La toccatina – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Si sentiva rinato. Aveva di nuovo tutte le meraviglie d’un bambino, e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per ogni nonnulla.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 12 agosto 1906, poi in La vita nuda, Treves 1910.

La toccatina
Victoria Olt – Aphasia

La toccatina

Voce di Giuseppe Tizza

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             I. Col cappellaccio bianco buttato sulla nuca, le cui tese parevano una spera attorno al faccione rosso come una palla di formaggio d’Olanda, Cristoforo Golisch s’arrestò in mezzo alla via con le gambe aperte un po’ curve per il peso del corpo gigantesco; alzò le braccia; gridò:

             – Beniamino!

             Alto quasi quanto lui, ma secco e tentennante come una canna, gli veniva incontro pian piano, con gli occhi stranamente attoniti nella squallida faccia, un uomo sui cinquant’anni, appoggiato a un bastone dalla grossa ghiera di gomma. Strascicava a stento la gamba sinistra.

             – Beniamino! – ripetè il Golisch; e questa volta la voce espresse, oltre la sorpresa, il dolore di ritrovare in quello stato, dopo tanti anni, l’amico.

             Beniamino Lenzi batté più volte le palpebre: gli occhi gli rimasero attoniti; vi passò solamente come un velo di pianto, senza però che i lineamenti del volto si scomponessero minimamente. Sotto i baffi già grigi le labbra, un po’ storte, si spiccicarono e lavorarono un pezzo con la lingua annodata a pronunziare qualche parola:

             –    O… oa… oa sto meo… cammìo…

             –    Ah, bravo… – fece il Golisch, agghiacciato dall’impressione di non aver più dinanzi un uomo, Beniamino Lenzi, qual egli lo aveva conosciuto; ma quasi un ragazzo ormai, un povero ragazzo che si dovesse pietosamente ingannare.

             E gli si mise accanto e si sforzò di camminare col passo di lui. (Ah, quel piede che non si spiccicava più da terra e strisciava, quasi non potesse sottrarsi a una forza che lo tirava da sotto!)

             Cercando di dissimulare alla meglio la pena, la costernazione strana che a mano a mano lo vinceva nel vedersi accanto quell’uomo toccato dalla morte, quasi morto per metà e cangiato, cominciò a domandargli dove fosse stato tutto quel tempo, da che s’era allontanato da Roma; che avesse fatto; quando fosse ritornato.

             Beniamino Lenzi gli rispose con parole smozzicate quasi inintelligibili, che lasciarono il Golisch nel dubbio che le sue domande non fossero state comprese. Solo le palpebre, abbassandosi frequentemente su gli occhi, esprimevano lo stento e la pena, e pareva che volessero far perdere allo sguardo quel teso, duro, strano attonimento. Ma non ci riuscivano..

             La morte, passando e toccando, aveva fissato così la maschera di quell’uomo. Egli doveva aspettare con quel volto, don quegli occhi, con quell’aria di spaurita sospensione, ch’ella ripassasse e lo ritoccasse un tantino più forte per renderlo immobile del tutto e per sempre.

             – Che spasso! – fischiò tra i denti Cristoforo Golisch.

             E lanciò di qua e di là occhiatacce alla gente che si voltava e si fermava a mirar col volto atteggiato di compassione quel pover uomo accidentato.

             Una sorda rabbia prese a bollirgli dentro.

             Come camminava svelta la gente per via! svelta di collo, svelta di braccia, svelta di gambe… E lui stesso! Era padrone, lui, di tutti i suoi movimenti; e si sentiva così forte… Strinse un pugno. Perdio! Sentì come sarebbe stato poderoso a calarlo bene scolpito su la schiena di qualcuno. Ma perché? Non sapeva…

             Lo irritava la gente, lo irritavano in special modo i giovani che si voltavano a guardare il Lenzi. Cavò dalla tasca un grosso fazzoletto di cotone turchino e si asciugò il sudore che gli grondava dal faccione affocato.

             – Beniamino, dove vai adesso?

             Il Lenzi s’era fermato, aveva appoggiata la mano illesa a un lampione e pareva lo carezzasse, guardandolo amorosamente. Biascicò:

             –   Da dottoe… Esecìio de piee.

             E si provò ad alzare il piede colpito.

             –    Esercizio? – disse il Golisch. – Ti eserciti il piede?

             –    Piee, – ripetè il Lenzi.

             –    Bravo! – esclamò di nuovo il Golisch.

             Gli venne la tentazione d’afferrargli quel piede, stirarglielo, prendere per le braccia l’amico e dargli un tremendo scrollone, per scomporlo da quell’orribile immobilità.

             Non sapeva, non poteva vederselo davanti, ridotto in quello stato. Eccolo qua, il compagno delle antiche scapataggini, nei begli anni della gioventù e poi nelle ore d’ozio, ogni sera, scapoli com’eran rimasti entrambi. Un bel giorno, una nuova via s’era aperta innanzi all’amico, il quale s’era incamminato per essa, svelto anche lui, allora, – oh tanto! – svelto e animoso. Sissignore! Lotte, fatiche, speranze; e poi, tutt’a un tratto: eccolo qua, com’era ritornato… Ah, che buffonata! che buffonata!

             Avrebbe voluto parlargli di tante cose, e non sapeva. Le domande gli s’affollavano alle labbra e gli morivano assiderate.

             «Ti ricordi», avrebbe voluto dirgli, «delle nostre famose scommesse alla Fiaschetteria Toscana? E di Nadina, ti ricordi? L’ho ancora con me, sai! Tu me l’hai appioppata, birbaccione, quando partisti da Roma. Cara figliuola, quanto bene ti voleva… Ti pensa ancora, sai? mi parla ancora di te, qualche volta. Andrò a trovarla questa sera stessa e le dirò come t’ho riveduto, poveretto… E proprio inutile ch’io ti domandi: tu non ricordi più nulla; tu forse non mi riconosci più, o mi riconosci appena.»

             Mentre il Golisch pensava così, con gli occhi gonfi di lagrime, Beniamino Lenzi seguitava a guardare amorosamente il lampione e pian piano con le dita gli levava la polvere.

             Quel lampione segnava per lui una delle tre tappe della passeggiata giornaliera. Strascinandosi per via, non vedeva nessuno, non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure, egli tendeva con tutte le forze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi, più giù, alla vetrina d’un bazar, che segnava la seconda tappa; e qui si tratteneva più a lungo a contemplare con gioja infantile una scimmietta di porcellana sospesa a un’altalena dai cordoncini di seta rossa. La terza sosta era alla ringhiera del giardinetto in fondo alla via, donde poi si recava alla casa del medico.

             Nel cortile di quella casa, tra i vasi di fiori e i cassoni d’aranci, di lauro e di bambù, eran disposti parecchi attrezzi di ginnastica, tra i quali alcune pertiche elastiche, fermate orizzontalmente in cima a certi pali tozzi e solidi; pertiche da tornitore, dalla cui estremità pendeva una corda, la quale, dato un giro attorno a un rocchetto, scendeva ad annodarsi a una leva di legno, fermata per un capo al suolo da una forcella.

             Beniamino Lenzi poneva il piede colpito su questa leva e spingeva; la pertica in alto molleggiava e brandiva, e il rocchetto, sostenuto orizzontalmente da due toppi, girava per via della corda.

             Ogni giorno, mezz’ora di questo esercizio. E in capo a pochi mesi, sarebbe guarito. Oh, non c’era alcun dubbio! Guarito del tutto…

             Dopo avere assistito per un pezzetto a questo grazioso spettacolo, Cristoforo Golisch uscì dal cortile a gran passi, sbuffando come un cavallo, dimenando le braccia, furibondo.

             Pareva che la morte avesse fatto a lui e non al povero Lenzi lo scherzo di quella toccatina lì, al cervello.

             N’era rivoltato.

             Con gli occhi torvi, i denti serrati, parlava tra sé e gesticolava per via, come un matto.

             –   Ah, sì? – diceva. – Ti tocco e ti lascio? No, ah, no perdio! Io non mi ri-

             duco in quello stato! Ti faccio tornare per forza, io! Mi passeggi accanto e ti diverti a vedere come mi hai conciato? a vedermi strascicare un piede? a sentirmi biascicare? Mi rubi mezzo alfabeto, mi fai dire oa e cao, e ridi? No, caa! Vieni qua! Mi tio una pistoettata, com’è veo Dio! Questo spasso io non te lo do! Mi sparo, m’ammazzo com’è vero Dio! Questo spasso non te lo do.

             Tutta la sera e poi il giorno appresso e per parecchi giorni di fila non pensò ad altro, non parlò d’altro, a casa, per via, al caffè, alla fiaschetteria, quasi se ne fosse fatta una fissazione. Domandava a tutti:

             – Avete veduto Beniamino Lenzi? E se qualcuno gli rispondeva di no:

             – Colpito! Morto per metà! Rimbambito… Come non s’ammazza? Se io fossi medico, lo ammazzerei! Per carità di prossimo… Gli fanno girare il tornio, in vece… Sicuro! Il tornio… Il medico gli fa girare il tornio nel cortile… e lui crede che guarirà! Beniamino Lenzi, capite? Beniamino Lenzi che s’è battuto tre volte in duello, dopo aver fatto con me la campagna del ’66, ragazzotto… Perdio, e quando mai l’abbiamo calcolata noi, questa pellaccia? La vita ha prezzo per quello che ti dà… Dico bene? Non ci penserei neanche due volte…

             Gli amici, alla fiaschetteria, alla fine non ne poterono più.

             –    M’ammazzo… m’ammazzo… E ammazzati una buona volta e falla finita! Cristoforo Golisch si scosse, protese le mani:

             –    No; io dico, se mai…

             II. Circa un mese dopo, mentre desinava con la sorella vedova e il nipote, Cristoforo Golisch improvvisamente stravolse gli occhi, storse la bocca, quasi per uno sbadiglio mancato; e il capo gli cadde sul petto e la faccia sul piatto.

             Una toccatina, lieve lieve, anche a lui.

             Perdette lì per lì la parola e mezzo lato del corpo: il destro.

             Cristoforo Golisch era nato in Italia, da genitori tedeschi; non era mai stato in Germania, e parlava romanesco, come un romano di Roma. Da un pezzo gli amici gli avevano italianizzato anche il cognome, chiamandolo Golicci, e gl’intimi anche Golaccia, in considerazione del ventre e del formidabile appetito. Solo con la sorella egli soleva di tanto in tanto scambiare qualche parola in tedesco, perché gli altri non intendessero.

             Ebbene, riacquistato a stento, in capo a poche ore, l’uso della parola, Cristoforo Golisch offrì al medico un curioso fenomeno da studiare; non sapeva più parlare in italiano: parlava tedesco.

             Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura, contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi più volte provato a snodar la lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò, rivolto al medico:

              – Ih… ihr… wie ein Faustschlag…

             Il medico non comprese, e bisognò che la sorella, mezzo istupidita dall’improvvisa sciagura, gli facesse da interprete.

             Era divenuto tedesco a un tratto, Cristoforo Golisch: cioè, un altro; perché tedesco veramente, lui, non era mai stato. Soffiata via, come niente, dal suo cervello ogni memoria della lingua italiana, anzi tutta quanta l’italianità sua.

             Il medico si provò a dare una spiegazione scientifica del fenomeno: dichiarò il male: emiplegia; prescrisse la cura. Ma la sorella, spaventata, lo chiamò in disparte e gli riferì i propositi violenti manifestati dal fratello pochi giorni innanzi, avendo veduto un amico colpito da quello stesso male.

             –   Ah, signor dottore, da un mese non parlava più d’altro; quasi se la fosse sentita pendere sul capo la condanna! S’ammazzerà… Tiene la rivoltella lì, nel cassetto del comodino… Ho tanta paura…

             Il medico sorrise pietosamente.

             –   Non ne abbia, non ne abbia, signora mia! Gli daremo a intendere che è stato un semplice disturbo digestivo, e vedrà che…

             –    Ma che, dottore!

             –    Le assicuro che lo crederà. Del resto, il colpo, per fortuna, non è stato molto grave. Ho fiducia che tra pochi giorni riacquisterà l’uso degli arti offesi, se non bene del tutto, almeno da potersene servire pian piano… e, col tempo, chi sa! Certo è stato per lui un terribile avviso. Bisognerà cangiar vita e tenersi a un regime scrupolosissimo per allontanare quanto più sarà possibile un nuovo assalto del male.

             La sorella abbassò le palpebre per chiudere e nascondere negli occhi le lagrime. Non fidandosi però dell’assicurazione del medico, appena questi andò via, concertò col figliuolo e con la serva il modo di portar via dal cassetto del comodino la rivoltella: lei e la serva si sarebbero accostate alla sponda del letto con la scusa di rialzare un tantino le materasse, e nel frattempo – ma, attento per carità! – il ragazzo avrebbe aperto il cassetto senza far rumore e… – attento! – via, l’arma.

             Così fecero. E di questa sua precauzione la sorella si lodò molto, non parendole naturale, di lì a poco, la facilità con cui il fratello accolse la spiegazione del male, suggerita dal medico: disturbo digestivo.

             Ja… ja… es ist doch…

             Da quattro giorni se lo sentiva ingombro lo stomaco.

             – Unver… Unverdaulichkeit… ja… ja…

             Ma possibile, – pensava la sorella, – ch’egli non avverta la paralisi di mezzo lato del corpo? possibile ch’egli, già prevenuto dal caso recente del Lenzi, creda che una semplice indigestione possa avere un tale effetto?

             Fin dalla prima veglia cominciò a suggerirgli amorosamente, come a un bambino, le parole della lingua dimenticata; gli domandò perché non parlasse più italiano.

             Egli la guardò imbalordito. Non s’era accorto peranche di parlare in tedesco: tutt’a un tratto gli era venuto di parlar così, né credeva che potesse parlare altrimenti. Si provò tuttavia a ripetere le parole italiane, facendo eco.alla sorella. Ma le pronunziava ora con voce cangiata e con accento straniero, proprio come un tedesco che si sforzasse di parlare italiano. Chiamava Giovannino, il nipote, Ciofaio. E il nipote – scimunito! – ne rideva, come se lo zio lo chiamasse così per ischerzo.

             Tre giorni dopo, quando alla Fiaschetterìa Toscana si seppe del malore improvviso del Golisch, gli amici accorsi a visitarlo poterono avere un saggio pietoso di quella sua nuova lingua. Ma egli non aveva punto coscienza della curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo.

             Pareva un naufrago che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della sua gente. E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto bambino, a quarant’otto anni, e straniero.

             E contentissimo era. Sì, perché proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena appena il braccio e la mano. La gamba no, ancora. Ma sentiva che forse il giorno dopo, con uno sforzo, sarebbe riuscito a muovere anche quella. Ci si provava anche adesso, ci si provava… e, no eh? non scorgevano alcun movimento gli amici?

             –    Tomai… tomai…

             –    Ma sì, domani, sicuro!

             A uno a uno gli amici, prima d’andar via – quantunque lo spettacolo offerto dal Golisch non desse più luogo ad alcun timore – stimarono prudente raccomandare alla sorella la sorveglianza.

             – Da un momento all’altro, non si sa mai… Può darsi che la coscienza gli si ridesti, e…

             Ciascuno pensava, ora, come già aveva pensato il Golisch, da sano: che l’unica, cioè, era di finirsi con una pistolettata per non restar così malvivo e sotto la minaccia terribile, inovviabile, d’un nuovo colpo da un momento all’altro.

             Ma loro sì, adesso, lo pensavano: non più il Golisch però. L’allegrezza del Golisch, invece, quando – una ventina di giorni dopo – sorretto dalla sorella e dal nipote, poté muovere i primi passi per la camera!

             Gli occhi, è vero, no, senza uno specchio non se li poteva vedere: attoniti, smarriti, come quelli di Beniamino Lenzi; ma della gamba sì, perbacco, avrebbe potuto accorgersi bene che la strascicava a stento… Eppure, che allegrezza!

             Si sentiva rinato. Aveva di nuovo tutte le meraviglie d’un bambino, e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per ogni nonnulla. Da tutti gli oggetti della camera sentiva venirsi un conforto dolcissimo, familiare, non mai provato prima; e il pensiero ch’egli ora poteva andare co’ suoi piedi fino a quegli oggetti, a carezzarli con le mani, lo inteneriva di gioja fino a piangerne. Guardava dall’uscio gli oggetti delle altre stanze e si struggeva dal desiderio di recarsi a carezzare anche quelli. Sì, via… pian piano, pian piano, sorretto di qua e’di là… Poi volle fare a meno del braccio del nipote, e girò appoggiato alla sorella soltanto e col bastone nell’altra mano; poi, non più sorretto da alcuno, col bastone soltanto; e finalmente volle dare una gran prova di forza:

             – Oh… oh… guaddae… guaddae… sea battoe…

             E davvero, tenendo il bastone levato, mosse due o tre passi. Ma dovettero accorrere con una seggiola per farlo subito sedere.

             Gli era quasi scolata addosso tutta la carne, e pareva l’ombra di se stesso; pur non di meno, neanche il minimo dubbio in lui che il suo non fosse stato un disturbo digestivo; e, sedendo ora di nuovo a tavola con la sorella e il nipote, condannato a bere latte invece di vino, ripeteva per la millesima volta che s’era presa una bella paura:

             – Una beapaua…

             Se non che, la prima volta che potè uscir di casa, accompagnato dalla sorella, in gran segreto manifestò a questa il desiderio d’esser condotto alla casa del medico che.curava Beniamino Lenzi. Nel cortile di quella casa voleva esercitarsi il piede al tornio anche lui.

             La sorella lo guardò, sbigottita. Dunque egli sapeva?

             –    Di’, vuoi andarci oggi stesso?

             –    Sì… sì…

             Nel cortile trovarono Beniamino Lenzi, già al tornio, puntuale.

             – Beiamìo!  – chiamò il Golisch.

             Beniamino Lenzi non mostrò affatto stupore nel riveder lì l’amico, conciato come lui: spiccicò le labbra sotto i baffi, contraendo la guancia destra; biascicò:

             – Tu pue ?

             E seguitò a spingere la leva. Due pertiche ora molleggiavano e brandivano, facendo girare i rocchetti con la corda.

             Il giorno dopo Cristoforo Golisch, non volendo esser da meno del Lenzi che si recava al tornio da solo, rifiutò recisamente la scorta della sorella. Questa, dapprima, ordinò al figliuolo di seguire lo zio a una certa distanza, senza farsi scorgere; poi, rassicurata, lo lasciò davvero andar solo.

             E ogni giorno, adesso, alla stess’ora, i due colpiti si ritrovano per via e proseguono insieme facendo le stesse tappe: al lampione, prima; poi, più giù, alla vetrina del bazar, a contemplare la scimmietta di porcellana sospesa all’altalena; in fine, alla ringhiera del giardinetto.

             Oggi, intanto, a Cristoforo Golisch è saltata in mente un’idea curiosa; ed ecco, la confida al Lenzi. Tutti e due, appoggiati al fido lampione, si guardano negli occhi e si provano a sorridere, contraendo l’uno la guancia destra, l’altro la sinistra. Confabulano un pezzo, con quelle loro lingue torpide; poi il Golisch fa segno col bastone a un vetturino d’accostarsi. Ajutati da questo, prima l’uno e poi l’altro, montano in vettura, e via, alla casa di Nadina in Piazza di Spagna.

             Nel vedersi innanzi quei due fantasmi ansimanti che non si reggono in piedi dopo l’enorme sforzo della salita, la povera Nadina resta sgomenta, a bocca aperta. Non sa se debba piangere o ridere. S’affretta a sostenerli, li trascina nel salotto, li pone a sedere accanto e si mette a sgridarli aspramente della pazzia commessa, come due ragazzini discoli, sfuggiti alla sorveglianza del-ì’ajo.

             Beniamino Lenzi fa il greppo, e giù a piangere.

             Il Golisch, invece, con molta serietà, accigliato, le vuole spiegare che si è inteso di farle una bella sorpresa.

             – Una bea soppea…

             (Bellino! Come parla adesso, il tedescaccio!)

             – Ma sì, ma sì, grazie… – dice subito Nadina. – Bravi! Siete stati bravi dav vero tutt’e due… e m’avete fatto un gran piacere… Io dicevo per voi… venire fin qua, salire tutta questa scala… Su, su, Beniamino! Non piangere, caro… Che cos’è? Coraggio, coraggio!

             E prende a carezzarlo su le guance, con le belle mani lattee e paffutelle, inanellate.

             – Che cos’è: che cos’è? Guardami!… Tu non volevi venire, è vero? Ti ha condotto lui, questo discolaccio! Ma non farò nemmeno una carezza a lui… Tu sei il mio buon Beniamino, il mio gran giovanottone sei… Caro! caro!… Suvvia, asciughiamo codeste lagrimucce… Così… così… Guarda qua questa bella turchese: chi me l’ha regalata? chi l’ha regalata a Nadina sua? Ma questo mio bel vecchiaccio me l’ha regalata… Toh, caro!

             E gli possa un bacio su la fronte. Poi si alza di scatto e rapidamente con le dita si porta via le lagrime dagli occhi.

             – Che posso offrirvi?

             Cristoforo Golisch, rimasto mortificato e ingrugnato, non vuole accettar nulla; Beniamino Lenzi accetta un biscottino e lo mangia accostando la bocca alla mano di Nadina che lo tiene tra le dita e finge di non volerglielo dare, scattando con brevi risatine:

             – No… no… no…

             Bellini tutt’e due, adesso, come ridono, come ridono a quello scherzo…

La toccatina – Audio lettura 1 – Legge Faustino Sigliani
La toccatina – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
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