La verità – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«Le mosche gli si posavano su le mani, gli svolavano ronzanti sonnacchiose attorno alla faccia, gli s’attaccavano voraci su la fronte, agli angoli della bocca e perfino a quelli degli occhi: non le sentiva, non le cacciava, e poteva seguitare a sorridere.»

Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 23 giugno 1912, poi in La trappola, Treves 1915.

La verità
Immagine da murderbygaslight.com

La verità

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Saru Argentu, inteso Tarara, appena introdotto nella gabbia della squallida Corte d’Assise, per prima cosa cavò di tasca un ampio fazzoletto rosso di cotone a fiorami gialli, e lo stese accuratamente su uno dei gradini della panca, per non sporcarsi, sedendo, l’abito delle feste, di greve panno turchino. Nuovo l’abito, e nuovo il fazzoletto.

             Seduto, volse la faccia e sorrise a tutti i contadini che gremivano, dalla ringhiera in giù, la parte dell’aula riservata al pubblico. L’irto grugno raschioso, raso di fresco, gli dava l’aspetto d’uno scimmione. Gli pendevano dagli orecchi due catenaccetti d’oro.

             Dalla folla di tutti quei contadini si levava denso, ammorbante, un sito di stalla e di sudore, un lezzo caprino, un tanfo di bestie inzafardate, che accorava.

             Qualche donna, vestita di nero, con la mantellina di panno tirata fin sopra gli orecchi, si mise a piangere perdutamente alla vista dell’imputato, il quale invece, guardando dalla gabbia, seguitava a sorridere e ora alzava una scabra manaccia terrosa, ora piegava il collo di qua e di là, non propriamente a salutare, ma a fare a questo e a quello degli amici e compagni di lavoro un cenno di riconoscimento, con una certa compiacenza.

             Perché per lui era quasi una festa, quella, dopo tanti e tanti mesi di carcere preventivo. E s’era parato come di domenica, per far buona comparsa. Povero era, tanto che non aveva potuto neanche pagarsi un avvocato, e ne aveva uno d’ufficio; ma per quello che dipendeva da lui, ecco, pulito almeno, sbarbato, pettinato e con l’abito delle feste.

             Dopo le prime formalità, costituita la giuria, il presidente invitò l’imputato ad alzarsi.

             –    Come vi chiamate?

             –    Tarara.

             –    Questo è un nomignolo. Il vostro nome?

             –    Ah, sissignore. Argentu, Saru Argentu, Eccellenza. Ma tutti mi conoscono per Tarara.

             –    Va bene. Quant’anni avete?

             –    Eccellenza, non lo so.

             –    Come non lo sapete?

             Tarara si strinse nelle spalle e significò chiaramente con l’atteggiamento del volto, che gli sembrava quasi una vanità, ma proprio superflua, il computo degli anni. Rispose:

             – Abito in campagna, Eccellenza. Chi ci pensa?

             Risero tutti, e il presidente chinò il capo a cercare nelle carte che gli stavano aperte davanti:

             –    Siete nato nel 1873. Avete dunque trentanove anni. Tarara aprì le braccia e si rimise:

             –    Come comanda Vostra Eccellenza.

             Per non provocare nuove risate, il presidente fece le altre interrogazioni, rispondendo da sé a ognuna: – È vero? – è vero? – Infine disse:

             – Sedete. Ora sentirete dal signor cancelliere di che cosa siete accusato.

             Il cancelliere si mise a leggere l’atto d’accusa; ma a un certo punto dovette interrompere la lettura, perché il capo dei giurati stava per venir meno a causa del gran lezzo ferino che aveva empito tutta l’aula. Bisognò dar ordine agli uscieri che fossero spalancate porte e finestre.

             Apparve allora lampante e incontestabile la superiorità dell’imputato di fronte a coloro che dovevano giudicarlo.

             Seduto su quel suo fazzolettone rosso fiammante, Tarara non avvertiva affatto quel lezzo, abituale al suo naso, e poteva sorridere; Tarara non sentiva caldo, pur vestito com’era di quel greve abito di panno turchino; Tarara infine non aveva alcun fastidio dalle mosche, che facevano scattare in gesti irosi i signori giurati, il procuratore del re, il presidente, il cancelliere, gli avvocati, gli uscieri, e finanche i carabinieri. Le mosche gli si posavano su le mani, gli svolavano ronzanti sonnacchiose attorno alla faccia, gli s’attaccavano voraci su la fronte, agli angoli della bocca e perfino a quelli degli occhi: non le sentiva, non le cacciava, e poteva seguitare a sorridere.

             Il giovane avvocato difensore, incaricato d’ufficio, gli aveva detto che poteva essere sicuro dell’assoluzione, perché aveva ucciso la moglie, di cui era provato l’adulterio.

             Nella beata incoscienza delle bestie, non aveva neppur l’ombra del rimorso. Perché dovesse rispondere di ciò che aveva fatto, di una cosa, cioè, che non riguardava altri che lui, non capiva. Accettava l’azione della giustizia, come una fatalità inovviabile.

             Nella vita c’era la giustizia, come per la campagna le cattive annate.

             E la giustizia, con tutto quell’apparato solenne di scanni maestosi, di tocchi, di toghe e di pennacchi, era per Tarara come quel nuovo grande molino a vapore, che s’era inaugurato con gran festa l’anno avanti. Visitandone con tanti altri curiosi il macchinario, tutto quell’ingranaggio di ruote, quel congegno indiavolato di stantuffi e di pulegge, Tarara, l’anno avanti, s’era sentita sorgere dentro e a mano a mano ingrandire, con lo stupore, la diffidenza. Ciascuno avrebbe portato il suo grano a quel molino; ma chi avrebbe poi assicurato agli avventori che la farina sarebbe stata quella stessa del grano versato? Bisognava che ciascuno chiudesse gli occhi e accettasse con rassegnazione la farina che gli davano.

             Così ora, con la stessa diffidenza, ma pur con la stessa rassegnazione, Tarara recava il suo caso nell’ingranaggio della giustizia.

             Per conto suo, sapeva che aveva spaccato la testa alla moglie con un colpo d’accetta, perché, ritornato a casa fradicio e inzaccherato, una sera di sabato, dalla campagna sotto il borgo di Montaperto nella quale lavorava tutta la settimana da garzone, aveva trovato uno scandalo grosso nel vicolo dell’Arco di Spoto, ove abitava, su le alture di San Gerlando.

             Poche ore avanti, sua moglie era stata sorpresa in flagrante adulterio insieme col cavaliere don Agatino Fiorìca.

             La signora donna Graziella Fiorìca, moglie del cavaliere, con le dita piene d’anelli, le gote tinte di uva turca, e tutta infiocchettata come una di quelle mule che recano a suon di tamburo un carico di frumento alla chiesa, aveva guidato lei stessa in persona il delegato di pubblica sicurezza Spanò e due guardie di questura, là nel vicolo dell’Arco di Spoto, per la constatazione dell’adulterio.

             Il vicinato non aveva potuto nascondere a Tarara la sua disgrazia, perché la moglie era stata trattenuta in arresto, col cavaliere, tutta la notte. La mattina seguente Tarara, appena se la era vista ricomparire zitta zitta davanti all’uscio di strada, prima che le vicine avessero tempo d’accorrere, le era saltato addosso con l’accetta in pugno e le aveva spaccato la testa.

             Chi sa che cosa stava a leggere adesso il signor cancelliere…

             Terminata la lettura, il presidente fece alzare di nuovo l’imputato per l’interrogatorio.

             – Imputato Argentu, avete sentito di che siete accusato?

             Tarara fece un atto appena appena con la mano e, col suo solito sorriso, rispose:

             – Eccellenza, per dire la verità, non ci ho fatto caso. Il presidente allora lo redarguì con molta severità:

             – Siete accusato d’aver assassinato con un colpo d’accetta, la mattina del 10 dicembre 1911, Rosaria Femminella, vostra moglie. Che avete a dire in vostra discolpa? Rivolgetevi ai signori giurati e parlate chiaramente e col dovuto ri spetto alla giustizia.

             Tarara si recò una mano al petto, per significare che non aveva la minima intenzione di mancare di rispetto alla giustizia. Ma tutti, ormai, nell’aula, avevano disposto l’animo all’ilarità e lo guardavano col sorriso preparato in attesa d’una sua risposta. Tarara lo avvertì e rimase un pezzo sospeso e smarrito.

             – Su, dite, insomma, – lo esortò il presidente. – Dite ai signori giurati quel che avete da dire.

             Tarara si strinse nelle spalle e disse:

             – Ecco, Eccellenza. Loro signori sono alletterati, e quello che sta scritto in codeste carte, lo avranno capito. Io abito in campagna, Eccellenza. Ma se in codeste carte sta scritto, che ho ammazzato mia moglie, è la verità. E non se ne parla più.

             Questa volta scoppiò a ridere, senza volerlo, anche il presidente.

             –    Non se ne parla più? Aspettate e sentirete, caro, se se ne parlerà…

             –    Intendo dire, Eccellenza, – spiegò Tarara, riponendosi la mano sul petto, – intendo dire, che l’ho fatto, ecco; e basta. L’ho fatto… sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati, l’ho fatto propriamente, signori giurati, perché non ne ho potuto far di meno, ecco; e basta.

             –    Serietà! serietà, signori! serietà! – si mise a gridare il presidente, scrollando furiosamente il campanello. – Dove siamo? Qua siamo in una Corte di giustizia! E si tratta di giudicare un uomo che ha ucciso! Se qualcuno si attenta un’altra volta a ridere, farò sgombrare l’aula! E mi duole di dover richiamare anche i signori giurati a considerare la gravità del loro compito!

             Poi, rivolgendosi con fiero cipiglio all’imputato:

             –    Che intendete dire, voi, che non ne avete potuto far di meno?

Tarara, sbigottito in mezzo al violento silenzio sopravvenuto, rispose:

             –    Intendo dire, Eccellenza, che la colpa non è stata mia.

             –    Ma come non è stata vostra?

             Il giovane avvocato, incaricato d’ufficio, credette a questo punto suo dovere ribellarsi contro il tono aggressivo assunto dal presidente verso il giudicabile.

             –    Perdoni, signor presidente, ma così finiremo d’imbalordire questo pover uomo! Mi pare ch’egli abbia ragione di dire che la colpa non è stata sua, ma della moglie che lo tradiva col cavalier Fiorìca. È chiaro!

             –    Signor avvocato, prego, – ripigliò, risentito, il presidente. – Lasciamo parlare l’accusato. A voi, Tarara: intendete dir questo?

             Tarara negò prima con un gesto del capo, poi con la voce:

             – Nossignore, Eccellenza. La colpa non è stata neanche di quella povera disgraziata. La colpa è stata della signora… della moglie del signor cavaliere Fiorìca, che non ha voluto lasciare le cose quiete. Che c’entrava, signor presidente, andare a fare uno scandalo così grande davanti alla porta di casa mia, che finanche il selciato della strada, signor presidente, è diventato rosso dalla vergogna a vedere un degno galantuomo, il cavaliere Fiorìca, che sappiamo tutti che signore è, scovato lì, in maniche di camicia e coi calzoni in mano, signor presidente, nella tana d’una sporca contadina? Dio solo sa, signor presidente, quello che siamo costretti a fare per procurarci un tozzo di pane!

             Tarara disse queste cose con le lagrime agli occhi e nella voce, scotendo le mani innanzi al petto, con le dita intrecciate, mentre le risate scoppiavano irrefrenabili in tutta l’aula e molti anche si torcevano in convulsione. Ma, pur tra le risa, il presidente colse subito a volo la nuova posizione in cui l’imputato veniva a mettersi di fronte alla legge, dopo quanto aveva detto. Se n’accorse anche il giovane avvocato difensore, e di scatto, vedendo crollare tutto l’edificio della sua difesa, si voltò verso la gabbia a far cenno a Tarara di fermarsi.

             Troppo tardi. Il presidente, tornando a scampanellare furiosamente, domandò all’imputato:

             –    Dunque voi confessate che vi era già nota la tresca di vostra moglie col cavaliere Fiorìca?

             –    Signor presidente, – insorse l’avvocato difensore, balzando in piedi, – scusi… ma io così… io così…

             –    Che così e così! – lo interruppe, gridando, il presidente. – Bisogna che io metta in chiaro questo, per ora!

             –    Mi oppongo alla domanda, signor presidente!

             –    Lei non può mica opporsi, signor avvocato. L’interrogatorio lo faccio io!

             –    E io allora depongo la toga!

             –    Ma faccia il piacere, avvocato! Dice sul serio? Se l’imputato stesso confessa…

             –    Nossignore, nossignore! Non ha confessato ancora nulla, signor presidente! Ha detto soltanto che la colpa, secondo lui, è della signora Fiorìca, che è andata a far uno scandalo innanzi alla sua abitazione.

             –    Va bene! E può lei impedirmi, adesso, di domandare all’imputato se gli era nota la tresca della moglie col Fiorìca?

             Da tutta l’aula si levarono, a questo punto, verso Tarara pressanti, violenti cenni di diniego. Il presidente montò su tutte le furie e minacciò di nuovo lo sgombro dell’aula.

             – Rispondete, imputato Argentu: vi era nota, sì o no, la tresca di vostra moglie?

             Tarara, smarrito, combattuto, guardò l’avvocato, guardò l’uditorio, e alla fine:

             –    Debbo… debbo dire di no? – balbettò.

             –    Ah, broccolo! – gridò un vecchio contadino dal fondo dell’aula.

             Il giovane avvocato diede un pugno sul banco e si voltò, sbuffando, a sedere da un’altra parte.

             –    Dite la verità, nel vostro stesso interesse! – esortò il presidente l’imputato.

             –    Eccellenza, dico la verità, – riprese Tarara, questa volta con tutt’e due le mani sul petto. – E la verità è questa: che era come se io non lo sapessi! Perché la cosa… sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati; perché la cosa, signori giurati, era tacita, e nessuno dunque poteva venirmi a sostenere in faccia che io la sapevo. Io parlo così, perché abito in campagna, signori giurati. Che può sapere un pover uomo che butta sangue in campagna dalla mattina del lunedì alla sera del sabato? Sono disgrazie che possono capitare a tutti! Certo, se in campagna qualcuno fosse venuto a dirmi: «Tarara, bada che tua moglie se l’intende col cavaliere Fiorìca», io non ne avrei potuto fare di meno, e sarei corso a casa con l’accetta a spaccarle la testa. Ma nessuno era mai venuto a dirmelo, signor presidente; e io, a ogni buon fine, se mi capitava qualche volta di dover ritornare al paese in mezzo della settimana, mandavo avanti qualcuno per avvertirne mia moglie. Questo, per far vedere a Vostra Eccellenza, che la mia intenzione era di non fare danno. L’uomo è uomo, Eccellenza, e le donne sono donne. Certo l’uomo deve considerare la donna, che l’ha nel sangue d’essere traditora, anche senza il caso che resti sola, voglio dire col marito assente tutta la settimana; ma la donna, da parte sua, deve considerare l’uomo, e capire che l’uomo non può farsi beccare la faccia dalla gente, Eccellenza! Certe ingiurie… sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati; certe ingiurie, signori giurati, altro che beccare, tagliano la faccia all’uomo! E l’uomo non le può sopportare! Ora io, padroni miei, sono sicuro che quella disgraziata avrebbe avuto sempre per me questa considerazione; e tant’è vero, che io non le avevo mai torto un capello. Tutto il vicinato può venire a testimoniare! Che ci ho da fare io, signori giurati, se poi quella benedetta signora, all’improvviso… Ecco, signor presidente, Vostra Eccellenza dovrebbe farla venire qua, questa signora, di fronte a me, che saprei parlarci io! Non c’è peggio… mi rivolgo a voi, signori giurati, non c’è peggio delle donne cimentose! «Se suo marito», direi a questa signora, avendola davanti, «se suo marito si fosse messo con una zitella, vossignoria si poteva prendere il gusto di fare questo scandalo, che non avrebbe portato nessuna conseguenza, perché non ci sarebbe stato un marito di mezzo. Ma con quale diritto vossignoria è venuta a inquietare me, che mi sono stato sempre quieto; che non c’entravo né punto, né poco; che non avevo voluto mai né vedere, né sentire nulla; quieto, signori giurati, ad affannarmi il pane in campagna, con la zappa in mano dalla mattina alla sera? Vossignoria scherza?» le direi, se l’avessi qua davanti questa signora. «Che cosa è stato lo scandalo per vossignoria? Niente! Uno scherzo! Dopo due giorni ha rifatto pace col marito. Ma non ha pensato vossignoria, che c’era un altro uomo di mezzo? e che quest’uomo non poteva lasciarsi beccare la faccia dal prossimo, e che doveva far l’uomo? Se vossignoria fosse venuta da me, prima, ad avvertirmi, io le avrei detto: “Lasci andare, signorina! Uomini siamo! E l’uomo, si sa, è cacciatore! Può aversi a male vossignoria d’una sporca contadina? Il cavaliere, con lei, mangia sempre pane fino, francese; lo compatisca se, di tanto in tanto, gli fa gola un tozzo di pane di casa, nero e duro!”». Così le avrei detto, signor presidente, e forse non sarebbe accaduto nulla, di quello che purtroppo, non per colpa mia, ma per colpa di questa benedetta signora, è accaduto.

             Il presidente troncò con una nuova e più lunga scampanellata i commenti, le risa, le svariate esclamazioni, che seguirono per tutta l’aula la confessione fervorosa di Tarara.

             –    Questa dunque è la vostra tesi? – domandò poi all’imputato. Tarara, stanco, anelante, negò col capo.

             –    Nossignore. Che tesi? Questa è la verità, signor presidente.

             E in grazia della verità, così candidamente confessata, Tarara fu condannato a tredici anni di reclusione.

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