Legge Giuseppe Tizza.
«Biagio Speranza era molto nervoso; il pensiero di battersi con quel pazzo, da cui s’era preso uno schiaffo, lo avviliva. Ma voleva tuttavia mostrarsi ilare, per non dare importanza a quel duello: grottesco epilogo d’una buffonata.»
Prima pubblicazione: Beffe della morte e della vita, «Seconda serie», Firenze, Francesco Lumachi, 1903.
La signora Speranza
Legge Giuseppe Tizza
|
******
I. La Pensione di famiglia della signora Carolina Pentoni (Pentolona Carolini come tutti invece la chiamavano, o Carolinona senz’altro, in considerazione della melensa pinguedine che la immelanconiva) era frequentata da alcuni capi scarichi, da certi tipi buffi, che formavano la delizia degli altri avventori, brava gente morigerata, la quale, forse più che per la bontà della cucina, vi si recava per assistere al gajo spettacolo che quelli offrivano gratuitamente, durante i pasti.
Uno fra questi bravi avventori morigerati, che non sospettava neppur lontanamente di poter essere incluso tra i così detti tipi buffi della Pensione, fu per alcun tempo preso di mira dai capi scarichi Biagio Speranza e Dario Scossi, che gliene fecero e gliene dissero d’ogni colore: lui però, lì, fermo al suo posto, così tranquillo e ostinato, che quelli, a la fine, dovettero smetterla.
– Il riso fa buon sangue. Lor signori mi fanno ridere. Io resto. E restò, cordialmente antipatico a tutti.
Si chiamava Cedobonis, era dottore in medicina e professore di filosofia in un liceo e di pedagogia in una scuola normale femminile: calabrese, tozzo, nero, calvo, dal testone ovale, senza collo, come un mulotto, e dalla faccia cuojacea, in cui spiccavano le sopracciglia enormi e i baffi color d’ebano. Vittima rassegnata della sua molta dottrina scientifica, filosofica, pedagogica, s’era ridotto a vivere automaticamente, col cervello come un casellario, in cui i pensieri – precisi, aggiustati, pesati – eran disposti secondo le varie categorie, in perfettissimo ordine. Forse il corpo robusto e vigoroso si sarebbe prestato, spesso e volentieri, ad esercizii violenti, a vivere senza tante regole e tanti freni; ma Cedobonis vi aveva allogato un archivio – diceva lo Scossi – e non gli permetteva alcun movimento, alcuna espansione, che non fossero secondo i dettami della scienza, della filosofia, della pedagogia.
– Non importa vivere; ma, dovendo, procuriamo bene, – soleva dire, placido, con la voce grossa, saponosa. E domandava: – La ragione, signori miei, la ragione perché ci fu data?
– Per esser peggio delle bestie! – gli rispondeva a schizzo il maestro di musica Trunfo, che addirittura non lo poteva soffrire.
Diviso scandalosamente dalla moglie, sempre ingrugnato, cupo, raffagottato e, di tratto in tratto, esplosivo, Trunfo passava quasi tutto il giorno da Carolinona, lì, nel salotto da pranzo, intento, come un cane che si lecchi i calci ricevuti, a correggere, a rifare i pezzi più fischiati d’una sua opera musicale, per cui si era mezzo rovinato. Fumava continuamente; – Vesuvio, lo chiamava Biagio Speranza.
Qualche volta Cedobonis, cheto cheto, gli s’accostava, gli sedeva accanto o dietro, per sentir l’odore del tabacco, che gli piaceva moltissimo. Trunfo, aggrondato, gli lanciava due, tre occhiatacce bieche, poi sbuffava, si scrollava tutto, dal fastidio e dalla stizza, traeva dalla tasca un sigaro e gliel’offriva sgarbatamente:
– Ma tenga! Ma fumi, perdio!
– No, grazie, – gli rispondeva, senza scomporsi, Cedobonis. – Lei dovrebbe sapere che la nicotina fa male. Mi piace soltanto di fiutare il fumo, d’aspirarne l’odore.
– A spese mie? – scattava allora Trunfo, su le furie. – Col danno della mia salute? Ma vada là, si scosti! si vergogni! Chi vuole un piacere, se lo paghi!
– Cedobonis – diceva lo Scossi (il quale ogni volta, prima di mettersi a parlare, cacciava fuori la punta di quella sua lingua terribile, che pareva la saettella d’un trapano) – Cedobonis sarebbe capace di presentarsi tranquillamente, con quella faccia di monaco beato, in casa del nostro caro Martinelli e, con la scusa che la donna fa male come la nicotina, domandargli… sì, dico… per un momentino in prestito…
– La moglie? – domandava Biagio Speranza.
– Ohibò! Il suo piumino da cipria.
– Ma come! Sì, dico… che c’entra mia moglie? – esclamava, tirato in ballo quando men se l’aspettava, il bravo, innocuo signor Martino Martinelli, battendo in un attimo almeno cento volte le palpebre su gli occhietti tondi, da barbagianni, vicinissimi, quantunque divisi da un naso sperticato, gracile, però, come un’ostia, che si tirava su e lasciava sospeso per aria il labbro superiore.
– Si rassicuri; dico così, – rispondeva lo Scossi, – perché so che la sua ottima signora è in Sicilia, signor Martino.
E il bravo Martinelli si quietava, sospirava, tentennava amaramente il capo. Ah, ci pensava sempre, lui, a quella sua povera moglie balestrata in una scuola normale di Sicilia, e sempre ne parlava in quella sua special maniera, quasi andando tentoni nel discorso e quasi appoggiandosi, sorreggendosi a ogni impuntatura a un sì, dico: intercalare, che tutti gli rifacevano, senza che egli se ne accorgesse. Non si poteva dar pace, poveretto, della crudeltà burocratica che a sessantaquattr’anni lo aveva diviso, così dj colpo, senza ragione, dalla moglie, distruggendogli casa, famiglia, costringendolo a dormir solo, in una camera d’affitto, e a mangiare a pensione lì, da Carolinona, che egli solo chiamava signora Carolina.
Alle più grosse panzane, alle sballonate più strepitose de’ suoi commensali scappavano al signor Martinelli certi oh! che pareva lo agganciassero in aria per quel gran naso, o restava intontito lì, come un ceppo d’incudine.
Re degli sballoni era Momo Cariolin, nanerottolo e bottacciolo, quasi fatto e messo in piedi per ischerzo. A guardarlo, pareva impossibile che in un corpicciuolo così minuscolo capissero bugie così colossali, che egli diceva imperterrito, con una cert’aria diplomatica.
– Ma di’ un po’, – gli domandava, serio, Biagio Speranza, – ti sei mai guardato a uno specchio?
Perché Momo Cariolin vantava con particolare impegno il favore ch’egli godeva delle donne. E fossero state almeno donne del suo ceto o signore della nobiltà: eran di sangue reale o imperiale (arciduchesse d’Austria, segnatamente) le vittime di Cariolin. E tali avventure gli eran capitate tutte durante i varii congressi degli orientalisti nelle capitali d’Europa. Perché Cariolin si diceva anche profondo conoscitore, sebbene dilettante, di lingue orientali. Il segretario di tutti que’ congressi era stato sempre lui, tirato proprio pei capelli, sebbene quasi calvo. I congressisti, naturalmente, erano stati ricevuti a Corte: a Berlino, a Vienna, a Cristiania, a Bruxelles, a Copenaghen ecc., qualcuna di queste Corti, naturalmente, aveva dato sontuose feste in loro onore, donde – naturalmente – la cordialissima amicizia di Cariolin coi sovrani d’Europa, l’amicizia quasi fraterna con quel dotto e simpaticone re Oscar di Svezia e Norvegia, il quale, un giorno…
– Ma guardatemi, per carità, il naso di Martino! – esclamava a un tratto Biagio Speranza, interrompendo le meravigliose narrazioni di Cariolin.
E il buon Martinelli si scoteva di soprassalto dal suo sbalordimento ammirativo, tra le risate di tutti, e si metteva a sorridere anche lui.
Degli scherzi di Biagio Speranza, delle punzecchiature di Dario Scossi, degli scatti e degli schizzi di Trunfo, Martino Martinelli non s’inquietava. D’un altro commensale, invece, egli aveva paura, cioè del poeta Giannantonio Cocco Bertolli, il quale, senza dubbio, era il tipo più buffo della pensione.
Costui però era assente da circa un mese, per una grave disgrazia che gli era occorsa.
Una sola? Ma tutte le disgrazie del mondo erano occorse al povero poeta Cocco Bertolli, il quale a ragione, per ciò, chiamava Domineddio «quel Vecchio Ribaldo!».
A furia di urlare contro le ingiustizie divine e umane, si era sbonzolato. Quale sciagura poteva toccargli, peggiore di questa? A difesa delle perfidie celesti e terrene egli non era armato che della sua voce possente, della sua lingua di fuoco, e ora… ora non poteva più nemmeno fiatare! Il Ribaldo di lassù, i ribaldi di quaggiù lo sapevano; quelli stessi che gli si dichiaravano amici glielo facevano apposta: lo stuzzicavano, lo punzecchiavano per rovinarlo del tutto, per farlo crepare addirittura; muggiva egli, muggiva per contenersi, e pareva che gli occhi enormi, bovini, gli volessero schizzare dal faccione congestionato. Accumulava bile:
– La mia musa è la bile! Anche Shakespeare con la bile creò Otello, creò Re Lear!
Ed egli preparava un poema, l’Erostrato: tremendo. Ah, il magnifico tempio dell’Impostura, il tempio della così detta Civiltà, dove l’infame Ipocrisia troneggiava adorata, egli lo avrebbe incendiato coi suoi versi. Ma, dacché la gente sapeva che egli attendeva a questo suo poema: – Za! za! za! – pugnalate da tutte le parti.
Destituito da professore di ginnasio per queste sue tragiche bestialità, buttato sul lastrico, Giannantonio Cocco Bertolli fino a poco tempo fa non si era avvilito. Dormire, dormiva per due soldi in un ricovero di mendicità:
tra i sublimi straccioni impidocchiati
mangiare… quella buona Carolinona gli faceva credito da più d’un anno.
– E io, Carolina, la immortalerò! – le ripeteva egli. – Lei sola mi ama, lei che sotto spoglie grossolane alberga un cuor d’oro, un’anima nobilissima, Carolina!
– Sissignore, non s’inquieti, – s’affrettava a rispondergli Carolinona, che aveva, come il buon Martinelli, paura di quegli occhiacci che si spalancavano lucidissimi ogni qual volta egli si metteva a parlare, atteggiando la bocca a un ghigno di compiacimento per la sua loquela, cosicché non si sapeva mai se, anche quando faceva un complimento, sbottoneggiasse a suo modo.
Temeva anche la Pentoni che gli altri avventori – quelli che pagavano – non se lo recassero a dispetto, non avessero fastidio o nausea della presenza di lui, lì a tavola; e perciò sia per buon cuore, sia per paura, non sapendo metterlo alla porta, gli consigliava amorevolmente calma, prudenza, cercava con tutto il garbo d’ammansarlo, e si prendeva cura di lui, di quegli abiti che gli cascavano addosso; e glieli rammendava, glieli spazzolava: era finanche arrivata a rimediargli qualche cravatta dai nastri di certi suoi cappelli smessi.
Non intendendo perché tutte quelle cure gli fossero usate, Giannantonio Cocco Bertolli, alla fine – (e come no?) – s’era innamorato della Pentoni.
Vedo la tua bell’anima
Che dì fattezze angeliche ti veste
E asconde a me la ruvida
Spoglia mortai, tue mansion modeste…
S’era messo a comporre così odi, sonetti, canzoncine anacreontiche, e a leggerglieli mentr’ella gli attaccava alla giacca o al panciotto qualche bottone o lo spazzolava.
Non comprendeva Carolinona che fossero rivolti a lei que’ versi, e perché glieli leggesse; ma, poiché lo teneva in conto di pazzo, non gliene domandava neppur la ragione, e lo lasciava leggere.
Giannantonio Cocco Bertolli, violento e bestiale in tutto, era timidissimo nell’amore. Non sapendo confessare direttamente alla Pentoni l’affetto che gli era nato per lei, si sfogava in poesia, sperando di arrivarci pe’ viali mostruosamente fioriti delle sue bolse metafore. Ma, vedendo poi Carolinona restare impassibile, dava in ismanie, in escandescenze.
– E che le avviene adesso? – gli domandava, stordita, la povera donna.
– Che? – fremeva il Cocco Bertolli, spiegazzando la carta su cui aveva raspato la poesia, spalancando al solito gli occhiacci, pestando i piedi. – Me lo domanda? Nulla! Ma se lo so! Questa dev’essere la mia sorte! Così ha statuito quel Vecchio Ribaldo! Non debbo esser compreso da nessuno! Neppure da lei!
– Io? Perché?
– Non mi dice nemmeno che gliene sembra.
– Di che? della poesia? Ma, santo Dio!, se io non ci capisco niente: lei lo sa. Sia buono, via! Perché fa così?
– Perché… perché…
Inutile! La dichiarazione non gli poteva rompere dal cuore.
Ci voleva la spinta d’un sospetto odioso, balenatogli a un tratto, durante una di queste scene, mentre la Pentoni gli raccomandava di star zitto, o di parlar basso almeno, poiché di là c’era il maestro che correggeva la sua musica.
– Ah, dunque per lui? – aveva allora inveito il Cocco Bertolli. – Tu l’ami? E il tuo amante? Confessalo! Vipera, vipera, vipera… E perché mi hai dunque lusingato finora?
– Io? Mi lasci! – gli aveva risposto la Pentoni tremante di paura. – Lei è pazzo!
Ma il Cocco Bertolli, senza lasciarla, schiumante d’odio e di bile:
– Grida, sì, grida, perch’egli accorra! Voglio vederlo il tuo paladino, viperello anche lui!
– Ma si stia quieto! si stia zitto! – aveva scongiurato Carolinona. – Dice sul serio, signor Bertolli? Che vuole da me? Mi lasci stare.
– Non posso! Io ti amo. Tu ami un altro? Ce la vedremo.
– Ma io non amo nessuno. Vuol farmi ridere? All’età mia? Non ci mancherebbe altro! Chi vuole che s’innamori di me, signor Bertolli?
– Io! E gliel’ho detto!
– Pazzia, scusi. Neanche per ridere! Mi lasci stare… Io sono una povera donna.
Conosceva purtroppo la Pentoni le vili calunnie che correvano sul suo conto, ma non s’era mai neppur curata di smascherarle. Che gliene importava? Resa da un pezzo a discrezione della sua trista sorte, aveva coscienza della sua onestà, e le bastava. In che potevano ormai danneggiarla quelle calunnie? Si sapeva brutta: aveva già trentacinque anni (e per lei, come se ne avesse cinquanta), non si era mai lusingata che un uomo si potesse innamorar di lei, non aveva avuto mai neanche il tempo di pensare che la sorte avrebbe potuto forse concederle altra esistenza, il compenso di un qualche affetto alla nera miseria, che la aveva sempre schiacciata, oppressa, e da cui lei, con ogni mezzo, coraggiosamente, aveva cercato di difendersi. Credevano davvero che nella sua vita ci fosse qualche trascorso, anzi più d’uno? Ebbene, lo credessero! In fondo in fondo, questo, non solo non la offendeva più, ma quasi le solleticava l’amor proprio, l’avvizzito istinto feminile. Socchiudeva gli occhi. Non era vero, purtroppo! Nessuno mai s’era curato di lei, tranne questo pazzo del Cocco Bertolli, ora. Sarebbe stata da ridere, se non avesse avuto l’umor tragico, quell’infelice.
– Me ne debbo dunque andare? – le aveva egli domandato.
– Ma no, stia! – s’era ella affrettata a rispondergli. – Purché non pensi più a codesta pazzia!
– Non posso! Quando un’idea mi s’è confitta qui, neanche se mi spaccano la testa col martello di Vulcano ne esce, lo sappia! E sappia che i miei propositi erano onesti, e tali sono tuttora! Carolina, vuoi diventare mia moglie?
S’era messa a ridere, a siffatta proposta a bruciapelo, la Pentoni; ma il Cocco Bertolli, furibondo, le aveva troncato la risata su le labbra:
– Non ridere, non ridere, perdio! Credimi almeno, tu, che sei una donna di cuore! Salvami! Io ho bisogno che qualcuno mi ami e mi plachi. Riprenderò il mio posto nell’insegnamento, sarai la moglie di un grande poeta, che ora sciupa così, miseramente, il suo ingegno! E se non comprendi il poeta, poco importa: sarai la moglie di un professore; ti basta?, e ti libererai di tutti questi farabutti, che vengono a fare i buffoni alla tua mensa! Senti: io ti do la prova maggiore dell’amor mio, della serietà dei miei propositi! Uscendo di qua, io vado all’ospedale, ad assoggettarmi a una terribile operazione. I medici mi hanno detto che posso restarci. E sia! Ma se mi salvo, sarò tuo, Carolina. Lasciami questa speranza. Addio!
E se n’era scappato a precipizio, senza dar tempo alla povera donna di trattenerlo, di sconsigliarlo.
All’ospedale, aveva costretto i medici ad arrischiare la tremenda operazione, dichiarando:
– Così non posso né voglio più vivere. Mi ucciderei. Dunque, senza paura, senza rimorso, operatemi! Alla peggio, mi anticipereste di qualche giorno la morte.
Il buon Martinelli, a cui la Pentoni aveva confidato, piangendo, quel nuovo scoppio di pazzia del Bertolli, fu spedito, due giorni dopo l’operazione, a domandar notizie all’ospedale. Ne ritornò il povero signor Martino col gracile nasone pallidissimo dallo sgomento, coi tondi occhietti, invetrati.
Il Cocco Bertolli era moribondo, e gli aveva chiesto in grazia di persuadere la «sua» Carolina a recarsi a vederlo per l’ultima volta. Il medico aveva assicurato al Martinelli che il moribondo non avrebbe superato la notte.
La Pentoni, impietosita, si era allora recata all’ospedale, e lì aveva dovuto promettere, giurare solennemente al moribondo che, se egli fosse scampato dalla morte, sarebbe stata sua moglie.
– Ma non ci sarà pericolo, vedrà! non ci sarà pericolo! – le aveva detto, per rassicurarla, il buon Martinelli, tornando da quella visita. – Perché… sì, dico…
E aveva alzato una mano, come per benedire il moribondo.
*******
II. Tutti i commensali erano a tavola, quando Biagio Speranza entrò nel salotto da pranzo, annunziando allegramente:
– Salvo! Salvo! Vengo dall’ospedale. Fra una ventina di giorni riavremo alla nostra tavola il grandissimo poeta. Signori, vi invito a gridare: Viva Giannantonio Cocco Bertolli!
Nessuno fece eco a quel grido. Il signor Martinelli chinò verso il piatto il naso sperticato. Trunfo lanciò un’occhiataccia obliqua, e si rimise a mangiare. La Pentoni piangeva.
Solo Cedobonis si rallegrò alla vista di Biagio Speranza, che lo faceva ridere tanto, a tavola, come l’igiene voleva; ed esclamò:
– Oh bravo! adesso ci racconti!
Ma Biagio Speranza non gli diede retta. Guardò la padrona di casa; poi domandò:
– E perché?
– Ma! – sospirò Dario Scossi. – Ingratitudine!
– Per carità! – pregò la Pentoni. – Questa sera mi lascino stare…
Biagio Speranza guardò in giro gli amici e con un gesto domandò che cosa fosse accaduto.
– Martinelli, – spiegò Cariolin, – è stato prima di te a prender notizie all’ospedale, e Carolinona ha saputo…
– E se ne duole? – esclamò Biagio Speranza, fingendo stupore. – Ah, scusami, Carolinona: ingratitudine! ha ragione lo Scossi. Io fio veduto il tuo poeta, e per miracolo mi son tenuto dal baciarlo in fronte. Che eroe dell’amore! Non mi ha parlato che di te… Mi ha domandato…
La Pentoni si levò in piedi, convulsa; si recò il fazzoletto a gli occhi; si provò a dire: – Mi permettano… – ma uno scoppio di singhiozzi le troncò la voce in gola, ed ella corse verso l’uscio della sua camera.
Cariolin, lo Scossi le si precipitarono dietro per trattenerla; tutti, tranne Cedobonis e Trunfo, si levarono in piedi e attorniarono la Pentoni che piangeva.
– Scemenze! Burattinate! – schizzava Trunfo, dalla tavola.
Gli altri intanto, tutti insieme, esortavano Carolina a far buon animo: – Temeva sul serio che il Cocco Bertolli la costringesse a sposare? Ma via! se lei non voleva! Che storie! Paura? di quel matto? Fracassi? Ma c’era la questura per tenerlo a posto! La promessa in punto di morte? Che promessa! Eh via! L’avrebbe capito, con le buone o con le cattive, che ella gli aveva detto una pietosa bugia… No? Come no?
– Ebbene, – tagliò corto Biagio Speranza, infervorandosi, – sta’ zitta, Carolinona: ti sposo io!
Tutti scoppiarono a ridere.
– Che c’è da ridere? – gridò, serio, Speranza. – Io dico sul serio! Siamo o non siamo cavalieri? Un orco, signori, insidia questa colomba: io la difenderò! La sposo io, vi dico. Chi vuole scommettere?
– Io: mille lire! – propose subito Cariolin. E Biagio Speranza, pronto:
– Fuori le mille lire!
Cedobonis allora si alzò anche lui dalla tavola, dandosi una fregatina alle mani, gongolante:
– Benissimo! Benissimo! Mi volete per depositario, signori?
– Fuori le mille lire! – ripeté con più forza Biagio Speranza.
– Non le ho con me, – disse Cariolin, tastandosi in petto. – Ma, in parola! Qua, la mano. Mille lire, e il pranzo di nozze.
– Le perderai! – raffibbiò Speranza, stringendo la mano di Cariolin. – Voi tutti, Signori, siate testimoni della scommessa: Io sposerò Carolinona. Su, su, zitta, sposina! Rasciuga le lagrime, sorridi… guardami! Non mi vuoi?
Le tolse con affettuosa violenza le mani tozze, paffute, dal volto. La Pentoni sorrise tra le lagrime. Scoppiarono applausi, evviva. Biagio Speranza, infervorandosi vie più, abbracciò la sposa, che si schermiva, ripetendo:
– Per carità, mi lasci stare… mi lasci stare…
– A tavola! a tavola! – gridarono alcuni.
– Gli sposi, accanto! – proposero altri. – Qua, qua! A capo di tavola!
E Biagio Speranza e Carolinona furon portati in trionfo e messi a sedere a fianco.
Il buon Martinelli era trasecolato. Pareva che il naso gli crescesse a vista d’occhio.
– Burattinate! Burattinate! – seguitava a schizzare Trunfo.
– Saresti forse geloso! – gli gridò Biagio Speranza, levandosi in piedi e dando un pugno su la tavola. – Mi farai il santissimo piacere di smetterla! Se voi, Signori, credete che in questo momento io stia scherzando, v’ingannate! Se credete ch’io commetta una pazzia, sposando Carolinona, ho l’onore di dirvi che pazzi siete voi! Io, che conosco la mia vil creta, ho coscienza d’esser tanto savio in questo momento, quanto non sono mai stato in vita mia! Sono un pover’uomo, signori, che per castigo di Dio s’innamora come un asino d’ogni bella donna che vede! Innamorato, divento subito capace delle più madornali sciocchezze. Altro che le bugie di Cariolin! Due volte, signori, due volte sono stato (mi vengono i brividi) in procinto di prender moglie sul serio! Bisogna che mi sottragga al più presto, a ogni costo, a questa tremenda minaccia che mi sovrasta. Mi approfitto di questo momento, in cui per fortuna non sono innamorato, e sposo davvero Carolinona! Lampo di genio, signori! Vera ispirazione del cielo!
Questa dichiarazione di Biagio Speranza fu accolta da una tempesta d’applausi.
– Ma dunque., ma dunque… proprio sul serio: – domandava, beato fra le risa, Cedobonis.
– Si permette di dubitarne, lei? – ribatté Biagio Speranza. – Cariolin! Dove sei? Io ho la tua parola, bada! Mille lire, e il pranzo di nozze. Signori, lasciatemi fare; ci divertiremo!
– Bisogna vedere, – obbiettò lo Scossi, – se Carolinona acconsente. Biagio Speranza si voltò verso la sposa:
– Mi faresti questo torto? a un bel giovane par mio? No, no: vedete? ride la mia sposa, e ride il mondo!… E concluso, signori!
A questo punto Trunfo scattò in piedi, tirandosi rabbiosamente il tovagliolo dal collo:
– Finiamola una buona volta! Mi dà ai nervi codesto insulso, stupido scherzo su una cosa… su una cosa che voi non sapete ciò che voglia dire, perdio!
Seguì un momento d’imbarazzo, al ricordo della disgrazia conjugale di Trunfo. Tutti i volti restarono sospesi nell’atteggiamento di ridere, le risa cessarono d’un subito.
– Scusami, – disse pacatamente Biagio Speranza. – Perché ti ostini a credere che sia uno scherzo questo mio? So meglio di te quale enorme bestialità sia prender moglie, e ripeto che appunto per guardarmi dal commetterla, sposo Carolinona.
– Il ragionamento non potrebbe essere più filato! – osservò Dario Scossi, promovendo di nuovo l’ilarità di tutti. – E me n’appello a Cedobonis, professore di logica.
– Logicissimo! logicissimo! – confermò questi, – il signor Speranza, infatti, sposa per non prender moglie.
– Proprio così! – ribatté Biagio Speranza. – E non si scherza. Perché Carolinona ha paura sul serio del poeta Cocco Bertolli, e io di perder sul serio, un giorno o l’altro, la mia libertà. Sposando, noi ci salviamo a vicenda: lei da quella razza di marito, io da una temuta futura moglie sul serio. Sposati, lei qua per conto suo; io a casa mia, per conto mio: liberissimi entrambi di fare quel che ci parrà e piacerà. In comune, davanti alla legge, solo il nome, che non è neanche un nome proprio, vi faccio notare, signori: – Speranza, nome comune. Non so che farmene, e te lo cedo volentieri. Che ne dici, Carolinona?
– Per me! – fece la Pentoni, sorridendo e stringendosi ne le spalle. – Se non se ne pente…
Nuovi applausi, nuovi evviva, tra alte risa, a Carolinona.
Si seguitò per un buon pezzo ancora a conversare animatamente di quel matrimonio per ridere; si deliberò di celebrarlo però soltanto al Municipio, perché Dio, in chiesa, no, non si doveva offenderlo; si scelsero i testimonii: Cariolin, Martinelli, per la sposa; Cedobonis, Scossi, per lo sposo. Il buon Martino non voleva saperne: gli pareva… sì, dico… di commettere un’irriverenza verso la… sì, dico… santità dell’istituzione.
Ma, alla fine, dovette per forza chinar la testa, o meglio il naso.
Il giorno appresso, tutta la città era piena della notizia strabiliante.
Biagio Speranza, stirandosi con la mano bianca e grassoccia il bel barbone biondo rossastro, rideva negli occhi cernii limpidissimi e, di tratto in tratto, dalla barba si passava la mano, celermente, sotto il naso ardito all’insù, con una mossa che gli era abituale.
Era contentone di quella grossa pazzia, ch’egli stava per commettere.
Pazzia, a giudizio delle oche – intendiamoci! Lui aveva coscienza di far bene. Ci aveva ripensato tutta la notte, e s’era crepato dalle risa.
– Carolinona, mia moglie!
Ah, le oche del paese come le avrebbe intontite per bene, questa volta! E se le voleva godere! Peccato, che sarebbe stato per poco: fra un mese doveva ripartire per Barcellona, e poi da Barcellona per Lione e da Lione per Colonia… Vitaccia! Sempre di qua e di là. Meno male che, per distrarsi – quando gli affari però (questo sì, prima di tutto!) erano ben sistemati e contentati i direttori delle fabbriche di seta che lo mandavano in giro così, come l’Ebreo errante – trovava sempre modo di combinarne qualcuna.
Amici, conoscenti lo fermavano, intanto, per via:
– Di’ un po’, è vero?
– Verissimo. Che cosa?
– Che sposi?
– Ah, sì, Carolinona. Ma non mi pare una cosa seria.
– Per scherzo, dunque?
– No: sposare, sposo davvero. Ma per precauzione, capisci? per guardarmi cioè dal prender moglie, ecco.
– Come! E se sposi intanto?
– Ma sì! Dormire però a casa mia; stare, me ne starò per conto mio. Ci andrò soltanto come ci vado adesso, per desinare. Né dovrò darle nulla, tranne, al solito, le rate della pensione. Dunque?
– E il nome?
– Ma, se lei lo vuole, perché no? Non mi pare una cosa seria… E li piantava lì, allocchiti, in mezzo alla strada.
S’era dato convegno con Dario Scossi alla Pensione per sbrigare insieme le carte di Carolinona e recarsi quindi al Municipio per la denunzia.
Alla Pensione, oltre lo Scossi, trovò il timorato Martinelli, che era venuto apposta, prima di tutti, per sconsigliare alla Pentoni di prestarsi a quello scandalo enorme.
– Ma lei ci crede: – gli aveva risposto la Pentoni, con un mesto sorriso. – Son giovanotti allegri; li lasci fare! Hanno scherzato; a quest’ora non ci pensano più. Io, invece, non ho potuto chiuder occhio tutta stanotte, pensando a quell’altro lì, all’ospedale… Ah, che m’ha fatto fare, signor Martino, che m’ha fatto fare… Non me ne posso dar pace.
Al sopraggiungere dello Scossi, era rimasta interdetta:
– Ma come! davvero? ancora?
Biagio Speranza la trovò ostinata nel rifiuto.
– Oh, non facciamo storie! – le disse egli. – Vuoi farmi perdere le mille lire della scommessa?
– Ma che mille lire, via! La smetta, signor Biagio.
– Come! – riprese questi. – Non eravamo rimasti d’accordo jersera? Te ne sei pentita? Non hai più paura, dunque, del Cocco Bertolli? Bada che quello vorrà sposarti sul serio, poi!
– E lei per ischerzo, ora? – domandò la Pentoni sorridendo.
– No. Io te l’ho detto il perché…
E prese di nuovo a porre i patti e a rilevare i vantaggi reciproci di quel loro matrimonio, serio e burlesco al tempo stesso.
– Tranne che tu, – concluse, – non abbia ancora qualche velleità, Carolinona!
– Io? – fece questa, mettendosi a ridere di nuovo.
– E dunque? – incalzò Biagio. – Perché t’opponi?
– Via, via! – esclamò la Pentoni. – Dice sul serio, signor Speranza? Le pare che sieno cose, codeste, da fare per ischerzo?
– Cose serie, – riprese con forza Biagio, – per me nella vita non ce ne sono: tranne quelle sole (che possono essere anche ridicolissime), alle quali però tu dia importanza. Il naso di Martino, per esempio. Cosa ridicolissima, quant’altra mai! Eppure, per lui, infelicità seria. Perché? Perché lui gli dà importanza.
– Io? – esclamò il Martinelli, coprendoselo con una mano. – Ma nient’affatto!
– E allora, scusi, – rimbeccò Biagio, – perché è venuto a cacciarlo in un affare che non le riguarda? Si faccia gli affari suoi! Noi, Carolinona, a questo matrimonio non dobbiamo dare importanza, è vero? E dunque per noi non è una cosa seria.
– Ora, sì! – osservò la Pentoni. – Ma se poi lei se ne pente?
– Ma senza dubbio me ne pentirò! – concesse Biagio. – Giusto però quando mi avverrà di pentirmene, ne risentirò il vantaggio. Capisci? Se lo faccio per questo!
– E io ci andrò di mezzo?
– Tu, no! Perché? Me la piglierei con me, se mai! Che c’entri tu, se non vuoi?
– Lo capisce anche lei, dunque? – disse, per concludere, la Pentoni. – Se mi oppongo, non è certo per me. Che vuole che ci perda io? Ho tutto da guadagnare e nulla da perdere. Mentre lei…
– A me, non ci pensare! – troncò Biagio Speranza. – So quello che faccio. Su, andiamo, Scossi: s’è fatto tardi. Ma già, prima, rispondi, Carolinona: – Nome (lo so!) – paternità – anni – luogo di nascita – stato: se sei nubile o vedova o niente: non c’è bisogno che mi dica la verità, su questo punto. Ma gli anni, sì, precisi: mi raccomando.
– Trentacinque, – rispose Carolinona.
– Va’ là! – esclamò Biagio, scrollando le spalle. – Non cominciare!
– Trentacinque, gliel’assicuro: son nata nel 1865 a Caserta.
– Perbacco! Sei dunque tenera ancora? Oh cara! Non si direbbe però. E… dunque, diciamo nubile?
– Nubilissima! Sissignore.
– Ti credo. Scriveremo allora a Caserta per l’atto di nascita. Via, Scossi! Di corsa al Municipio, per la denunzia.
*******
III. Due ragioni affrettarono principalmente quelle nozze memorabili: la prima, che Giannantonio Cocco Bertolli uscisse, guarito, dall’ospedale; la seconda, che Biagio Speranza s’innamorasse nel frattempo, secondo il solito suo, di qualche provocante donnina. In quei giorni egli, per sfuggire ogni tentazione, camminava per la via con gli occhi verso terra o col naso per aria.
Ma la Pentoni avrebbe voluto almeno aver tempo d’allestirsi un abito nuovo, per la cerimonia. Bianco? – No, che bianco! – Modesto, per l’età sua… ma nuovo. Poteva andar così al Municipio?
– E che te ne importa? – le aveva domandato Biagio.
– Nulla a me, capirà. Ma per lei, signor Speranza. Che diranno?
– Lascia cantare! Che vuoi che me ne importi? Vestiti come ti pare. Non vorrei che tu buttassi via quattrini inutilmente.
No: Carolinona si volle far l’abito nuovo, massime quando seppe che Cariolin, lo Scossi e Cedobonis avrebbero indossato solennemente la marsina. Che pena, intanto, le costò la scelta di quell’abito! Quantunque, sì, da tanto tempo rimessa e rassegnata alla sua sorte, si sentiva quel giorno il cuore stretto da un’angoscia strana, che le suscitava, alle labbra, quasi un prurito di riso e, agli occhi, un prurito di pianto.
Pur senza voler dar peso a quella buffonata, l’idea soltanto, anzi la parola «matrimonio» le risvegliava istintivamente, nel corpo rilassato, un certo sentimento della propria feminilità; non però con tanto vigore che l’amor proprio si ribellasse a quella parte che le si voleva far rappresentare: ma tanto tuttavia da fargliene sentir l’amarezza, quasi di scherno. Così, infatti, così per ridere, le toccava di sposare! E lei ne rideva con gli altri e più degli altri. Bah!
Se avesse potuto indovinare il gusto di lui, per il colore della stoffa! Voleva un colore modesto, che non desse tanto all’occhio: – Cenere? Avana? –. Alla fine, dopo lunga indecisione, per non stancare troppo il mercante che già le domandava per che cosa quell’abito le dovesse servire, prese nell’imbarazzo una stoffa color petto di tortora. Se ne pentì, appena uscita dalla bottega.
– Mi starà male! proprio male!
Poco dopo, alzò una spalla, chiudendo gli occhi amaramente: – Non la avrebbe neanche guardata, lui!
Venuto il giorno delle nozze, prima che il corteo si avviasse al Municipio, Biagio Speranza dichiarò che non voleva prendersi le mille lire della scommessa: non voleva che si dicesse che da quel matrimonio gli era venuto denaro in tasca. Cariolin, dunque, ne facesse un regalo di suo gusto alla sposa.
La Pentoni si oppose. Non voleva nulla, neanco lei. Ma tutti protestarono, e Cariolin, per cui le mille lire erano perdute e che, trovandosi in ballo, voleva ballare, protestò più forte degli altri:
– No no! Ci penso io! Ho già trovato; vedrai, signora Speranza: un regalo coi fiocchi, e utilissimo! Lasciatemi fare!
Era, come aveva promesso, in marsina, il minuscolo Cariolin, e con un elegantissimo panciotto di velluto nero. In marsina era anche lo Scossi. Cedobonis, all’ultima ora, si era però ricordato d’esser professore di filosofia e di pedagogia, ed era venuto in abito lungo. Il più misero di tutti era il buon Martinelli con quel farsetto lustro, i calzoni chiari e la cravattina bianca ingiallita. Il solo Trunfo mancava alla festa.
Ma per quanto il salotto da pranzo fosse tutto parato dei fiori mandati in dono dai commensali della Pensione, e la lunga tavola, in mezzo, splendidamente apparecchiata da due camerieri d’albergo, assoldati per l’avvenimento da Cariolin, a cui spettava anche di pagare il pranzo di nozze, l’allegria che ciascuno si era ripromessa per quel gran giorno non riusciva ad avvivarsi. Le risa erano sforzate: si rideva perché ciascuno aveva pensato di dover tanto ridere in quella giornata, ma non se ne vedeva più, veramente la ragione. Quella Carolinona – possibile? – era andata a scegliersi una stoffa d’un colore inverosimile, per l’abito di nozze! E perché poi Biagio Speranza non aveva indossato anche lui la marsina? Perbacco! Le cose si fanno o non si fanno.
Biagio Speranza si sentiva come una vellicazione irritante al ventre, udendo specialmente le scempiaggini di Cariolin che voleva vendicarsi così – pensava lui – di quei pochi quattrinucci perduti, chiamando già Signora Speranza Carolinona. Per non dargliela vinta, si sforzava di mostrarsi allegro anche lui; ma doveva internamente confessare a se stesso d’essersi divertito molto di più nei preparativi di quel matrimonio. Cercava ora di uscirne al più presto possibile, per non pensarci più, per pensare ad altro, oramai.
– Su, su via! Sbrighiamoci!
– Aspettino un momento! – disse Carolinona, già col cappellino in capo. – Vorrei prima dare un’occhiata in cucina…
Si levò un urlo d’orrore, a questo pensiero da saggia massaja, espresso ingenuamente, giusto in quel momento. Cariolin si precipitò innanzi a tutti e, con un grazioso inchino da conquistatore d’arciduchesse d’Austria, offrì il braccio alla sposa.
Gran folla di curiosi era al Municipio, per assistere a quel matrimonio ormai famoso. Lo stesso ufficiale dello Stato Civile frenava a stento le risa. Ma più che lo sposo e la sposa, attirava gli sguardi della gente uno dei testimonii, o meglio, il naso di lui. Come cascato dalle nuvole, il buon Martinelli! E nessuno riusciva ad intendere come, perché si trovasse lì, fra tutti que’ matti, un pover’uomo di quella fatta, così intontito, con gli occhi lappoleggianti e la bocca aperta.
Terminata la cerimonia, Cariolin scappò via per il dono, pregando che lo si aspettasse un tantino prima di portare in tavola. Volle assolutamente serbare il segreto.
A tavola l’allegria si destò. Biagio Speranza, che vedeva ormai la fine di quel carnevale, si mostrò galante con la sposa. Il pranzo era prelibato, finissimo, abbondante. Allo sciampagna, cominciarono i brindisi. Ce ne furono per tutti e d’ogni colore. Uno fra gli altri, di Dario Scossi alla moglie lontana del Martinelli, riuscì proprio maluccio: fece piangere Martino, che aveva insolitamente cacciato un po’ troppo il nasone entro il bicchiere. Ma subito Cariolin tolse a pretesto quelle onestissime lagrime per presentare come insigne esempio e specchio di fedeltà conjugale la coppia Martinelli ai nuovi sposi.
Erano ancora a tavola, quando arrivò il tanto atteso dono di Cariolin.
– Ci sono di là alcuni facchini, – venne ad annunziare uno dei camerieri. Spiritarono tutti.
– I facchini: – Dunque il regalo era venuto col carro?
– E che regalo era dunque?
Si levarono e accorsero a tempesta nella saletta d’ingresso.
Un magnifico letto matrimoniale, di legno intarsiato, fornito di tutto punto.
Biagio Speranza restò male.
– Peccato! – esclamò Carolinona, battendo le mani, dolente per quelle mille lire sprecate così.
Ma gli altri intanto applaudivano alla splendida idea di Cariolin, il quale gridava raggiante in mezzo a tutti.
– Perché, o signori, il matrimonio si deve consumare! si deve consumare!
– Oh basta così! – esclamò Biagio Speranza, seccato, facendosi avanti. – Senza tanti scherzi! Ci siamo fin qui divertiti, e io sono stato con voi. Non caschiamo nel tragico, adesso, amici miei! Finiamola. Mi fate accapponar la pelle! Pensiamo ad altro, e non se ne parli più.
– Ma niente affatto! – incalzò Cariolin. – Il meglio viene adesso, caro mio. Ah, tu credevi di cavartela così? Signori, ajutatemi a mettere a posto questo letto!
Carolinona s’interpose, dolente, mortificata:
– Dove vuol metterlo, signor Cariolin?
– Come! Nella tua camera da letto.
– Ma non c’entra, scusi! E poi che vuole che me ne faccia?
– Lo domandate a me: – gridò Momo Cariolin, promovendo un nuovo scoppio di risa.
– Ma si stia quieto! – rispose Carolinona. – Mi dispiace davvero che lei abbia speso, senza ragione, tanto denaro. Provi, tenti subito, se il negoziante se lo riprende. È un vero peccato! O provi a rivenderlo.
– Ma nient’affatto! – ripetè con più forza Cariolin, testardo, fanatico della sua trovata. – Vedrai, se ti servirà! Perché, tanto, egli è tuo marito, e c’è poco da dire; tu sei sua moglie: come vuoi che resista ai vezzi tuoi?
Queste ultime parole suscitarono un’altra salva d’applausi, tra grida scomposte. I pezzi del letto furon presi d’assalto e portati nella camera di Carolinona. Fu d’un subito disfatto il lettino, dov’ella dormiva, e messo su a quel posto il nuovo letto: il talamo.
Rideva ella, poverina, nel vedere quegli uomini inesperti affaticarsi in tanti a buttar prima le materasse sul saccone metallico e poi a sprimacciarle, e a distendervi il primo lenzuolo e poi il secondo ricamato, e poi a cacciare i guanciali entro le federette e a coprire infine il letto con la splendida coltre di seta.
– Ecco fatto! Ecco fatto! Tutti sudati.
Ma dov’era Biagio Speranza? Ah, birbone! Se l’era svignata, zitto zitto.
– Vedono? – disse, afflitta, Carolinona. – Se seguitano a far così, non lo faranno più venire.
Quelli allora la confortarono, la consolarono a coro; e invano ella protestava che le premeva soltanto di non perdere il cliente. Ma che! il cliente soltanto?
– Sta’ pur sicura! – concluse Cariolin. – Aspettalo! Te lo vedrai apparire più tardi, a notte avanzata.
– Buona notte, sposina! Buona notte!
E, così ossequiata e complimentata la sposa, andarono via rumorosamente.
Era già sera chiusa. Carolinona, per quanto stanca di quella giornata tumultuosa, dovette tuttavia attendere parecchie ore a rimettere in ordine la casa. Finalmente, licenziati i camerieri e il cuoco, mandata a letto la serva, si ritirò in camera. – E il letto? – Oh guarda! Si era dimenticata di far rimettere su il suo lettino.
– Che matti! che matti!
Lì, certo, su quel letto matrimoniale, ella non si sarebbe messa a dormire. Si accostò per contemplarlo da vicino, e passò prima, lievemente, una mano su la coperta rosea, di seta: ma su quel rosa tenero, morbidissimo, notò a un tratto il nero della sua mano tozza, sconciata dai ruvidi lavori, con le unghie piatte, corte, e istintivamente la ritrasse, mormorando di nuovo:
– Peccato!
Si protese un po’ a guardare il ricamo del lenzuolo, ma già non notava più la bellezza del letto, pensava a sé, pensava che, se lei fosse stata bella, quel matrimonio così per ridere non sarebbe avvenuto. Anche perché, se bella, chi sa da quanto tempo avrebbe avuto marito… Eppure, a volerla dire, quante sue amiche d’altri anni, certo non più belle di lei, avevano sposato, avevano una casa ora, uno stato; mentre lei… così per ridere! sposata, per non esser moglie…
– Sorte!
E, per giunta, lo scherno di quel letto lì, così bello, che aveva suscitato un così vivo ribrezzo, anzi orrore, orrore in lui: – Mi fate accapponar la pelle! -Eh via… bella, no: lo capiva da sé; e poi, rifinita, debellata dalla vitaccia crudele; matrimonio fatto per scherzo, d’accordo, sì… ma era poi, veramente, tanto tanto tanto brutta lei, da suscitare tutto quel ribrezzo, tutto quell’orrore? Eh via! non era neanche vecchia, in fin de’ conti! – Non per lusingarsi (non ci pensava nemmeno!); ma troppo, ecco, troppo… E, alla fin fine, era una donna onesta, lei, illibata, non ostante tutte le calunnie. Questo, intanto, sarebbe stato bene metterlo in chiaro. Non per nulla, ma perché egli almeno non credesse d’aver buttato il suo nome nel fango. Si regolasse poi come credeva: a lei non importava affatto di tutto il resto: le premeva soltanto che la sapesse pura, pura come quando era uscita dal grembo di sua madre, ecco. E basta.
Si scosse; si guardò attorno: vide in un angolo, arrotolate, le materasse del suo lettino; la lettiera di ferro, accostata al muro. Restò un pezzo perplessa se chiamare o no la serva per farsi ajutare; ebbe compassione di quella poveretta che, a quell’ora, forse dormiva, stanca della fatica straordinaria della giornata. Che fare? Si mosse verso l’angolo ove stavano le materasse; ma, passando innanzi allo specchio dell’armadio, intravide la propria immagine, e si fermò. Dallattento esame di se stessa nello specchio (quantunque ella, mentendo di fronte alla propria coscienza, credesse di contemplar soltanto l’abito nuovo, che, allestito in fretta, le stava tanto male), le nacque una vivissima stizza per l’impiccio del lettino da rifare. – No, niente! Avrebbe dormito lì, su la poltrona. Tanto peggio per lei che, all’età sua, per far divertire gli altri, s’era prestata a commettere una tale pazzia, esponendosi così al ridicolo, al dileggio.
Subito dopo, però, il bisogno istintivo di scusarsi innanzi a se stessa, le pose avanti la ragione per cui vi si era lasciata indurre: la paura cioè di quell’altro matto da catena, che voleva diventare per forza suo marito; la promessa pietosa ch’ella s’era lasciata sfuggire lì, all’ospedale, quel giorno, per aver dato ascolto a quell’imbecille di Martinelli.
«Bah!», pensò. «Mi servirà almeno per questo. E quando quel matto furioso uscirà dall’ospedale, egli (mio marito!) mi difenderà, riconoscendo la ragione per cui mi son prestata a far la buffona. Dovrà pur venire e dovrà pur dirglielo che io sono, almeno per finta, la sua legittima moglie.»
Prese a sbottonarsi il busto. A un tratto s’arrestò, dicendo a se stessa che era inutile, se doveva dormir seduta sulla poltrona. Altra bugia, questa, messa avanti per impedirsi di assumer coscienza di una speranza sciocca, cui sapeva di non potere neanche per sogno accogliere. E tuttavia, spento il lume, seduta ormai su la poltrona, ella intendeva l’orecchio – senza saperlo, senza volerlo – nel silenzio della strada sottostante.
Dov’era egli a quell’ora? Forse in qualche Caffè, con gli amici. E immaginò la sala d’un Caffè, illuminata, e li vide tutti – quelli della sua Pensione – lì, intorno ai tavolini, e vide lui che rideva, rideva e teneva testa ai motteggi. Certo il suo nome era su la bocca di tutti, deriso… Che gliene importava? Ella aspettava che quella riunione chiassosa finisse, per veder lui solo.
Dove sarebbe andato? A casa? o forse… Forse sarebbe andato a trovare qualche altra donna…
Restò, a questa supposizione, come innanzi a un vuoto inatteso, imprevisto. Ma sì! ma sì! Non era egli libero del tutto?
E lei qua, intanto, su la poltrona, con lo splendido letto accanto – oh pazza! oh sciocca! – E non riusciva a prender sonno.
*******
IV. No: Biagio Speranza non era andato al Caffè, come Carolinona aveva fantasticato.
Indispettito dall’insulsaggine degli amici, egli si era ritirato a casa, col fermo proponimento di partire il giorno appresso per Barcellona, e farla finita.
S’era messo a preparare l’occorrente per il viaggio, quando pensò che gli mancava il denaro per quella partenza anticipata. E allora, di fronte a questa difficoltà materiale, convenne che, in fine, non era degna di lui la fuga. La aveva fatta proprio grossa; s’era lasciato spingere un po’ troppo oltre dal suo spiritaccio bislacco e, abbagliato da quel lampo di pazzia o di genio (tutt’uno!), non aveva pensato alle conseguenze, cioè alla somaraggine degli amici. Ora, a questa somaraggine egli doveva pur concedere un po’ di sfogo, che diamine! e sopportare in pace, con pazienza, i ragli per alcuni giorni. Si sarebbero stancati alla fine, e l’avrebbero smessa. Sì, sì; aveva fatto proprio male a indispettirsi, ad andarsene così di nascosto. E non doveva poi abbandonare alle ire del Cocco Bertolli quella povera donna che non c’entrava né punto né poco, che sarebbe stata ai patti convenuti e non lo avrebbe mai molestato né infastidito; ne era sicuro!
«Povera Carolinona!», pensò, sorridendo. «Con che faccia pronunziò quel sì… Pareva che con gli occhi volesse soggiungere all’ufficiale dello Stato Civile: “Veda un po’ Lei che valore può avere… A me, in verità, non pare che ci si possa scherzare; ma questi giovanotti han creduto che non ci fosse nulla di male, ed eccomi qua, per contentarli. Che altro debbo fare? Scrivere, anche? Firmare?”. Povera Carolinona! Guardò la penna, come per dire: “Ma proprio proprio firmare?”. Poi guardò me, indecisa. M’è venuto di ridere e le ho indicato il posto dove doveva apporre la firma. Che raspatura di gallina, poveretta! E quella predica, poi, dell’assessore! E tutti quegli articoli del contratto matrimoniale… «La moglie deve seguire il marito…». – Sì, a Barcellona! A cavallo d’una scopa! Ma il fatto è, intanto, che mentre io andrò in giro per mezza Europa, lei resterà qua mia moglie, sempre, fin che campa. Passerà un anno, ne passeranno due, tre, diventerà vecchia: sempre mia moglie. Questo è l’inconveniente dello scherzo. Mah! Non ci penserà più, poverina, di qui a poco. Bisognerà fare in modo che non ci pensino più neanche gli altri. Se mi seccano troppo mi risolverò di cambiar residenza; tanto, sono uccello senza nido, e buona notte, sonatori.»
Si mise a letto e non tardò ad addormentarsi. Non avendo però ajutato con un po’ di moto la digestione del lauto pranzo, dormì male.
Brutti sogni! Carolinona non voleva più sentir ragione: era moglie, sì o no? e dunque voleva far valere tutti i suoi diritti, pronta, prontissima a sottostare a tutti i doveri. Lo prendeva per un braccio, non intendeva di lasciarlo più. Ma come! e i patti? se era uno scherzo! – Scherzo? – Ella aveva firmato davvero. E perciò lì! egli doveva star lì, con lei! – Infamia! tradimento! – Tutte le porte chiuse? – Calci, spintoni, pugni a tutte le porte. Invano! Ah, che dolore, che rabbia, che angoscia… Dietro quelle porte chiuse, asserragliate, ridevano gli amici, a crepapelle: Cariolin, lo Scossi, Cedobonis e finanche il Martinelli. Trunfo sghignava. Congiura infame! Lo volevano dunque morto? No, no, anche a costo di morire, no: egli non si sarebbe arreso a dormire su quel letto. Ah, lo prendevano di forza? ve lo legavano? Vigliacchi! in tanti contro uno! Piano, piano… Lì, alla gola, no… Ah, lo soffocavano…
Balzò a sedere sul letto, col cuore che gli batteva in tumulto.
– Maledetti!… Che sogno! Via, via…
Trasse un sospiro di sollievo e si ricompose a dormire, dall’altra parte.
Poco dopo era a Barcellona, in sogno. Ma l’amica ch’egli andava ogni volta a trovare – che è, che non è – gli si cangiava tra le braccia in Carolinona.
Si alzò tardi e di pessimo umore. Lavandosi e poi guardandosi allo specchio la brutta cera, si mise a riflettere sui casi suoi. Comprendeva che le sue stesse condizioni d’esistenza erano come tante vele spiegate che portavano di qua e di là la barca della sua vitaccia spersa, senza concederle mai riposo in un porto sicuro: la barca era ancora ben solida: ma certo non sarebbe più così tra breve; era dunque necessario che almeno il suo spirito bislacco non rappresentasse più oltre il vento furioso che investiva quelle vele già vagabonde per necessità.
Fuori di metafora: – giudizio, Biagio!
Sarebbe andato quel giorno alla Pensione e, col suo contegno, avrebbe fatto capire a gli amici che era tempo di finirla.
Prima di lui arrivarono alla Pensione, quella sera, tutti gli altri commensali, compreso Trunfo:
– Ebbene? – domandò, per prima cosa, Cariolin. – È tornato? È venuto?
– Ah giusto! – aggiunse Cedobonis. – Ci ragguagli, ci ragguagli…
– E non vedete? – esclamò lo Scossi, additando Carolinona:
È languida la rosa
Che il zeffiro notturno accarezzò…
– Zitti, via, zitti! – disse la Pentoni, scrollando le spalle. – Mi hanno disfatto il lettino, e ho dovuto passar la notte su una poltrona…
– E non c’era il letto? – fece Cariolin. – Va’ là, va’ là! tu vuoi darcela a bere, sposina, d’accordo con lui…
Sopravvenne Biagio Speranza, e fu assalito di domande anche lui.
– Ma certo! ma si sa! ma come no! – cominciò egli a rispondere, con faccia tosta. – Hai avuto il coraggio di negare, tu, Carolina? Non le date retta, amici. Sposina fresca, si vergogna. Quando son venuto? A mezzanotte in punto. L’ora delle fantasime. Il portone era chiuso e lei, proprio lei che nega, mi ha buttato la chiave dalla finestra! perché negarlo, moglie mia! Dobbiamo dare questa soddisfazione a gli amici che s’interessano tanto della nostra felicità conjugale. E questa sera mi vedrete anzi rimanere qua, al mio posto, da padrone di casa; e spero che basterà e d’ora in poi mi lascerete godere in pace le gioje del talamo. Va bene così?
Prese posto accanto a Carolinona; ostentò, durante il pasto, tra le risa generali, tutte quelle premure, que’ lezii da scimmiotto innamorato che uno sposino novello suol fare alla sposina; a chi gli domandò che nome avrebbero messo al primo figliuolo, rispose che lo avrebbero chiamato Sperammo o Speranzina se femmina; e così via. Carolinona lasciava dire, lasciava fare e rideva anche lei.
A un certo punto Trunfo, truce, domandò a Biagio Speranza:
– Mi permette Lei di seguitare a rivedere qua le mie carte?
– Senti, senti! – esclamò Cariolin. – Gli dà del lei, adesso!
– Ma certo, – approvò lo Scossi. – Tu non capisci nulla! Biagio è marito, ormai. E il maestro rispetta in lui l’autorità maritale.
– Io posso anche andarmene altrove, – soggiunse Trunfo. – Questa sera stessa, anzi, raccoglierò le mie carte…
– Ma no! – s’affrettò a rassicurarlo Biagio Speranza. – Lei, caro maestro (se non debbo più darle del tu), lei è padrone di fare il comodo suo di giorno e di notte. Che c’entra! Questo è matrimonio allegro. Lei vuol farne per forza una tragedia; ma sappia che io non sono affatto geloso. Libero, libero, caro maestro, di fare quello che le parrà e piacerà. Dico bene, Carolinona?
– Il signor maestro, – disse questa, un po’ mortificata, – non mi ha recato mai alcun fastidio.
– E allora, va bene, – concluse Trunfo, scattando in piedi.
Fece un breve, rapido inchino, con le mani appoggiate alla spalliera della sedia, e andò via, intozzato dalla bile.
– Amici miei, – ammonì, poco dopo, Biagio Speranza, – nell’interesse di mia moglie, vi consiglio di smettere se non volete farle perdere un cliente. Lo scherzo è bello, ma non deve poi nuocere alla tasca…
– Oh, intanto tu, senza scherzo, – raffermò Cariolin, levandosi di tavola insieme con gli altri, – mantieni la tua promessa e non prendere questa scusa. Noi ce n’andiamo e vi auguriamo felicissima notte.
– Io – aggiunse lo Scossi, – rimarrò con Cedobonis davanti il portone a far la guardia: e puoi star sicuro che non ti faremo scappare per tutta la notte.
– State pur sicuri vojaltri che non scapperò! – rispose Biagio Speranza, accompagnando i commensali fino alla porta.
Carolinona cominciò a sentirsi su le spine, non comprendendo che cosa veramente volesse fare quel matto.
– Che scimuniti, eh? – le disse Biagio, rientrando nel salotto da pranzo. – E son capaci di aspettare davvero su la strada, sai?
Carolinona si provò a sorridere e a guardarlo, ma abbassò subito gli occhi.
– Sai che è buffa davvero la nostra situazione? – riprese Biagio scoppiando in una sonora risata. – Ma bisogna far così, per aver pace. O non la smetteranno più… Aspetterò una mezz’oretta, abbi pazienza.
– Per me, si figuri… – disse la Pentoni, senza levar gli occhi, piano. Biagio Speranza la guardò. Era tranquillissimo, lui, e credeva che dovesse
anche lei esser così. Notando però l’imbarazzo di Carolinona, scoppiò di nuovo a ridere.
Ferita da quella risata, ella alzò gli occhi e, cercando di nascondere alla meglio la stizza amara sotto un sorriso, disse:
– È stata una pazzia imperdonabile, creda pure… Lei stesso se ne accorge, ora? Non avrei dovuto lasciargliela fare…
– Ma no! – esclamò Speranza. – Sta’ tranquilla! Passerà…
– Intanto, lei dovrebbe intenderlo; – riprese ella, – mi secca… sì, ecco… che in questo momento la gente supponga…
– E che male c’è? – domandò ridendo Biagio. – Non sei mia moglie? Io non posso comprometterti, mi pare. Mi comprometto io, scusami, se mai.
– Lei è uomo e sanno tutti che fa per ridere, – disse seria la Pentoni. – Quantunque, se debbo dirle la verità, io non riesco più a vedere che scherzo sia, arrivato a questo punto… Ridono tutti di lei e di me…
– E ridiamo anche noi! – concluse Biagio. – Perché no?
– Perché io non posso, – rispose pronta Carolinona. Capirà bene, scusi, che non può farmi piacere, che lei, per troncare uno scherzo che comincia a seccarle, sia costretto a farmi rappresentare una parte che non mi va…
– Come! – esclamò Biagio. – La parte di moglie? Dovresti ringraziarmi, perbacco.
Carolinona s’infiammò:
– Ringraziarla, scusi, anche delle parole che lei ha detto al maestro Trunfo sul conto mio? Moglie per ridere, capisco: ma poiché lei ha commesso la bestialità di darmi davvero il suo nome davanti alla legge, mi pare, non so, che lei dovrebbe, almeno almeno, mostrare di non credere a certe calunnie e non scherzarci su… Perché sono calunnie, sa! vilissime calunnie… Io mi son fatta sempre gli affari miei. Povera, sì, ma onesta, onesta! È bene che lei lo sappia. E può star tranquillo, su questo punto…
– Ma tranquillissimo, figurati! – la rassicurò Biagio, senz’alcuna convinzione.
– Dice proprio sul serio? – ribatté la Pentoni, guardandolo fermamente. Biagio la guardò a sua volta; poi si lasciò cader le braccia ed esclamò:
– Mi spavento, Carolinona! Non ti credevo capace di dir la verità con tanta asseveranza e tanto calore. Ti credo, ti credo… ma lasciami vedere dalla finestra se sono andati via quei seccatori, e finiamola subito.
Si recò alla finestra, guardò giù nella via.
– Nessuno, – disse, ritirandosi. – Mi dispiace che lo scherzo sia finito proprio male. Le cose lunghe, si sa, diventano serpi. Basta: la sciocchezza è fatta, e non ci si pensi più. Addio, eh?
Le porse la mano. La Pentoni, esitante, gli porse la sua, tozza e nera, mormorando:
– A rivederla.
Appena sola, tutta vibrante dalla commozione, corse a chiudersi in camera e scoppiò in un pianto dirotto.
Biagio Speranza, fatti pochi passi, spiando nell’ombra della piazzetta innanzi al portone, invece dello Scossi e del Cedobonis, intravide il signor Martinelli che si stropicciava le mani, dal freddo. Restò senza fiato il buon uomo nel sentirsi chiamare e poi batter forte una mano su la spalla.
– Che fa qui lei, bel tomo? Dica un po’, stava forse ad aspettare che io me ne andassi, per…?
– Dio me ne guardi ! Che dice mai, signor Speranza? – balbettò così tremante il Martinelli, che Biagio non poté tenersi dal ridere. – Stavo… stavo per andarmene…
– E intanto era qua! – rispose Biagio ricomponendosi e simulando severità. Gli passò una mano sotto il braccio, e aggiunse, avviandosi: – Su, andiamo, e mi spieghi…
– Ma sissignore… – s’affrettò a rispondergli, impacciatissimo, il Martinelli. – Le confesso… giacché lei ha potuto… sì, dico… sospettare (Dio me ne guardi!), le confesso che m’ero trattenuto, non tanto per curiosità, quanto per… sì, dico… congratularmi meco stesso che lei finalmente riconoscesse la… la… la santità del vincolo, perché…
– E debbo proprio crederci? – lo interruppe, fermandosi, Biagio. – Non sono proprio un marito ingannato? Lei se ne stava lì, all’ombra, come un vil seduttore, non può negarlo.
– Ma non lo dica neanche per ischerzo! – esclamò con gli occhi al cielo e forzandosi a sorridere, il signor Martino. – All’età mia, scusi? E poi quella là… un’onestissima donna, glielo giuro! Ma già lei non ha bisogno che glielo dica io… È stata sempre tanto… tanto buona con me, mi ha sempre confidato… sì, dico., tante cose, poverina… Ed io perciò stavo lì, creda, a felicitarmi… che…
– Con permesso, scusi! A rivederla! – lo interruppe di nuovo Biagio Speranza, ritraendo in fretta il braccio e accorrendo verso una donnina capricciosamente abbigliata, che usciva in quel momento da un Caffè.
Martino Martinelli rimase lì piantato in mezzo alla strada; si portò istintivamente una mano al cappello, poi seguì un tratto con gli occhi quella coppia che s’allontanava ridendo sonoramente, forse di lui, forse della Pentoni, e tentennò il capo, addolorato, ferito…
*******
V. Né la sera appresso, né le altre seguenti Biagio Speranza venne alla Pensione.
Momo Cariolin e Dario Scossi smisero, fin dalla prima sera, di tormentare Carolinona, che parlò, alla fine, un po’ fuor de’ denti. Trunfo volle prendersi la rivincita, ricordando com’egli li avesse bene ammoniti di non scherzare stupidamente su una cosa che non comportava scherzi. Cedobonis non si dava pace pensando che con quel matrimonio si era celebrato il «funerale dell’allegria», e per parecchie sere ripeté questa frase che gli pareva molto bella. Egli solo, con la sua ostinazione da calabrese, seguitava, nonostante le preghiere di Carolinona, a soffiare, a soffiare perché il fuoco si ravvivasse e scoppiettassero ancora i bei frizzi salaci d’una volta, e diceva per esempio che non solo Carolinona ma anche la tavola era vedova, senza Biagio Speranza. Nessuno però gli badava, ed egli si consolava in qualche modo pensando che quello scherzo madornale non poteva finir lì, che una ripresa sarebbe stata inevitabile, comunque fosse, per la prossima uscita del Cocco Bertolli dall’ospedale.
Trunfo, intanto, che aveva ripreso le sue abitudini, tra una nota e l’altra della sua opera fischiata, istigava nascostamente Carolinona a vendicarsi:
– Lo punisca esemplarmente, quel buffone. Lo prenda nella sua stessa ragna! Lei ha commesso l’insigne bestialità di prestarsi a una siffatta buffonata e, creda, non avrà più pace. Bene: non ne abbia più nemmeno lui!
A queste maligne esortazioni, la Pentoni sentiva riaccendersi in cuore il dispetto. Vampava in lei il desiderio della vendetta; ma, poco dopo, come se quella vampata diventasse a un tratto fumo, fumo denso e lento, ella, soffocata, si nascondeva la faccia con le mani, poi scoteva amaramente il capo.
– Vendicarmi? Come?
– Lo domanda a me? – le rispondeva Trunfo. – Faccia valere i suoi diritti. A una donna non mancano i mezzi.
Ma ella non sapeva veramente riconoscersi alcun diritto, né vedeva alcun mezzo, per quanto si sforzasse d’escogitarne; e, alla fine, domandava a se stessa:
«Ma poi, vendicarmi di che?».
I patti, egli, li aveva posti chiari, avanti. Erano sì ingiuriosi anzi schernevoli per lei; ma non li aveva ella accettati? Dunque, zitta. E se non poteva, perché improvvisamente e senz’alcun sospetto le era nato in cuore un sentimento non mai finora provato e che ella stessa non riusciva ancora a spiegarsi, ma da cui pur si sentiva rosa e torturata senza requie, – che colpa ci aveva lui? Una sola offesa le aveva fatto: quella di non voler credere (come tutti gli altri, del resto) alla sua onestà. Qual vendetta per una tale offesa? Una sola, forse, se ella se ne fosse sentita capace: tradirlo, ingannarlo davvero… Ma che! no! Pendeva piuttosto verso il Martinelli che le consigliava di prenderlo con le buone, d’intenerirlo.
– Voglia incomodarsi fino alla casa di lui, procuri di vederlo e… sì, dico… lo persuada almeno a tornare a desinare da lei… Poi, con la frequenza, a poco a poco, sì, dico… chi sa!
Carolinona lo lasciava dire, fingendo di non prestargli ascolto, poiché provava un gran conforto alle buone parole di lui, e non voleva mostrarlo. In fine, come scotendosi da un sogno, gli rispondeva:
– Ma no, signor Martino! Crede proprio che mi convenga? Prima di tutto, chi sa come mi accoglierebbe: ha tanta paura del ridicolo… E poi, del resto, sarebbe inutile. La mia insistenza potrebbe fargli sospettare in me… non so, un pensiero che non c’è…
– Ebbene, gli scriva allora! – le consigliò infine il Martinelli. – Gli dica che venga come prima, per fare almeno… sì, dico, l’obbligo suo, ora che quel… sì, dico… pezzo d’ira di Dio sta per lasciare l’ospedale.
– Ne ha notizie lei? – gli domandò Carolinona.
Ne aveva, sì, il signor Martino e gliele diede, compunto, angustiato. Sarebbe stato libero, per disgrazia, fra due o tre giorni, quel bestione! Gliel’aveva detto un infermiere, il quale lo aveva pure informato che, già quasi convalescente, avendo saputo del matrimonio, il Cocco Bertolli aveva avuto una ricaduta, per la violenza che gli si era dovuta usare, volendo egli a ogni costo scappare dall’ospedale.
– Pericoloso, pericoloso… – terminò il signor Martino. – Tanto che io, quasi quasi, vorrei consigliarla di avvisarne, senz’altro, la questura.
La Pentoni stette un pezzo a pensare, poi sorrise:
– Ma sa che è davvero buffona la sorte mia? Uno mi sposa per ridere, l’altro mi vuole per forza… Ebbene signor Martino, sa la nuova? io non faccio più nulla: non voglio più muovere neanche un dito. Venga il Bertolli, e mi bastoni. O vorrà forse uccidermi? Sarebbe proprio da ridere. Lasciamo fare a Dio!
Dio, va bene; Dio è grande, onnipotente, veglia su tutti, protegge i buoni e gli oppressi; ma il Martinelli stimò pur conveniente informar lo Scossi e il Cariolin dei propositi violenti con cui il Cocco Bertolli sarebbe uscito dall’ospedale.
– Considerino che è un pazzo, signori miei, e che non ha nulla da perdere.
Fu allora deciso, dopo lungo confabulare, di mandar lo Scossi in casa di Biagio Speranza, cui nessuno, da quel giorno, aveva più riveduto: se non si trovava in casa, lasciargli un biglietto, per avvertirlo del pericolo della Pentoni; se era partito, saper l’indirizzo per telegrafargli.
Né in casa, né partito. Dario Scossi dovette prendere a nolo una vettura per recarsi a un poderetto della vecchia padrona di casa dello Speranza, a tre chilometri circa fuor di porta. Biagio si trovava colà da quattro giorni e vi si sarebbe trattenuto fino alla partenza per Barcellona: aveva raccomandato alla padrona di casa di non far sapere a nessuno il suo rifugio, e la padrona di casa, come si vede, aveva mantenuto la promessa. Ma si trattava, è vero?d’un caso molto grave.
– Gravissimo! Gravissimo! – la rassicurò lo Scossi.
Avendo forzata così la consegna, questi, via facendo, cominciò a sentire il bisogno di credere sul serio al pericolo che minacciava Carolinona, alla terribilità del Cocco Bertolli, per avere il coraggio di presentarsi a Biagio Speranza. Come doveva esser lieto, quel birbaccione, in mezzo alla campagna, che già si rivestiva di tenero verde. L’aria era ancora frizzante, ma di che lieve freschezza ristorava lo spirito e come riposavano gli occhi su quelle prime ridenti verzure!
Quando la carrozza, finalmente, si fermò dinanzi a un rustico cancello a una sola banda, sorretto da due pilastri non meno rustici, dietro ai quali sorgevano due alti cipressi, Dario Scossi era com’ebro di primavera.
Un erto vialetto saliva dal cancello, tra la vigna, su al poggiuolo, in vetta al quale stava tra gli alberi la Casina. Che poesia! che sogno! che quiete! Il fresco d’ombra di quella poggiata a bacio era saturo di fragranze selvatiche: amare di prugnole, dense e acute di mentastri e di salvie. Prima di sonar la campana, lo Scossi guardò un pezzo lassù; udì a un tratto acutissimi strilli di papere, poi la voce di Biagio Speranza, che chiamava allegramente:
– Nannetta! Nannetta!
Ah marrano! ah rinnegato! In pieno idillio? Si pentì d’esser venuto.
– Debbo aspettare? – gli domandò il vetturino.
– Sì, aspetta. Suono.
Ma, prima di tirare la catena, guardò la campanella che pendeva immobile, arrugginita, dalla parte interna del pilastro, in alto.
«Ecco», pensò, «fra un minuto essa romperà l’incanto, sonando. Tiro o non tiro?»
Tirò pian piano: il battaglio, ecco, si accostava all’orlo, lo toccava appena, senza dare alcun tintinno… Lasciò d’un tratto la catena, e la campana squillò furiosamente.
– Fatto! Crepa! Corno d’Emani!
Su, in cima al vialetto, si presentò poco dopo un vecchio contadino, il quale, vedendo la vettura innanzi al cancello, s’affrettò a discendere.
– Lei signore, chi cercate?
– Speranza.
– Che vuol dire? Ah, sissignore: sarebbe quel giovinotto… Sta qui.
Aprì il cancello e Dario Scossi entrò. Giunsero di nuovo, dall’alto, gli strilli delle papere, e il vecchio contadino si mise a ridere, scotendo la testa:
– Che matto ! che matto !
– Biagio? che fa? – domandò lo Scossi.
– Mah, una ne fa e cento ne pensa! – rispose il contadino. – Venga a vedere. Fa i berrettini da soldato a quelle povere bestiole e le avvia così, con quelle barchette in capo, alla signora che sta laggiù alla vasca del giardino.
– Nannetta! Nannetta! – gridò un’altra volta, di lassù Biagio. – Eccoti Carolinona, che viene di corsa! L’ho fatta caporalessa.
– Orrore! – urlò Dario Scossi, presentandosi su la spianata.
– Dario! – esclamò Biagio Speranza, di soprassalto. – Come! Tu qua?
E gli mosse incontro. Ma lo Scossi si tirò un passo indietro e lo guatò severamente.
– A un’oca il nome di tua moglie?
– Oh, sta’ quieto! – gli rispose Biagio scrollandosi tutto. – Sei venuto a seccarmi fin qua? Com’hai saputo?
Lo Scossi gli spiegò allora la ragione della sua venuta, gli disse che non era giusto né onesto lasciar così nell’imbarazzo quella povera donna lì, e che urgeva la presenza di lui alla Pensione, almeno per tre o quattro giorni, assolutamente.
Biagio Speranza sentì cascarsi le braccia.
Sopravvenne di corsa, tutta infocata in volto, con un cappellaccio di paglia su i capelli fulvi, scarmigliati, bellissimi, Nannetta; quella stessa che il signor Martinelli aveva veduto uscire dal Caffè, quella sera.
– Ebbene, Biagione? Ah, scusi: buon giorno, signore…
– Buon giorno, carina, – rispose lo Scossi, tendendole la mano. Ma Nannetta alzò le sue al cielo:
– Non posso. Son bagnate. Se vuole, col permesso di lui, un bacetto qua. E porse la guancia infocata.
– Permetti? – domandò, compunto, lo Scossi. – Ha le mani bagnate…
– Uno solo, – rispose Biagio, funebre. – Non c’è che dire. Bisogna andare.
– Ti reclama tua moglie? – domandò, dolente, Nannetta con la guancia protesa, su cui lo Scossi deponeva intanto una serie di lievi bacetti. – Oh, basta, signore: uno solo, prego! Tua moglie, dunque?
– Oh non mi seccare anche tu! – esclamò Biagio, esasperato. – Ringrazia il tuo Dio, Scossi, che non ho in mano un bastone. Ma vattene subito! Ritorno in città domani, perché stasera io qua mi voglio vendicare: tiro il collo a quella papera che le somiglia tanto e me la mangio tutta, a cena, con la voracità d’un antropofago. Vattene!
Ma Nannetta volle trattenere lo Scossi a desinare. A tavola, Biagio gli spiegò perché se ne fosse scappato.
– Non direi ancora che ella proprio mi ami, ma ci pende, sai? Chi se lo sarebbe aspettato? Capisco, sì, sono un bellissimo giovane, tanto simpatico…
Nannetta protestò, ridendo:
– Bellissimo, poi! Va’ là… Con quella pancia…
– Pancia, io? Grassotto, o diciamo meglio: robusto. Ma poi tu non conosci colei: divento uno stecchino a paragone, cara mia. Si vede che ci ha ripensato. E vi assicuro che mi ha tenuto un discorso da vera moglie.
– Povera donna! – esclamò Nannetta. – Se è vero quel che dice lei, voi tutti e tu, Biagio, specialmente, siete stati d’una crudeltà senza pari. Via, ricompensala adesso! Credi pure che è il meglio che ti resti da fare.
Biagio Speranza non aprì bocca, ma sbarrò gli occhi e guardò Nannetta con tale espressione, che questa sorrise e ripetè:
– Povera donna!
– Basta, basta, carina! – interloquì lo Scossi. – o non lo farai più tornare in città.
– No no, – disse Biagio, serio. – La promessa è debito, e verrò. Io voglio stare ai patti. Ma, appena avrò finito di rappresentare la mia parte di fronte al Cocco Bertolli, partirò, cari miei, e non mi rivedrete mai più! Mi porterò dietro, forse, la mala ventura, perché ho fatto torto al destino, il quale, come sapete, è di sua natura buffone. A pensarci, per spasso dell’afflitta umanità esso aveva combinato un matrimonio veramente ideale: Cocco Bertolli e Carolinona. Io, sciocco, stupido, imbecille, vado a mettergli il bastone tra le ruote. Bisogna scontare. Quel grand’uomo l’amava, la sua colomba, e ora dovrò metterlo alla porta. Ne ho rimorso, credetemi; ma, l’ho promesso, lo farò.
La sera di quello stesso giorno, Dario Scossi riferì agli amici della Pensione quel che aveva fatto, dove aveva trovato Speranza e in compagnia di chi.
Cedòbonis finse di scandalizzarsi per una così immediata infedeltà; ma lo Scossi che, senza volerlo, raccontando, s’era lasciato scappare quella notizia gli rispose che Carolinona non doveva farsene, essendo che le mogli son fatte apposta per esser ingannate dai mariti, e viceversa – eccezion fatta, s’intende, della coppia Martinelli, unica sotto la cappa del cielo – e infine annunziò che Biagio Speranza sarebbe venuto senza fallo la sera del giorno seguente.
– La pecorella ritorna all’ovile.
*******
VI. Tutti d’accordo: nessuna allusione al matrimonio, come se nulla fosse stato. Biagio Speranza venne con un po’ di ritardo, salutò la Pentoni e gli amici e sedette al suo solito posto. Ci fu dapprima un po’ d’imbarazzo; poi, a poco a poco, si prese a parlare del più e del meno. Solo il Martinelli teneva fissi su lo Speranza gli occhietti tondi da barbagianni, come se da un momento all’altro si aspettasse da lui una spiegazione di quell’indegno modo d’agire, un segno di pentimento.
Carolinona se ne stava con gli occhi bassi; di tanto in tanto però volgeva uno sguardo in giro e, se vedeva che nessuno la guardava, lanciava una rapida occhiata obliqua allo Speranza, e si turbava profondamente. Soffriva; si sentiva soffocare; ma pur si dominava perché nessuno se n’accorgesse.
Aveva dato ordine alla serva di non aprire la porta, senza aver prima guardato dalla spia. Se il Cocco Bertolli fosse venuto di giorno, ella doveva rispondere che la padrona non era in casa; se di sera, mentre i commensali erano a tavola, prima di aprire, doveva entrare nel salotto da pranzo ad avvisare.
A ogni scampanellata alla porta, restavano perciò tutti per un istante in attesa, e la povera donna si sentiva scoppiare il cuore dall’agitazione. Poi riprendevano a conversare. Dopo una scampanellata più forte, Cedobonis osservò:
– Vedranno che non sarà lui. Egli, certamente, tenterà prima di entrar qui di giorno e, non riuscendogli, tornerà di sera.
E così, senza dubbio, sarebbe stato logico; ma Cedobonis non teneva conto d’una cosa: che il Cocco Bertolli era matto. Tanto vero, che aveva sonato così forte proprio lui. La serva entrò di corsa ad annunziarlo, spaventata.
Si alzarono tutti, costernati, tranne Biagio Speranza.
– Prego, – diss’egli, calmo. – Mettetevi a sedere. Debbo andare io solo. Voi continuate a chiacchierare tranquillamente qua. Vedrete: due paroline pacate, e lo riduco a ragione.
Si alzò e si mosse; prima di uscire dal salotto da pranzo, si volse e aggiunse, alzando una mano:
– Mi raccomando, eh?
Ma la Pentoni, che si era finora contenuta a stento, scoppiò in lagrime. Alcuni le si fecero attorno, per confortarla; altri si recarono in punta di piedi dietro l’uscio del salotto a origliare.
Biagio Speranza andò ad aprire lui stesso la porta risolutamente; ma subito restò di sasso alla vista del Cocco Bertolli. Non aveva più un’oncia di carne addosso quell’infelice e gli occhi enormi da bue, in quel volto smunto, cadaverico, incutevano terrore. Anch’egli restò, alla vista di Biagio Speranza e, atteggiando la bocca a un ghigno feroce:
– Ah, lei! – mormorò.
– Scusi, desidera? – gli domandò Biagio.
Il Cocco Bertolli serrò le pugna e lo fissò con gli occhi sbarrati; poi riprese:
– Desidererei di mangiarle il cuore. Ma più tardi. Ora…
Biagio Speranza lo interruppe con un cenno della mano e una smorfia di nausea:
– Pessimo gusto, caro poeta! Meglio una buona bistecca, dia ascolto a me!
– Ora, – riprese il Cocco Bertolli, con gli occhi che pareva gli volessero schizzare, – voglio dire due sole paroline a quella signora, di là, e mozzarle le orecchie e il naso.
– Per carità! Me.la sciuperebbe! – esclamò Biagio, ridendo. – Via via, caro poeta: sappia che qui il padrone di casa, sono io, e che lei non entrerà più, né ora né mai.
Il Cocco Bertolli, tutto fremente, si tirò il panciotto troppo agiato, e disse:
– Sta bene. Ci vedremo giù. Volevo soltanto ricordare a quella brava signora un certo giuramento…
– Ma non capisce, scusi, – volle fargli notare lo Speranza, – che quella signora, come dice lei, sperava, anzi era certa che lei… sì, abbia pazienza, dovesse morire?
– Ma non son morto! – gridò il Cocco Bertolli, con feroce gioja. – E la morte, io, capisce? io l’ho sfidata per lei!
– Malissimo! – esclamò Biagio. – Malissimo! Via, se lo lasci dire: le pare che ne valesse proprio la pena?
– Ah, lo sa anche lei, dunque, – sghignò il Cocco Bertolli, – che è una donnaccia sua moglie?
Biagio Speranza protese le mani:
– Donnone, scusi, diciamo donnone piuttosto; per non offendere.
– Ma offendere io voglio! – rispose il Cocco Bertolli, alzando le braccia, terribile. – Offenderla di fronte a lei, che è suo degno marito. Buffone!
Biagio Speranza impallidì, chiuse gli occhi, poi disse pacatamente:
– Senti, Cocco. Vattene con le buone o ti piglio a calci.
– A me?
– A te. Anzi, guarda: ti chiudo la porta in faccia per impedirmi d’alzare il piede su un povero pazzo, che non sei altro.
E chiuse la porta.
– Vile pagliaccio! – ruggì, dietro la porta, il Cocco Bertolli. – Ma ti aspetto giù in istrada, sai! Te la farò pagare.
Biagio Speranza rientrò in salotto, pallido ancora e vibrante dello sforzo che aveva fatto per contenersi.
– Ebbene? – gli domandarono tutti, ansiosamente.
– Niente, – rispose egli, con un sorriso nervoso. – L’ho cacciato via
– E t’aspetta giù! – aggiunse Cariolin, che aveva udito dall’uscio la minaccia del pazzo.
– Per carità! – gemette Carolinona, col volto nascosto nel fazzoletto. – Per causa mia!
Biagio Speranza s’irritò di quel pianto, sentì ribrezzo della parte che stava a rappresentare e si scrollò irosamente:
– Lasciatelo aspettare. Non gliele ho date, per miracolo; andrò a dargliele adesso!
E cercò il cappello e il bastone.
La Pentoni allora, quasi spinta da una susta più forte di lei, sorse in piedi e gli s’appressò, in lagrime, per trattenerlo:
– La scongiuro! Per carità! Non si metta con quel pazzo. Ci lasci andar prima gli altri. Mi dia ascolto!
Tutti, tranne il Martinelli che tremava come una foglia e lo sdegnoso Trunfo, fecero eco alle parole di Carolinona e si proffersero d’andare avanti. Biagio Speranza si arrabbiò, si fece largo con violenza e gridò:
– Ma insomma, per chi mi prendete? E s’avviò.
Gli altri lo seguirono. Giù per la scala egli si volse e li pregò di nuovo, con le buone, di restare.
– Voi così, – disse loro, – mi fate perdere la pazienza. Credete sul serio che io alzi le mani su quel povero disgraziato che esce adesso dall’ospedale, se egli proprio non mi metterà con le spalle al muro? Dunque statevene qua, vi prego! non vi fate vedere, perché se egli vi vede, si metterà a predicare. Non aggravate il ridicolo della mia posizione.
Dario Scossi allora fé’ cenno a gli amici di fermarsi e di lasciare andar solo, avanti, Speranza. Poco dopo, ripresero a scendere la scala e si fermarono nell’androne a spiare. Cariolin, che si trovava innanzi a tutti, sporse un po’ il capo dal portone: Biagio e il Cocco Bertolli parlavano, poco discosti, animatamente; ma, a un tratto, Cariolin vide il Cocco Bertolli alzare una mano e appioppare un solennissimo schiaffo allo Speranza. Tutti allora si slanciarono a spartire i due furibondi che già avevano alzato i bastoni.
Carolinona, che se ne stava alla finestra, cacciò uno strillo e si rovesciò indietro, svenuta, tra le braccia tremanti di Martinelli, mentre Trunfo, attirato dalle grida della strada, s’affrettava ad uscire, ripetendo a schizzo:
– Forte! Rotture! Pagliacci!
Biagio Speranza, piangendo dalla rabbia e divincolandosi, gridava a gli amici che lo trattenevano: – Lasciatemi! Lasciatemi!
– Ai suoi ordini! – urlava, di là, pur trattenuto e trascinato via, il Cocco Bertolli, tra la confusione de la folla accorsa da ogni parte. – Ai suoi ordini! Al Caffè dello Svizzero. E intanto si tenga questo per caparra! Ne vuole ancora? Ne vuole ancora?
Dario Scossi, Cedobonis e Cariolin riuscirono finalmente a condur via Biagio Speranza, che farneticava:
– Bisogna che l’ammazzi! Bisogna che l’ammazzi! Due di voi: tu, Scossi, e tu, Cariolin, subito andate a trovarlo. Bisogna che l’ammazzi. Per quanto sia ridicolo, atrocemente ridicolo, un duello con quel miserabile, a causa di quella donna là, bisogna che mi batta, perché se no, vedendolo, lo ammazzo come un cane… Andate, andate. Io vi aspetto a casa.
I tre amici cercarono di sconsigliarlo, di persuaderlo a non dare importanza all’accaduto. Si trattava in fin de’ conti, dell’aggressione d’un pazzo. Ma Biagio Speranza non volle sentir ragioni:
– M’ha dato uno schiaffo, volete capirlo? Volete che mi sporchi le mani e vada a finire in galera?
Montò in una vettura per rincasare, mentre lo Scossi e Cariolin, seguiti da Cèdobonis – serio, placido e curioso – , si recavano a trovare il Cocco Bertolli al Caffè dello Svizzero.
Lo trovarono lì, tronfio nello squallore della sua orrenda miseria, esultante, che narrava l’avventura, tra le risa de la folla che lo aveva seguito. Lo Scossi si fece avanti e lo invitò a venir fuori.
– Subito! a gli ordini! – rispose egli, avviandosi. – Pistola, spada, sciabola: quello che vogliono, a loro scelta! Ma anche con le mani o coi piedi, subito!
Lo Scossi gli fece capire che c’era bisogno di due altri con cui intendersi per le modalità dello scontro.
– Io non conosco nessuno! – protestò il Cocco Bertolli. – Vorrei poter mandare al signor Speranza due miei amici: Erostrato e Nerone, ma sono morti, purtroppo! Mi trovino adesso loro stessi due mal vivi: non voglio impacciarmi di codeste miserie.
– Io potrei assistere, nella mia qualità di medico, – disse Cèdobonis. – Ma come si fa? Ho lezione al liceo…
Dario Scossi allora e Cariolin, insieme col Cocco Bertolli, si misero in cerca di due padrini, che non fossero propriamente Erostrato e Nerone.
Biagio Speranza aspettava, fremente, in casa, da circa un’ora, quando – a una scampanellata – invece dello Scossi e del Cariolin, si vide innanzi alla porta Nannetta che, avendo saputo in un Caffè della rissa, veniva a domandar notizie.
– Ma sì, schiaffeggiato! – le disse Biagio. – Vieni, entra, Nannetta. Ce ne stavamo tanto bene, noi due, in campagna, non è vero? L’ho fatta troppo grossa, che vuoi? Bisogna pagare, te l’ho detto…
– Un duello? – gli domandò, angustiata, Nannetta.
– Per forza. Schiaffeggiato, ti dico.
– Dove? –Qua.
Nannetta gli posò un bacio su la guancia.
– Caro, e se ti ammazzano? Non ci pensi?
– No, davvero! – disse Biagio, alzando una spalla e recandosi a guardare dalla finestra, impaziente.
Nannetta lo seguì, ma invece di guardar giù nella strada si mise a guardare in alto le stelle che sfavillavano fitte nel cielo senza luna. Sospirò e disse:
– Sai, Biagio, che non vorrei davvero che tu facessi questo duello? Colpito dalla strana espressione della voce di lei, Biagio le domandò, con un
sorriso sforzato:
– Ti preme tanto di me?
Nannetta si strinse ne le spalle, sorridendo, mesta; socchiuse gli occhi e rispose:
– Che so… Non vorrei…
– Su! – esclamò Biagio, riscotendosi. – Senza malinconie! Ho un po’ di Marsala: beviamo! Devo aver pure biscotti, aspetta… Poi mi ajuterai a preparar le valige. Domani, dopo aver dato una buona lezione a quel cane, partenza!
– Per sempre?
– Per sempre.
Prese la bottiglia del Marsala, i biscotti, e invitò Nannetta a sedere, a bere. Una nuova scampanellata alla porta.
– Ah, ecco, – disse Biagio. – Saranno loro!
Era invece il signor Martino Martinelli, che pareva ridotto l’ombra di se stesso, cui ciascuno con un soffio avrebbe potuto far volare di qua e di là, come una piuma.
– Venga, venga avanti, signor Martino carissimo! – gli disse Biagio, battendogli una mano dietro le spalle. – Chi lo manda, eh? Scommette che l’indovino? Mia moglie!
Nannetta scoppiò a ridere nel vederlo restare con quel palmo di naso, alla vista di lei.
– Non ridere, Nannetta, – disse Biagio. – Ti presento il prototipo dei mariti fedeli, il signor Martino Martinelli, primo naso assoluto. Dica, signor Martinelli, alla mia signora moglie, che mi ha trovato sano, innanzi a un buon bicchiere di vino e accanto a una leggiadra donnetta. Non starnuti! Vuol bere?
– Mi… mi scusi, – balbettò indignatissimo, lappoleggiando, il signor Martino. – Permetta che io le… le dica che lei… sissignore… di… disconosce, sì, dico, indegnamente… sissignore… un cuore… un cuor d’oro, che in questo momento pai… sì, dico… palpita per lei. Buona sera. E me ne vado.
Le risa di Biagio e di Nannetta lo accompagnarono fino alla porta; ma il signor Martino si sentì sollevato, dopo quello sfogo, in una sfera eroica, e se ne andò col naso al vento, come una tromba guerriera.
*******
VII. Giannantonio Cocco Bertolli giunse primo al luogo designato per lo scontro, in compagnia del medico e de’ due ufficialetti d’artiglieria, amici di Cariolin, che si erano prestati a far da padrini. Era tranquillissimo. Lodò, da buon poeta, il dolce mattino d’aprile.
Zeffiro torna e il bel tempo rimena…
Lodò i gorgheggi degli uccelli che salutavano il sole; aspirò con voluttà l’odor di resina che esalavano i pini e i cipressi de la villa signorile; recitò un’odicina d’Anacreonte da lui tradotta, e infine narrò ai due ufficialetti, che se lo godevano, l’apologo delle oche e della gru migranti. Egli era una gru: cioè un pazzo per le oche.
– Perché non ho ciotola, né becchime, intendono? Da jeri, o miei signori, nel mio stomaco abbiosciato, non entra cibo. Acqua: ho bevuto acqua nelle pubbliche fontanelle. Diogene, o miei signori, aveva un ciotolino, ma quando vide un ragazzetto far mano cupa e bere, ruppe il ciotolino e bevve anche lui nella mano. Così faccio anch’io. Non so se oggi mangerò, dove dormirò stasera. Forse mi presenterò a qualche fattore di campagna. Zapperò. Mangerò. Ma così, sciolto da ogni vincolo, in questa piena, sublime libertà che m’inebria e che naturalmente deve parer follia a gli schiavi delle leggi, dei bisogni, delle consuetudini sociali. Spaccherò tra poco il cranio a quell’imbecille che ha tentato d’attraversarmi la via, e quindi metterò mano al mio gran poema: L’Erostrato.
Giunsero, poco dopo, Biagio Speranza, Dario Scossi e Momo Cariolin, con un altro medico.
Biagio Speranza era molto nervoso; il pensiero di battersi con quel pazzo, da cui s’era preso uno schiaffo, lo avviliva. Ma voleva tuttavia mostrarsi ilare, per non dare importanza a quel duello: grottesco epilogo d’una buffonata. Aveva già preparato in casa le valige e tutto l’occorrente per la partenza. Ora avrebbe dato o ricevuto uno sgraffio, e tutto sarebbe finito lì. N’era tempo, perbacco!
La direzione dello scontro toccò in sorte all’ufficialetto che fungeva da primo testimonio. Ma già pareva che tutto si facesse all’amichevole. Scelto il terreno, misurato il campo, i due avversarli furono invitati a prender posto, l’uno di fronte all’altro.
– Prego, – disse l’ufficiale al Cocco Bertolli, – bisogna che si cavi la giacca.
– Gliel’ho detto, – aggiunse, sorridendo, l’altro ufficiale. – Ma non se la vuol cavare.
– Per forza? – domandò cupo il Cocco Bertolli. – Ebbene, ecco qua: non me n’importa!
Si cavò di furia la giacca e la buttò per terra, lontano.
Nel vedergli la camicia sbrendolata e sudicia, sforacchiata ai gomiti, provarono tutti una penosissima impressione: avvilimento, ribrezzo e pietà insieme; si guardarono negli occhi, come per domandarsi l’un l’altro se non fosse proprio il caso di mandar tutto a monte.
Ma il Cocco Bertolli, che aveva già la sciabola in pugno e fremeva, domandò, fieramente accigliato:
– Dunque?
– In guardia! – disse allora l’ufficiale.
Subito il Cocco Bertolli si slanciò, come un tigre, con terribile furia, mulinando la sciabola e vociando, addosso all’avversario.
Biagio Speranza, così investito, ancora sotto quella penosa impressione, indietreggiò, parando alla meglio la tempesta dei colpi. Avrebbe potuto facilmente lasciarlo infilzare, tenendo ferma e diritta la sciabola, in un subito arresto: ma scacciò tosto la tentazione, e seguitò a parare. A un tratto, nella furia, al Cocco Bertolli cadde di mano la sciabola.
– Basta! – gridò l’ufficialetto che dirigeva lo scontro.
– Basta! – ripeterono gli altri, fortemente costernati della violenza del pazzo, oppressi dalla minaccia d’una imminente sciagura.
– Che basta! – disse, ansante, il Cocco Bertolli. – Vogliono approfittarsi di una disgrazia? Me ne appello al mio avversario, a cui non credo che possa bastare una così magra sodisfazione.
Biagio Speranza si chinò a raccogliere la sciabola caduta e la porse cavallerescamente al Cocco Bertolli:
– Ecco: a lei!
Poi guardò gli amici, come per dire: «Vedete a che m’avete condotto?». E l’irritazione nervosa gli crebbe. Se, la sera avanti, dopo lo schiaffo a tradimento, glielo avessero lasciato bastonare ben bene, non si sarebbe trovato ora nella dura necessità di uccidere quel povero pazzo, così malandato e miserabile, o di farsi uccidere da lui.
Al comando del secondo assalto, egli volle risolutamente tener fronte all’avversario. Il Cocco Bertolli però gli fu subito sopra con impeto raddoppiato.
– Alt! – gridò l’ufficialetto.
Ma già, nel fulmineo scontro, Biagio Speranza era stato colpito, e a un tratto cadde per terra, con le mani avvinghiate al petto e una sghignazzata che gli gorgogliava nella strozza. Guardò i quattro padrini e i medici accorsi, si provò a dire: «Nulla…» ma, invece della parola, ebbe uno sbocco di sangue, e s’abbandonò, atterrito.
Riscossi dal primo orrore, quelli si chinarono su lui; pian piano lo sollevarono, lo trasportarono, con la massima cautela, nella casetta del guardiano de la villa, ove lo deposero su una branda. I medici credettero dapprima che egli non avesse che pochi minuti di vita; gli apprestarono non di meno le prime cure, alla meglio, e attesero, angosciati, sgomenti. Passò un’ora, ne passarono due, e poiché la morte non sopravveniva, uno dei medici propose di mandar qualcuno in città per una barella: c’era sì pericolo che il moribondo spirasse per via; ma, d’altra parte, lì in quell’antro, non poteva rimanere.
Così Biagio Speranza, verso sera, fu trasportato a casa, tra la vita e la morte. Lo attendevano in lagrime, insieme con la vecchia padrona di casa, la Pentoni e Nannetta. Ma questa, poco dopo, passata la prima confusione, fu mandata via garbatamente dallo Scossi.
– Non conviene, non conviene che tu sia qua, carina…
Ella non replicò; volle tuttavia, sotto gli occhi di Carolinona, posare un bacio su la fronte del ferito, che giaceva privo di sensi, avvampato dalla febbre.
– Ah se lei ci avesse lasciato lì! – disse poi, piangendo, allo Scossi, nell’andarsene: – Povero Biagio! Me lo diceva il cuore! Ma gli levino pure quella mal’ombra d’accanto: vedova, prima d’esser moglie.
– Speriamo di no! – fece lo Scossi.
– Speriamo! – ripetè Nannetta. – Ma, se egli apre gli occhi, muore disperato, nel vedersela accanto.
Mentre Nannetta proferiva queste parole, la Pentoni nell’altra stanza si toglieva dal capezzale del letto, intendendo da sé che la sua vista non sarebbe riuscita in quel primo momento accetta al ferito. Ella aveva sì desiderato ardentemente che egli fosse ritornato alla Pensione, ma non aveva detto neppure una parola, né fatto un passo per spingerlo a ritornare; sarebbe stata perciò una vera ingiustizia chiamar lei responsabile di quella sciagura: egli per il primo avrebbe dovuto riconoscerlo, egli che la aveva forzata, proprio forzata, a commettere quella pazzia. Non avrebbe dunque dovuto provar nemmeno orrore alla vista di lei, fi al suo capezzale, né nutrir rancore. Ma Carolinona, col suo cuore, intendeva che è un bisogno quasi istintivo affibbiare agli altri la colpa dei proprii danni, e si ritrasse nell’ombra a vegliare, a prestar le cure più appassionate, senza alcuna lusinga di compenso. Voleva soltanto, desiderava e pregava, che egli guarisse: e niente per sé, neppur la gratitudine, neppure che egli sapesse di avere avuto nascostamente le cure di lei.
Dario Scossi, Cariolin, Cedobonis, dopo i primi giorni, vedendo che il ferito accennava un po’ a migliorare, cominciarono a insistere perché ella si desse qualche ora di riposo. Ma insistettero invano.
– Non mi fa nulla: ci sono avvezza – rispondeva loro Carolinona.
Un giorno Dario Scossi la guardò e non gli parve più tanto brutta. Il cordoglio e l’amore, disperati entrambi, pareva che l’avessero trasfigurata. Quegli occhi, per esempio, così intensi di passione – ella non Io sapeva – ma eran proprio belli, in quel momento.
Nel vedersi guardata con simpatia, Carolinona gli sorrise appena, mentre gli occhi le si riempivano di lagrime. E quel sorriso a Dario Scossi parve sublime.
Man mano, per le veglie eroicamente durate per circa un mese, lì, intenta, come una madre e un’amante insieme, al capezzale dell’infermo, quand’egli riposava, pronta a ritirarsi nell’ombra, appena egli si destava, Carolinona perdette anche la pinguedine; e, illuminata quasi, internamente, dalla gioja di saperlo salvo alla fine – bella, proprio bella, no; ma – a giudizio di tutti – era divenuta una moglie più che possibile.
– E poi, – soggiungevano – se l’è guadagnato: c’è poco da dire. L’ha rimesso al mondo, e Biagio è cosa sua, ormai.
Ma ella non volle credere alla propria felicità, fino a tanto che lui, ancora a letto, ma già entrato in convalescenza, non la chiamò a sé e non le disse, con voce tremante di tenerezza, guardandola negli occhi e stringendole la mano:
– Mia buona Carolina…
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com