Di Marzia Pieri.
Ruggero Ruggeri: misterioso e osannato sacerdote artistico dell’Italia giolittiana, fascista e democristiana: lungo una folgorante carriera di oltre 70 anni, egli incarna e riassume tutti i pregi e i limiti del teatro italiano e con Pirandello costituisce una coppia osmotica; il loro incontro segna per entrambi un decisivo riconoscimento di sé.
L’ambigua follia di Ruggeri e Pirandello
La scena di pazzia e di delirio (svagato, furente, amoroso) è quasi un archetipo all’interno di tutta la drammaturgia occidentale antica e moderna, ma conosce a fine ‘800 una rinnovata e intrigante fortuna: la nevrastenia è ormai percepita quale malattia collettiva; c’è un cuore malato del corpo sociale alle prese con i ritmi convulsi della modernità, con il pauroso confronto con le tecnologie di cui parla Benjamin, che scatena tante invenzioni letterarie. Agli spettatori, fascinati da ambigue proiezioni, gli attori naturalisti offrono in questo ambito performances clamorose, sperimentando linguaggi recitativi nuovi e perturbanti. In Italia i mattatori della generazione successiva a quella della triade Ristori-Rossi-Salvini (Giacinta Pezzana, Ermete Zacconi, Eleonora Duse … ), si affidano al corpo, al corpo ma lato dall’interno, devastato da epilessie e tare genetiche, esibito impudicamente in scena in una serie di numeri shockanti per la loro analitica fedeltà ad un reale biopsichico dove i confini fra interno ed esterno continuamente si confondono; il cervello, pensato come «libro di cera», assorbe rischiosamente immagini e impressioni sovraffollate, è pericolosamente isterizzato. [1]
[1] Su questa materia sono fondamentali le riflessioni di Alessandra Violi, Il teatro dei nervi. Fantasmi del moderno da Mesmer a Charcot, Milano, Bruno Mondadori, 2004.
La loro predilezione per personaggi pazzi e disturbati si rifà dunque ad un contesto assai ampio, e così la scelta di interpretarli attraverso una sorta di letterale fisicizzazione, che bandisce qualsiasi intercapedine formale: il sublime, il bello, il decoro in scena hanno fatto il loro tempo, e così ogni orpello di teatralità trasfiguratrice. Una famosa lettera di Ade laide Ristori a proposito della Duse, che ammira ma che non riesce ad apprezzare, lo diagnostica con estrema acutezza:
La Duse si è creata da sé la propria maniera, un convenzionalismo tutto suo che affascina, per cui, essenzialmente, è la Donna moderna con tutte le malattie di nevrosi, d’anemia, e con tutte le sue conseguenze; e perciò nel suo repertorio ha introdotto, con molta sagacia, una completa collezione di questi tipi anormali, con tutte le loro debolezze, fantasticherie, i loro scatti, e i loro languori, come la Margherita Gauthier (dramma ch’essa rappresenta in modo sublime, inarrivabile), da Fedora, alla Moglie di Claudio, alla protagonista della Casa paterna di Sudermann. [2]
[2] Lo scritto, indirizzato a Giuseppe Primoli, fu pubblicato in «Le Gaulois», Parigi 26 maggio 1897 (in francese), con il titolo La Duse jugée par la Ristori, ed è citato da Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, il Mulino, 1992, p. 232.
Al corpo scenico naturalistico, con le sue epilessie, paresi, e amnesie di vario genere, porranno argine un po’ più tardi, e in vario modo, le poetiche novecentesche: la «memoria emotiva» di Stanislavsky, il «costringimento» di Copeau, o lo «straniamento» brechtiano sono anche altrettanti antidoti per distanziarlo e neutra lizzarlo. [3]
[3] Cfr. Claudio Meldolesi, Dal corpo alla vita, dalla forma alla mente. Per una discussione sui nessi teatro-psicanalisi, dal punto di vista della scena, in Tra psicanalisi e teatro. Identificazione e creatività, a cura di Elisabetta Zanzi e Sara Spadoni, Roma, Bulzoni, 2000, p. 151.
Del resto l’epicizzazione del dramma moderno di cui parla Szondi, dal punto di vista che stiamo adottando, si può leggere come il letterale trasferimento all’interno dei personaggi delle peripezie, delle catastrofi e delle agnizioni del vecchio teatro, in un processo totalmente autoreferenziale che implode in scena drammatizzando non più i fatti esterni, ma l’interiorità dei protagonisti. [4]
[4] Il riferimento è al fondamentale saggio di Péter Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962.
Di questo corpo mentalizzato e nevrotico, che invade l’intero spazio del palco scenico, il teatro novecentesco farà molta fatica a liberarsi e tutta la sua storia sarà segnata in profondità dal feroce e necessario ridimensionamento dell’attore da parte di autori e registi. Nel suo saggio del 1908 Illustratori, attori, traduttori un Pirandello ancora impotente a farsi drammaturgo dichiara senza mezzi termini: «l’attore [… ] dà una consistenza artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio, a persone e ad azioni che hanno già avuto una espressione di vita superiore alle contingenze materiali e che vivono già nell’idealità essenziale caratteristica della poesia, cioè in una realtà superiore». [5]
[5] Illustratori, attori e traduttori, in Luigi Pirandello, L’Umorismo e altri saggi, a c. di Enrico Ghidetti, Firenze, Giunti, 1994, p. 198.
È un paradosso assoluto: la mediazione dell’attore negherebbe la legittimità stessa del teatro, la sua possibile poeticità. Il ripristino di una gerarchia di segno opposto a quello naturalistico fra natura e arte, poesia e non poesia, corpo e spirito, contro l’attore (ridotto a fantoccio, supermarionetta, essere bio-meccanico, pupazzo triadico ecc… ) sarà, come sappiamo, lungo e complicato, e i residui del cosiddetto vecchio teatro vi opporranno una resistenza insospettabilmente tenace.
Ne offre tra l’altro riprova il fatto che la sociopatia naturalistica e l’arcipelago della follia cari al pubblico del diciannovesimo secolo trapassino con tanta naturalezza sulle scene novecentesche, riscuotendo, da parte di autori e attori, il consueto consenso perlomeno fino a tutti gli anni ’30. La pazzia diventa anzi una sorta di passe-partout per spiegare l’inspiegabile, per autorizzare le esplorazioni simboliche e epicizzanti tanto care alla nuova drammaturgia. I maestri del rinnovamento teatrale italiano, D’Annunzio e Pirandello, non se la fanno sfuggire, sia pure con ben diversa complessità. Il primo si limita per la verità a sfruttarla in chiave soltanto sensuale ed estetizzante: l’estasi di Aligi, la follia omicida di Corrado Brando, le perversioni erotiche della Città morta, i parossismi e i sadismi della Nave, appartengono in modo estrinseco all’armamentario lussureggiante della sua tragedia di poesia, mentre con Pirandello il discorso si fa assai più complesso e specifico; la galleria dei suoi personaggi «fuori di chiave» (alienati, furenti, filosofeggianti, obliosi, idioti o ambiguamente umoristici) è affollatissima: da Ciampa del Berretto a sonagli a Enrico IV, da Non si sa come a Come tu mi vuoi, a Sogno (ma forse no), a Quando si è qualcuno ai Giganti della montagna, per non parlare delle novelle, piene di tipi inquieti e inquietanti, o del Gegè di Uno nessuno e centomila. La pazzia (che tanto per cambiare riguardava in prima persona anche l’autore, sul piano biografico e familiare) rifrange dolorosamente una realtà multiforme senza ordine né gerarchie, testimonia quasi ontologicamente il disagio dello stare al mondo (chi è il folle? cosa vuol dire essere folli?), è metafora dell’impossibile interpretazione del reale, anche se Pirandello si dichiara ostile e disinformato in materia di psicanalisi. La sua attrezzatura teorica resta ferma a Binet, alla parapsicologia, e magari a Charcot; egli continua persino a frequentare galvanismi e sedute spiritiche, [6] eppure, è stato osservato, la sua poetica teatrale presuppone un tertium implicito, incline a diventare presenza scenica fra attore e personaggio, e che rimanda fortemente al set analitico: un aspetto interessante dell’incredibile fortuna del suo capolavoro, i Sei personaggi, è che vengano presto utilizzati in terapie sperimentali in più cliniche europee. [7]
[6] Ricordiamo che c’è persino un dramma, Lazzaro, sul problema della resurrezione ‘elettrica’ dei corpi. Sui rapporti di Pirandello con la psicanalisi, cfr. Glauco Carloni, Inconsci suggerimenti di un drammaturgo a degli sconosciuti professionisti della psiche, in Tra psicoanalisi e teatro, cit., pp. 73-82.
[7] Cfr. Claudio Meldolesi, Dal corpo alla vita, dalla forma alla mente, cit., p. 159.
È molto significativo andare a vedere in che modo questa visione pirandelliana, così forte, si rapporti al teatro coevo, e se e come gli attori dell’epoca la riscrivano recitando. La prima cosa da osservare è che moltissimo di apparentemente simile si ritrova nei repertori del primo trentennio del secolo. Il palinsesto teatrale dell’Italia giolittiana e fascista abbonda di deliri furenti (La cena delle beffe di Benelli) o stuporosi (Sly di Forzano), ripropone la follia del bruto inconsapevole (Il piccolo santo di Bracco), l’inebetimento erotico (l’Artiglio di Bernstein), ma soprattutto frequenta volentieri il tema dell’identità pericolante, della follia temuta con terrore devastante da parte di personaggi autorevoli e prestigiosi incapaci di padroneggiare gli andirivieni labirintici del pensiero (L’idea fissa di Amelia Rosselli, Sansone di Bernstein, L’istruttoria di Henriot, Il pensiero di Andreiev), un terrore che attanaglia anche tante creature pirandelliane. E la persistente fortuna di Shakespeare (Macbeth, Amleto, Re Lear) si gioca ore in questa chiave angosciata e nevrotica. Viene spontaneo interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Cosa affascinava gli spettatori di quegli anni? Che tipo di metafora si metteva in tal modo in campo, se è vero, come si dice, che il teatro è sempre un evento macro-sociale, la metafora di una mente gruppale? [8]
[8] Cfr. Guido Zucchini, Il teatro nella mente. La mente nel teatro, in Tra psicoanalisi e teatro, cit., pp. 15-25.
Sembra che nel ‘900 la storia infinita che si rappresenta sia quella della nuova solitudine fragile del personaggio diseroicizzato, denudato, smontato, svuotato dall’interno (le maschere nude) e appunto fatto impazzire, ponendolo al centro di una realtà inconoscibile e piena di insidie. La metateatralità, che cancella i confini rassicuranti del sipario e del boccascena, sarebbe appunto il segno di questa perdita di garanzie circa la salute mentale collettiva, postulerebbe l’impossibilità di una collocazione definitiva dei significati. Freud, che tutto questo catalizza genialmente, era del resto molto vicino al teatro, alla dimensione della rappresentazione e della continua metamorfosi che lo avvicina alla psicanalisi. [9]
[9] Cfr. Luigi Gozzi, Il disturbo, il sintomo e l’attore, in Tra psicoanalisi e teatro, cit., pp. 113-121.
E molti uomini di teatro, «benché poco o punto conoscessero l’invenzione freudiana, lavorarono da suoi contemporanei», esplorando strumenti psicotecnici e mnemoterapeutici di vario genere, ponendo una peculiare attenzione alla vasta area di quello che potremmo definire il preconscio quale depositario di verità: «nell’Italia in cui si sapeva di psicoanalisi meno ancora che di regia la vita teatrale s’immiseriva» [10] e doveva, come al solito ricorrere all’arte di arrangiarsi.
[10] Cfr. Claudio Meldolesi, Dal corpo alla vita, dalla forma alla mente, cit., p. 147.
Gli attori, alcuni grandi attori, lavorano allora su questi temi ‘all’antica’: intuendo centrale per la scena contemporanea l’assunzione di una disposizione filosofica, e, in assenza di una salda riflessione teorica e teatrologica, si affidano ai vecchi, collaudati ‘contenuti’ (rozzi, approssimativi, repertoriali ma lì a portata di mano) e intraprendono una ricerca artistica in proprio nel solco del dolorismo inaugurato dalla Duse. Le tappe e le conquiste di questa collettiva ricerca consentiranno più tardi alla regia italiana degli anni ’50 di nascere, malgrado tutto, quasi adolescente, e marcheranno da vicino la drammaturgia di alcuni grandi autori, soprattutto Pirandello.
Il più celebre e originale di questi attori-drammaturghi è senza dubbio Ruggero Ruggeri: misterioso e osannato sacerdote artistico dell’Italia giolittiana, fascista e democristiana: lungo una folgorante carriera di oltre 70 anni, egli incarna e riassume tutti i pregi e i limiti del teatro italiano e con Pirandello costituisce una coppia osmotica; il loro incontro segna per entrambi un decisivo riconoscimento di sé. [11]
[11] Su questo protagonista della scena italiana novecentesca si veda ora il ponderoso numero speciale, a cura di Alfredo Barbina, che gli dedica, nel cinquantenario della morte, la rivista «Ariel» (in corso di stampa).
Dopo la sua tardiva e sofferta conquista del successo teatrale, dovuta all’incontro con Musco (a cui tuttavia rimprovera un espressionismo grottesco che lo disgusta), Pirandello si ‘innamora’ di Ruggeri nel 1917 ai tempi del Piacere dell’onestà, folgorato dall’eleganza umoristica e dall’ambigua malinconia di questo gentiluomo delle scene che aveva fatto la gavetta nelle compagnie di giro tardo-ottocentesche ed era diventato a inizio secolo un capocomico di grande prestigio. Egli eccelleva come dandy brillante nelle pochades francesi e nel vaudeville più scontato, ma soprattutto nei personaggi dolenti e allucinati dei modernissimi Bemstein, Sudermann, Bataille o Guitry; aveva fatto trionfare D’Annunzio come lirico Aligi nella Figlia di Jorio e stava portando in scena un Amleto mai visto prima, a cui avrebbero fatto seguito memorabili Macbeth e Lear. Aristocratico e misterioso, Ruggeri sembrava sopportare il peso di un successo quasi idolatrico in apparente disagiata solitudine artistica e personale; era, all’epoca, un attore in cerca di autore.
I due si intendono profondamente, si assomigliano nella comune matrice ottocentesca che si intreccia ad una straordinaria, inespressa intuizione di modernità; si riconoscono l’uno nell’altro con reciproco vantaggio: Pirandello scrive ancora per lui Il giuoco delle parti e Tutto per bene e poi gli cuce letteralmente addosso lo straordinario Enrico IV, modellato sul suo Amleto, e più tardi il protagonista di Quando si è qualcuno, amara parabola sulla propria alienazione di intellettuale pubblico, vampirizzato da un successo rumoroso e volgare. Ruggeri trova nell’umorismo e nel relativismo pirandelliani l’occasione per legittimare la propria drammaturgia attoriale, fino a quel momento costruita con ostinata – e per molti dei suoi più fini estimatori incomprensibile – frequentazione di repertori e autori molto commerciali e tradizionali, su cui può esercitare le sue geniali riscritture. Mentre si tiene ostinatamente lontano da lbsen, Wilde, o Shaw, che pure gli andrebbero a pennello, lo scomodo professore siciliano (che egli contribuisce in modo decisivo a far decollare come autore di prima grandezza) gli offre quella «forma» che da attore andava cercando da tempo, e dunque se ne impadronisce, e come al solito lo ‘ruggerizza’, rimandandogli indietro suggestioni e annotazioni importanti: ne scaturisce un dinamico processo di drammaturgia consuntiva a più mani, che investe in profondità, come è stato dimostrato, la composizione per esempio dell’Enrico IV. [12]
[12] Il manoscritto dell’Enrico IV, adesso conservato all’Istituto di Studi Pirandelliani di Roma, registra varie interpolazioni testuali dettate appunto all’autore da suggestioni attoriali, come ha dimostrato Alessandro d’Amico nella sua edizione critica del testo: Luigi Pirandello, Maschere nude, vol. Il, Milano, Mondadori, 1993, pp. 1053-1332.
Ruggeri dunque si pirandellizza almeno tanto quanto Pirandello modella su di lui tanta parte della propria creatività, ma fra i due c’è evidentemente un sostrato comune che ha molto a che fare con il nostro discorso. La sua maschera scenica di partenza è quella di un viveur più gozzaniano che dannunziano, pallido come Rodolfo Valentino o come il Gastone di Petrolini, provvisto di una voce ‘irregolare’ ma perfettamente efficace, che traluce un disincanto umoristico ricco di grandi possibilità, macchina perfetta per interpretare quella nevrastenia «febbricitante» in cui, come abbiamo visto, la vecchia Adelaide Ristori, parlando della Duse, aveva riconosciuto il tratto distintivo della nuova drammaturgia novecentesca. [13]
[13] «Eleonora Duse ebbe il gran merito di comporsi una fisionomia propria, spiccata, una individualità estetica che non assomigliava a nessun’altra attrice delle sue contemporanee, né delle grandi attrici che la precedettero; seppe far sfruttare tutti i suoi difetti fisici; persino la sua nevrosi, onde trarre da essi degli effetti nuovi che fanno sul pubblico una profonda impressione. Colla sua voce sottile, talvolta leggermente stridente, ha saputo formarsi una recitazione sua propria [… ] è la Donna Moderna con tutte le sue malattie di nevrosi, d’anemia, e con tutte le sue conseguenze; e perciò nel suo repertorio ha introdotto, con molta sagacia, una completa collezione di questi tipi anormali, con tutte le loro debolezze, fantasticherie, i loro scatti, e i loro languori, come la Margherita Gauthier (dramma ch’essa rappresenta in modo sublime, inarrivabile) da Fedora alla Moglie di Claudio alla protagonista della Casa paterna di Sudermann ecc.. Talvolta la sua voce, quando non deve impiegarla nel dire appassionato è un poco nasale» (lettera di Adelaide Ristori in Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., pp. 232-233).
Ritroviamo in lui quella sproporzione fra una fisicità dimessa e umbratile ai limiti dell’handicap e alcune risorse interiori misteriose e di nuovo conio, su cui la grande, rauca Eleonora aveva costruito il proprio mito; a lei lo accomunano anche l’ambiva lenza fra una sensualità torbida e irresistibile e una sorta di assoluta castità disincarnata, l’irrinunciabile dolorismo, il sapiente dominio delle pause e dei silenzi. Se per la Duse si trattava di soffrire e di morire, di scendere agli inferi restando intangibile, Ruggeri rivisita il mito al maschile attraverso le paternità incerte, i tradimenti sentimentali, le ambizioni frustrate, gli eroismi misconosciuti, la virilità atipica del sacrificio, il tuffo angosciato nella follia.
Sappiamo che egli teneva molto alle proprie competenze comiche, e persino farsesche (del resto indispensabili nella gestione dei cartelloni), e tuttavia il versante suo proprio è quello della sofferenza; i personaggi che lo identificano soffrono molto fino a disfarsi nella follia, vivono solitudini dolenti e misteriose, sono alonati di inquietudine, fanno paura, suscitano una reverente devozione o un vero e proprio orrore. E, come sempre, attore e personaggio tendono a sovrapporsi: una campionatura, anche minima, di testimonianze coeve intorno alla sua persona conferma immediatamente come il giovane dandy malinconico diventi negli anni un signore accigliato e temibile, che suscita in chi lo avvicina reverenza e timore.
Malattia, dolore, segretezza; arte guaritrice o almeno lenitrice. È storia molto consueta nel Novecento, di cui Pirandello è precisamente uno dei più coerenti testimoni. È per questo che farà di Ruggeri il proprio biografico alter-ego in Quando si è qualcuno, dopo avergli cucito addosso e avergli ‘rubato’ Angelo Baldovino, Leone Gala, Martino Lori e Enrico IV. Tutti personaggi straziati e a doppio fondo, la cui identità sfuggente si sgretola in scena, sotto tortura, in maschera tragica. Ma i pazzi di Ruggeri – con Amleto e Enrico IV in testa – non somigliano più affatto ai farneticanti e orrendi fantocci scenici di appena qualche decennio prima. Ruggeri lavora per espunzione, rende via via trasparente il corpo attoriale della tradizione ottocentesca da cui proviene, simbolizza e spiritualizza fino a raggiungere una larvalità fantasmatica carica di stilizzata energia, che sarà il suo marchio distintivo. Mettendo in fila cronologicamente le note dei recensori ai testi su cui egli continua a ritornare a distanza di decenni anche per centinaia di volte (morirà nel 1955 lavorando fino all’ultimo), colpisce questo processo di continua limatura stilistica nella direzione dell’interiorità, ma attraverso i codici del corpo e della voce. La musicalità cantante (è un grande dicitore di poesia) e la macerazione doloristica lavorano in lui per sfumare e correggere l’eredità del mattatore antico: ne scaturirà una sorta di iperrealistico attore-vate totalmente smaterializzato, dove l’antica nevrastenia psicotica è diventata anima religiosa. Nell’anno santo 1950 l’Italia degasperiana piange e si fa il segno della croce sentendolo recitare l’arcivescovo martire in Assassinio nella cattedrale di Eliot. In ritardo di cinquant’anni rispetto a Craig, ad Appia e a tutti i simbolismi e i formalismi novecenteschi, egli porta in scena un corpo totalmente privo di orpelli, nudo e rigoroso, quasi al di là del teatro. Le sue variazioni infinite sulla passione sofferente sono costantemente gioca te sul registro dell’inesprimibile: si va per singhiozzi soffocati e gorghi inespressi, per silenzi e contenimenti dolorosi: la piena dell’espressività corporea romantico-naturalistica è rientrata nell’alveo, si è inabissata carsicamente ed è come implosa in profondità remote; la simbiosi egocentrica del mattatore con il proprio personaggio ha lasciato il posto ad un distacco cerebrale e raziocinante (che altrove, magari, si chiamerà straniamento) [14] che gli consente di giocare con straordinaria efficacia sul tema dei temi di cui il pubblico sembra non stancarsi mai: l’ambiguo pendolarismo fra pazzia reale e pazzia simulata.
[14] Un critico contemporaneo, Mario Corsi, scrive in proposito: «Ruggeri non si smarrisce mai e non si confonde mai nel personaggio, sino a dimenticare se stesso […] sa rimanere prodigiosamente il lucido, freddo analizzatore e direi meccanicamente il vigoroso manovratore di se stesso, del suo io. È quasi come s’egli vedesse il personaggio fuori di se stesso, prima che sulla scena proiettato in uno specchio» (Ruggero Ruggeri figliuol prodigo, in «Comoedia», VII, 15, 1 agosto 1925, p. 791).
Comincia nel 1903 con un dramma giudiziario, l’Istruttoria di Henriot, su un giudice implacabile che accusa di omicidio il proprio rivale in amore, scoprendo alla fine con orrore, grazie ad un medico, di aver commesso lui stesso l’assassinio nella trance epilettica. Continua con una galleria di personaggi consimili fra cui spicca lo scienziato del Pensiero di Andreiev (un dramma russo degli inizi del secolo giunto in Italia negli anni ’20) che, per misurare il proprio onnipotente dominio di sé, si finge pazzo per uccidere, tanto per cambiare, l’uomo che lo ha soppiantato in amore, ma poi teme di impazzire davvero.
Come si vede gli ingredienti di questo longevo piatto teatrale sono sempre i medesimi: ciò che continua ad attrarre è lo spiazzamento spaventoso circa le coordinate del reale che la scena è in grado di provocare; l’attore è soprattutto un illusionista crudelmente abile a confondere i propri spettatori; se ne potrebbe inferire che c’è in giro molta falsa coscienza e una sorta di coda di paglia collettiva che il teatro rivela clamorosamente. Non è un caso che all’epoca si coltivi con tanta convinzione, sulla scia di Lombroso, una sociologia etnopsichiatrica che distingue fra pazzi di serie B (i delinquenti nati, geneticamente devianti ed esclusi dal consesso sociale) e pazzi di serie A, vittime della «psicosi degenerativa epilettoide del genio» [15], di solito appunto scienziati o artisti che si sono spinti appena un po’ più in là rispetto ai vari superuomini di cui D’Annunzio aveva offerto tanti esempi, finendo per mettersi nei guai. È molto interessante trovare, nella prima edizione ita liana di questo fortunato dramma, del 1921, la notizia che l’Accademia di Medicina di Pietroburgo si era scomodata a riunirsi per valutare collettivamente se il protagonista potesse considerarsi clinicamente pazzo. [16]
[15] Cfr. Antonio De Rosa e Raffaello Vizioli, L’immagine dell’epilessia come devianza nella tradizione popolare e nella cultura psichiatrica, in L’immagine della follia, a cura di Antonio Scala, Antonio De Rosa, Raffaello Vizioli, Margherita Guelfo, Lucio Vacca, Napoli, Liguori, 1984, pp. 99-113.
[16] Leonida Andreieff, Il pensiero Le maschere nere drammi, prima traduzione italiana dall’originale russo, con introduzione della Duchessa d’Andria, Caddeo, Milano 1921.
Tornando a Ruggeri, sono questi gli ingredienti anche dei suoi celebratissimi Amleto e Enrico IV; nel 1915 il suo principe di Danimarca rifrange in scena un’angoscia tormentosa e contagiosa, che i recensori si affannano ad analizzare, fra fisiologia e critica, a caccia di un segreto inafferrabile:
Irrequieta, vivace, vorticosa, agilissima nel passare dalla cupa malinconia all’invettiva crudele, dalla soavità estatica dell’amore al terrore della allucinazione, dall’ironia scherzosa delle frasi ben tornite alla brusca impetuosità di un colpo di spada contro una tenda [… ] Amleto non ci apparve ieri sera quell’essere vagante in un mondo ultraumano [… ] quale siamo abituati a considerarlo; ci apparve un essere vivo scosso da mille fremiti, oppresso da mille dolori, torturato da mille angosce: non un cerebrale puro, ma un sensitivo, un debole, straziato e lacerato dall’orribile verità rivelatasi al suo spirito e cosciente del proprio strazio e ragionante sulla propria miseria. [17]
[17] Mario Ferrigni, «La Sera», 21 aprile 1915.
Dieci anni dopo, nel 1925, il suo Enrico IV, monarca pazzo di una reggia di cartapesta che fa da sfondo all’unico possibile tipo di tragedia moderna, ne ripropone il fascino ambiguo:
Il più grande attore dei nostri tempi ha detto la parte di Enrico IV con quella sua voce vagante ed acuta, che scende a precipizio nelle congiunture più gravi e disperate fino al la pastosità sotterranea, minacciosa e tremante: abbiamo riconosciuto in certi suoi atteggiamenti pieni di sdegno alcune note proprie di Amleto, e il giuoco delle sue mani spettrali ed appese agli invisibili fili dell’aria ha propagato nella sala un terrore ammirato e compresso. L’entrata del primo atto, piena di una gravità a doppio fondo, di stanchezza sopportata e di ribellione pudica, ha raggiunto una forza tale da fare convinti i più scettici dell’esistenza dei venti anni passati dall’eroe orrendamente. [18]
[18] Alberto Cecchi, «Il Tevere» 12 giugno 1925.
Un recensore francese mette a confronto l’impatto emotivo suscitato da questa dolente lucidità con l’interpretazione paurosamente esagitata e diversamente impressionante di Pitoeff di pochi anni prima:
Pitoeff, di cui sarebbe molto ingiusto misconoscere il coraggio e il merito, ha spinto il dramma ai confini dell’incubo. Ruggeri lo lascia sul piano della chiara coscienza. Pitoeff, orrendamente nudo in una maglia rossa saltava sulla tavola e si agitava orribilmente; Ruggeri non fa alcuna stravaganza e non ritiene necessario il delirio per segnalare che non è più pazzo. Pitoeff, nella veste bianca dei fantasmi, faceva nel primo atto un ingresso da sonnambulo molto impressionante; Ruggeri, ammantato di porpora, si avanza con la maestosità di un imperatore. [19]
[19] Henry Bidou, «Joumal des Débats», 3 luglio 1925.
Quasi trent’anni dopo, nel 1953, Ruggeri è diventato ancora più bravo a con fondere le acque, suscitando a Parigi e a Londra l’entusiasmo e la commozione universali, compreso da parte del grande Laurence Olivier che di pazzie sceniche se ne intendeva:
Ruggero Ruggeri ha vissuto la pazzia vera o simulata dell’immaginario Enrico IV con una varietà meravigliosa di accenti, di toni, di espressioni, passando dal volto alterato della follia a quello arguto del sano di mente che si diverte alla finzione, alternando ira e umiltà, minaccia e sottomissione, impeto e calma, con tale sapienza di effetti e tali gradazioni di colore da suscitare l’entusiasmo. [20]
[20] Eligio Possenti, «Corriere della sera», 14 aprile 1953.
Una notevole differenza si avverte tra le concezioni che Ruggeri e Vilar hanno di questo Amleto pirandelliano. Con Vilar noi potevamo dal principio alla fine dubitare che egli fosse pazzo; con Ruggeri non ci vien mai in mente ch’egli possa non essere lucido. La follia non lo sfiora. Egli recita, recita, recita per noi e forse anche per se stesso. Ed è così interessante starlo a guardare, adoperarsi a scoprire di che cosa sia fatta la sua arte […] gli altri attori cessano di recitare quando Ruggeri entra in scena, quand’egli attacca i suoi monologhi tutto s’immobilizza e neutralizza intorno a lui. [21]
[21] Jean-Jacques Gautier, «Figaro», maggio 1953.
Ruggeri, evidentemente conclude un’epoca; l’avvento della regia alla fine sta cambiando il quadro persino in Italia, e il teatro ritrovato sceglie nuovi autori e nuovi temi, per esempio Brecht, Goldoni, o Cechov. Tramontata l’era degli effetti speciali, il pubblico si rassegna a pensare e a vigilare criticamente; i grandi attori continuano tuttavia a lungo a riciclare sotto nuove spoglie i medesimi, collaudati meccanismi: Salvo Randone, Memo Benassi, Vittorio Gassmann o Giorgio Albertazzi giocano lo stesso gioco, seppure con maggiore understatement. Il pubblico continua a subire: Carmelo Bene non si perita di apparire alla Madonna, pensa che «il teatro è il non-luogo della storia, è quel quid che la storia estromette» e che «la drammaturgia è sempre stata una tecnica terapeutica: catarsi, esorcismo, terrore e pietà, castigat ridendo mores, straniamento brechtiano; tutto annuncia che il teatro è fatto per ammalati, debilitati e convalescenti inguaribili». [22]
[22] Carmelo Bene, Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 13 e 24.
Marzia Pieri
2006
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com