Di Andrea Piasentini.
L’umorismo e la razionalità di Pirandello sono tragicamente seri, impigliati come sono a «sentire il contrario» e cioè, secondo una immaginaria tradizione della letteratura moderna italiana che è meditativa, a chiedersi il perché del dolore e del disordine delle cose.
La vita è pirandelliana (?)
da Il fascino degli intellettuali
La letteratura italiana conta poche altre figure che sono circolate all’estero, fondando aggettivi e categorie critiche, con una fortuna simile a quella di Luigi Pirandello. Dante Petrarca Machiavelli, poi si avvicina la modernità e la centralità politico-culturale della penisola si sfilaccia. L’opera del maggiore espressionista italiano ha popolato di pirandellismi, maschere nude, sentimento del contrario il pensiero occidentale; una colonizzazione intellettuale irripetuta nel nostro Novecento.
Rileggere oggi la sua letteratura serve a sconfessare qualche pregiudizio che ne ha disinnescato la potenziale forza critica. Luoghi comuni di comodo, posatisi con cura negli ultimi cent’anni. Confutarli significa rivalutare la modernità, oggi, di Pirandello e del suo sistema filosofico e letterario. I pregiudizi in questione sono più voci di corridoio che etichette critiche sbagliate, ma non per questo meno dannosi.
Il primo: Luigi Pirandello è un intellettualoide. Che le sue opere siano frutto di una certa cerebralità è vero, non è radicalmente sbagliato. Certo, più d’una volta, leggendo a scuola un passo de Il Fu Mattia Pascal, di Sei personaggi in cerca d’autore o de Il giuoco delle parti, uno di quegli estratti come lo strappo nel cielo di carta o la prefazione ai Sei personaggi, si sarà sentita una forzatura; come se, obbligatoriamente, l’autore ci dovesse stupire coi suoi ragionamenti, per lisciarsi compiaciuto baffi e pizzetto. Ma Pirandello lo vuole, che si senta lo sferruzzare del pensiero dietro alle parole. È necessaria l’artificiosità: così è la vita moderna, finta, arginata da una fila di accorgimenti. Perché sarebbe ingenuo pensare a una naturalezza dell’arte, a una superiorità dell’arte, o addirittura a una sacralità dell’arte.
L’umorismo e la razionalità di Pirandello sono tragicamente seri, impigliati come sono a sentire il contrario e cioè, secondo una immaginaria tradizione della letteratura moderna italiana che è meditativa e tocca fra gli altri Giacomo Leopardi e Carlo Emilio Gadda, a chiedersi il perché del dolore e del disordine delle cose. Una prospettiva aggrappata sempre al meccanicismo, alla riflessione che stringe e stringe senza trovare risposte. Nel caso di Pirandello questo vano approdo si traduce nell’umorismo.
Ed ecco il secondo luogo comune: il sorriso di Luigi Pirandello invita alla rassegnazione. Rispetto al primo, questo sembra infondato perché fraintende l’elemento che regge tutta l’opera del premio Nobel. Nella ristampa del ’21 l’autore inserisce al testo de Il fu Mattia Pascal un’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia dove scrive:
«… non è forse vero che mai l’uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, che è lo stesso), come quando soffre, perché appunto delle sue sofferenze vuole vedere la radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia giusto il dargliele; mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere fosse suo diritto?».
E l’ironia nasce al termine del percorso riflessivo. Se nascesse all’inizio presupporrebbe una posizione di privilegio dell’intellettuale, da cui poter guardare il lettore dell’alto e dargli una pacca sulle spalle, sorridendo beffardamente.
Mentre l’ironia di Pirandello è dolorosa; come quella di Leopardi quando, proprio al vertice del suo momento di ricerca filosofica, decide di far fuori l’Islandese. Una folata di vento sabbioso o forse un paio di leoni «macerati» dalla fame, chissà. In ogni caso, l’uomo che domanda non trova risposta.
Forse la rassegnazione viene intravvista nell’ultima stagione pirandelliana. Nel surrealismo del finale di Uno, nessuno e centomila (1925), si legge infatti che Vitangelo Moscarda muore «ogni attimo» e rinasce «nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori». Dopo aver compreso di essere un uomo-nuvola fatto in centomila dai giudizi degli altri, essere nessuno, si fonde con l’unica altra cosa della realtà che si presenta in perenne mutamento come l’io pulviscolare dell’uomo-nuvola, ovvero la natura. Ma non si è mai visto un uomo entrare nella corteccia di un albero o nelle campane di una chiesa: è un invito velleitario. L’auspicio a non esser più nulla è, per uno scrittore di cose come Pirandello, amarissimo. Ma è l’esito paradossale di una ricerca che non ha mai rinunciato alla ragione, contro ogni arroccamento aristocratico.
Ci sono altre idee banalizzanti attorno al suo nome – Pirandello è fascista, Pirandello è ripetitivo (ma le Novelle per un anno?), autoreferenziale, eccetera. Si ignora in questi casi l’energia che la sua letteratura irradia – specie grazie al teatro e alle novelle, dove Pirandello sfrutta al meglio la sua tendenza alla concentrazione espressiva. Dell’uomo moderno raggiunge tutte le inquietudini, alienazione e impotenza. Franz Kafka scarnifica i suoi personaggi, rendendole vuote persone senza aggettivi, che si affacciano alla finestra chiamati da qualcuno d’invisibile, si trasformano in scarafaggi; Pirandello ridicolizza un regista, facendolo spettatore passivo della ribellione dei suoi attori che, per di più, si scordano di essere attori (Questa sera si recita a soggetto, 1930). Mattia Pascal e Josef K. si sentono oppressi da sensi di colpa senza faccia.
Come Anton Čechov guarda il progressivo inabissarsi della campagna russa, così il Nobel italiano affronta fin dagli esordi la deriva della sua Sicilia: ancora arretrata, si affanna a imitare i valori borghesi anglo-americani, truccandosi, rispetto alla signora imbellettata del saggio Umorismo, in modo ancora più compassionevole. Vengono tolte le maschere alla commedia umana.
C’è una novella scritta negli ultimi anni (pubblicata postuma nel 1937) che sembra in dialogo con Il fu Mattia Pascal. Il protagonista di Una giornata scende a una stazione, ma è senza punti di riferimento. Peggio: non si ricorda niente. Quando nasce, Adriano Meis si sente, una volta fuori dal treno, finalmente libero dalle convenzioni sociali che tanto hanno oppresso l’io passato. Ha l’animo «pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io» (ma prima di rendersi conto che è impossibile scappare dalle regole di questo famigerato mondo borghese). Se Pascal sperimenta questo tentativo e ne documenta l’evoluzione dall’inizio al fallimento, l’uomo di Una giornata è l’espressione di un’allegoria vuota, tragicamente vuota. È l’uomo di una giornata. Potrebbe essere l’autore o K. alla ricerca del Castello o il lettore.
«Nel buio, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso: mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo, per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero».
Andrea Piasentini
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