella di Gesù…

        CICO (c.s.): Nulla… più nulla…

        Si son sentiti, durante queste ultime battute, i sonagli d’una vettura, fievoli. Ora il suono è cessato. Momento d’attesa, pieno di sgomento e d’angoscia. Sopravviene dal fondo il dottor donni.

        GIONNI: Zitti, zitti tutti. Viene. Ha saputo!

        LUCIO: Ha saputo?

        Gionni fa cenno di sì col capo. Nel silenzio che incombe, grave di tutto quello sgomento e quell’angoscia, Diego Spina si fa avanti dal fondo, seguito a qualche distanza da Monsignore Lelli e dal notajo Marra. Non vede nes­suno. Scende lo scalino tra i due pilastri, viene alla tavola, cade a sedere a un lato di essa, bianco di terrore, con gli occhi sbarrati nel vuoto. Tutti lo guardano sospesi e smarriti, seguitando a tenere il silenzio, che è quello esterrefatto della vita davanti alla morte.

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1929 – Lazzaro – Mito in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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