La rosa – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«In quel portafiori, quasi all’improvviso, fuor di stagione, era sbocciata una magnifica rosa rossa. La signora Lucietta restò dapprima a mirarla, stupita, tra lo smortume della tappezzeria grigiastra, di quella sudicia saletta. Poi, dalla gioja di quella rosa rossa ebbe come un tuffo nel sangue.»

Prime pubblicazioni: La lettura novembre 1914, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.

La rosa audiolibro
Immagine dal Web.

La rosa

Voce di Giuseppe Tizza

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             I. Nel bujo fitto della sera invernale il trenino andava col passo di chi sa che tanto ormai non arriva più a tempo.

             In verità la signora Lucietta Nespi, vedova Loffredi, per quanto annojata e stanca del lungo viaggio in quella sudicia vettura di seconda classe, non aveva alcuna fretta d’arrivare a Pèola.

             Pensava… pensava…

             Si sentiva trasportata da quel trenino, ma con l’anima era ancora nella lontana casa di Genova, abbandonata, le cui stanze, sgombre della bella mobilia ancor quasi nuova, miseramente svenduta, invece di sembrarle più grandi, le erano sembrate più piccole. Che tradimento!

             Aveva bisogno di vederle grandi, lei, molto grandi e belle, quelle stanze, nell’ultima visita d’addio, dopo lo sgombero, per poter dire un giorno, con orgoglio, nella miseria a cui discendeva:

             – Eh, la casa che avevo a Genova…

             Lo avrebbe detto lo stesso, di certo; ma in fondo all’anima, le era rimasta la disillusione di quelle stanze sgombre, così meschine.

             E pensava anche alle buone amiche, dalle quali, all’ultimo, non era andata a licenziarsi, perché anch’esse, tutte, l’avevano tradita, pur dandosi l’aria di volerla ajutare a gara. Oh sì, ajutarla, conducendole in casa tanti compratori onesti, a cui certo, prima, avevano magnificato l’occasione di potere aver per cinque ciò ch’era costato venti e trenta.

             Così pensando, la signora Lucietta ora restringeva ora dilatava i begli occhietti vispi e, di tratto in tratto, con una rapida, speciosa mossetta che le era abituale levava una mano e si passava l’indice sul nasetto ardito e sospirava.

             Era stanca veramente. Avrebbe voluto addormentarsi.

             I suoi due bimbi orfani, loro sì, poveri amorini, s’erano addormentati: uno, il maggiore, disteso sul sedile, sotto un mantelletto; l’altro qua, rinchioccito, col capino biondo su le gambe di lei.

             Chi sa, si sarebbe forse anch’ella addormentata, se avesse potuto in qualche modo appoggiare un gomito o il capo, senza svegliare il piccino, a cui le sue gambe facevano da guanciale.

             Il sedile di fronte serbava l’impronta de’ suoi piedini, che vi avevano trovato un comodo sostegno, prima che fosse venuto a prender posto – ce n’erano tante di vetture, nossignori! – proprio lì, un omaccione su i trentacinque anni, barbuto, bruno in viso, ma con occhi chiari, verdastri: due occhi grandi, intenti e tristi.

             La signora Lucietta ne aveva provato subito un gran fastidio. Il color chiaro di quei grandi occhi le aveva – chi sa perché – destato confusamente l’idea che il mondo, ovunque ella andasse, le sarebbe rimasto sempre estraneo ormai, e come lontano, lontanissimo e ignoto; e ch’ella vi si sarebbe sperduta, invano chiedendo ajuto, tra tanti occhi che sarebbero rimasti a guardarla, come quelli, con qualche velo di tristezza, sì, ma in fondo indifferenti.

             Per non vederli, teneva da un pezzo la faccia voltata verso il finestrino, quantunque di fuori non si scorgesse nulla.

             Si vedeva solo, in alto, sospeso nella tenebra, il riflesso preciso della lampada a olio della vettura, con la rossa fiammella fumosa e vacillante, il vetro concavo dello schermo e l’olio caduto, che vi sguazzava.

             Pareva proprio che ci fosse un’altra lampada di là, la quale seguisse con pena, nella notte, il treno, quasi per dargli insieme conforto e sgomento.

             –    La fede… – mormorò, a un certo punto, quel signore. La signora Lucietta si voltò con aria stordita:

             –    Che cosa?

             –    Quel lume che non c’è.

             Ravvivando il sorriso e lo sguardo, la signora Lucietta levò un dito a indicar la lampada nel cielo della vettura.

             – Eccolo qua!

             Quel signore approvò più volte col capo, lentamente; poi aggiunse, con un sorriso triste:

             –    Eh sì, come la fede… Accendiamo noi il lume di qua, nella vita; e lo vediamo anche di là; senza pensare che se si spegne qua, di là non c’è più lume.

             –    E filosofo lei ! – esclamò la signora Lucietta.

             Quegli alzò una mano dal pomo del bastone a un gesto vago e sospirò con un altro sorriso:

             – Osservo…

             Il treno si fermò per un gran pezzo davanti a una stazionuccia di passaggio. Non s’udiva alcuna voce e, cessato il rumor cadenzato delle ruote, l’attesa in quel silenzio pareva eterna e sbigottiva.

             –    Mazzàno, – mormorò il signore. – S’aspetta al solito la coincidenza. Alla fine, giunse da lontano, lamentoso, il fischio del treno in ritardo.

             –    Eccolo…

             Nel lamento di quel treno, che correva nella notte per la stessa via su cui tra poco anche lei sarebbe passata, la signora Lucietta udì per un momento la voce del suo destino, che, sì, proprio, la voleva sperduta nella vita insieme con quelle due creaturine.

             Si riscosse dall’angoscia momentanea e domandò al compagno di viaggio:

             –    Ci vorrà ancor molto a Pèola?

             –    Eh, – rispose quegli, – più di un’ora… Scende a Pèola anche lei?

             –   Io sì. Sono la nuova telegrafista io. Ho vinto il concorso. Son riuscita la quinta, sa? M’hanno destinato a Pèola!

             – Ah, guarda… Sì, sì, la aspettavamo difatti per jeri sera. La signora Lucietta s’animò tutta:

             –    E difatti, già, – cominciò a dire; ma subito frenò lo slancio per non rompere il sonno al suo piccino. Aprì le braccia e, indicandolo con lo sguardo e poi indicando l’altro di là: – Ma vede come sono legata? – soggiunse. – E da me sola… a dovermi staccare da tante cose…

             –    Lei è la vedova Loffredi, è vero?

             –    Sì…

             E la signora Lucietta chinò gli occhi.

             –    Ma non si è saputo più nulla? – domandò, dopo un breve e grave silenzio, quel signore.

             –    Nulla. Ma c’è chi sa! – disse con un lampo negli occhi la signora Lucietta. – Il vero assassino del Loffredi, creda, non fu il sicario che lo colpì proditoriamente a le spalle e scomparve. Hanno voluto insinuare, per motivo di donne… No, sa! Vendetta. È stata una vendetta politica. Per il tempo che il Loffredi aveva da pensare alle donne, una gli era anche di troppo. Gli bastavo io. Si figuri, mi prese a quindici anni!

             In così dire, il viso della signora Lucietta si fece rosso rosso, gli occhi le brillarono inquieti, sfuggirono di qua, di là, e alla fine si chinarono come dianzi.

             Quel signore stette un pezzo ad osservarla, impressionato del rapido passaggio dall’eccitazione improvvisa all’improvvisa mortificazione.

             Ma via! come prendere a lungo sul serio quell’eccitazione e questa mortificazione? Benché mamma di quei due piccini, pareva ancora una bambina, anzi una bamboletta; e s’era forse mortificata lei stessa d’aver con tanta fermezza e così in prima, asserito che il Loffredi, avendo per moglie una cosina così fresca e vispa come lei, non aveva potuto pensare ad altre donne.

             Doveva essere sicura che nessuno, vedendola e sapendo che uomo era stato il Loffredi, le avrebbe creduto. Vivo il Loffredi, ella aveva dovuto averne, certo, una gran suggezione; forse, ricordandolo, ne aveva ancora. Ma non poteva soffrire si sospettasse che il Loffredi aveva potuto non curarsi di lei, e che ella era stata per lui una bamboletta e nient’altro. Voleva esser l’erede unica almeno di tutto il chiasso, che la tragica fine del fiero e impetuoso giornalista genovese aveva sollevato, circa un anno addietro, in tutta la stampa quotidiana d’Italia.

             Fu molto soddisfatto quel signore d’avere così bene indovinato l’animo e l’indole di lei, allorché, spintala con brevi e accorte domande a parlare de’ suoi casi, n’ebbe la conferma dalla sua stessa bocca.

             Una gran tenerezza s’impadronì allora di lui per le arie di libertà che si dava quella calandrella or ora uscita dal nido, inesperta ancora del volo; per le fiere proteste che faceva del suo avvedimento e del suo gran coraggio. Ah, che! che! non sarebbe mai perita lei. Figurarsi, dall’oggi al domani, sbalzata da uno stato all’altro, tra l’orrore e il trambusto della tragedia, non s’era perduta un momento; era corsa qua, era corsa là; aveva fatto questo e quest’altro, non tanto per sé, no, quanto per quei due poveri piccini… ma via, sì, un po’ anche per sé, che in fin dei conti aveva appena vent’anni. Venti, già, e non li mostrava nemmeno. Un altro ostacolo, questo, e il più dispettoso di tutti. Perché ognuno, vedendola accanita e disperata, si metteva a ridere, quasi ella non avesse il diritto d’accanirsi tanto, di disperarsi tanto. Ah che rabbia! Ma più s’arrabbiava, e più gli altri ridevano. E, ridendo, chi le prometteva una cosa e chi un’altra; ma tutti avrebbero voluto accompagnare la promessa con una carezzina che non osavano farle, ma che ella leggeva loro chiaramente negli occhi. S’era stancata, alla fine; e, pur d’uscirsene, eccola là: telegrafista a Pèola!

             –    Povera signora! – sospirò, sorridendo anche lui, il compagno di viaggio.

             –    Povera perché?

             –    Eh… perché… vedrà, non si divertirà molto, a Pèola. E le diede qualche ragguaglio del paesello.

             Per tutte le viuzze e le piazzette la noja, a Pèola, era visibile e tangibile, sempre.

             – Visibile? Come?

             In una infinita moltitudine di cani, che dormivano da mane a sera, sdrajati su l’acciottolato delle vie.

             Non si svegliavano neanche per grattarsi, quei cani; o meglio, si grattavano, seguitando a dormire.

             E guaj a chi, a Pèola, apriva la bocca per sbadigliare.! Gli restava aperta per un’infilata di almeno cinque sbadigli alla volta. Entrata in bocca a uno, la noja non si risolveva a uscirne facilmente. E tutti, a Pèola, per ogni cosa da fare chiudevano gli occhi e sospiravano:

             – Domani…

             Perché oggi o domani era lo stesso, cioè domani non era mai.

             – Vedrà quanto poco avrà da fare all’ufficio del telegrafo, – concluse. – Non se ne serve mai nessuno. Vede questo trenino? Va col passo d’una diligenza.

             E anche la diligenza rappresenterebbe un progresso per Pèola. La vita, a Pèola, va ancora in lettiga.

             –    Dio Dio, lei mi spaventa! – disse la signora Lucietta.

             –    Non si spaventi, via! – sorrise quel signore. – Ora le do una buona notizia: fra pochi giorni avremo al Circolo una festa da ballo.

             – Ah…

             E la signora Lucietta lo guardò come colta in un lampo dal sospetto, che anche questo signore si volesse burlar di lei.

             –    Ballano i cani? – domandò.

             –    No: i «civili» di Pèola… Ci vada: si divertirà. Giusto il Circolo è su la piazza, vicino all’ufficio del telegrafo. Ha trovato l’alloggio?

             La signora Lucietta rispose di sì, che lo aveva trovato nella stessa casa che prima ospitava l’ufficiale telegrafico suo predecessore. Poi domandò:

             –    E lei, scusi… il suo nome?

             –    Silvagni, signora. Fausto Silvagni. Sono il segretario comunale.

             –    Oh, guarda! Piacere. – Mah!

             E il Silvagni levò una mano dal pomo del bastone a un gesto sconsolato, atteggiando il volto d’un sorriso amarissimo, che gli velò d’intensa malinconia i grandi occhi chiari.

             Il treno salutò con un fischio lamentoso la stazionuccia di Pèola.

             – Qua?

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             II. Tra quell’ampia chiostra di monti azzurrini qua e là spaccata da vaporose vallate, fosche di querci e d’abeti, gaje di castagni, Pèola, col suo mucchietto di tetti roggi e i suoi quattro campaniletti scuri, le anguste piazzette sbieche e le viuzze scoscese tra case piccole vecchie e case un po’ più grandi nuove, aveva dunque il privilegio d’ospitare la vedova di quel giornalista Loffredi, della cui tragica morte ancora avvolta nel mistero si seguitava di tanto in tanto a parlare nei giornali delle grandi città. Privilegio non comune, poter sapere dalla viva voce di lei tante cose che gli altri, nelle grandi città, non sapevano; ma anche solamente vederla e poter dire:

             – Il Loffredi, vivo, tenne stretta fra le braccia quella cosina lì.

             I «civili» di Pèola ne erano tutti insuperbiti. Quanto ai cani, credo che in verità avrebbero seguitato a dormire pacificamente sdrajati per le viuzze e le piazzette del paese, senza il minimo sentore di quel privilegio non comune, se tutt’a un tratto, essendosi sparsa la voce della cattiva impressione che avevano fatto e facevano col loro sonno continuo alla signora Lucietta la gente, specie i giovanotti, ma anche gli uomini maturi, non si fossero messi a disturbarli, e cacciarli via a calci, o pestando i piedi e battendo le mani, per chiasso.

             Le povere bestie si levavano da terra, più stupite che seccate; guardavano di traverso, alzando appena un’orecchia: poi, alcune ballonzolando su tre zampe con la quarta aggranchita e rattratta, andavano a sdrajarsi più là. Ma che cos’era accaduto?

             Forse l’avrebbero capito, se fossero stati cani un poco più intelligenti e meno imbalorditi dal sonno. Bastava, santo Dio, fermarsi un po’ a guardare dalle imboccature della piazzetta ove a nessuno di loro era più permesso, non che di sdrajarsi, ma neppur di passare di corsa.

             C’era in quella piazzetta l’ufficio del telegrafo.

             Si sarebbero accorti (se fossero stati cani un poco più intelligenti) che tutti, passando di là, specialmente i giovìnotti, ma anche gli uomini maturi, pareva entrassero in un’altra aria, più vivida, per cui il passo, i moti della persona, diventavano subito più svelti, più agili; e le teste si rigiravano come se, per un tuffo di sangue improvviso, non trovassero più da rassettarsi entro il giro del colletto inamidato, e le mani si davano un gran da fare per tirar giù il panciotto e accomodar la cravatta.

             Attraversata la piazzetta, erano poi tutti com’ebbri, ilari e nervosi; e, vedendo un cane:

             –    Passa via!

             –    Fuori dai piedi!

             –    Via di qua, brutta bestiaccia!

             E anche sassate – non bastavano i calci – anche sassate tiravano, ohe!

             Per fortuna, in ajuto di quei poveri cani, qualche finestra si spalancava di furia, e una testa di donna, con occhi feroci, tra due pugna tese rabbiosamente s’avventava a gridare:

             – Ma che v’ha preso, manigoldi, contro codeste povere bestie? Oppure:

             – Anche lei? Anche lei, signor notajo? Come non si vergogna, scusi? Ma guarda che calcio a tradimento, povera bestiolina! Qua, cara, vieni qua… La zampina, guardate… le ha storpiato la zampina e se ne va col sigaro in bocca, come se non sapesse niente, vergogna, un uomo serio!

             In breve, una vivissima simpatia venne a stabilirsi tra le brutte donne di Pèola e quei poveri cani presi così tutt’a un tratto a perseguitare da’ loro uomini, mariti, padri, fratelli, cugini, fidanzati e in fine, per contagio, anche da tutti i ragazzacci.

             Quell’aria nuova, che i loro uomini respiravano da alcuni giorni e per cui avevano gli occhi così lustri e l’aspetto stralunato, esse sì, le donne, un poco più intelligenti dei cani (almeno alcune) l’avevano avvertita subito. S’era come diffusa sui roggi tetti ammuffiti e in ogni angolo del vecchio sonnolento paesello e lo ilarava tutto (agli occhi degli uomini, s’intende).

             Ma sì. La vita… – angustie, noje, amarezze… poi, tutt’a un tratto, ecco, si ride… Oh Dio, così… per niente – si ride. Se dopo giorni e giorni di bruma e di pioggia spunta un occhio di sole, non s’allegrano tutti i cuori? non traggono tutti i petti un respiro di sollievo? Ebbene, che cos’è? Niente, un occhio di sole; e la vita appare subito un’altra. Il peso della noja s’alleggerisce; i pensieri più cupi s’inazzurrano; chi non è voluto uscir di casa, viene all’aperto… Ma sentite che buon odore di terra bagnata? Oh Dio come si respira bene… Frescura di funghi, eh? E tutti i disegni per la conquista dell’avvenire diventano facili, agevoli; e ciascuno si scrolla d’addosso il ricordo delle bussate più solenni, riconoscendo che, via, aveva dato ad esse troppa importanza. Che diamine, su, su! Che, su? Ma sì, bisogna tenersi su… I baffi? Ma sì, anche i baffi su!

             – Cara, perché non ti pettini un pochino meglio?

             Effetti dell’occhio di sole spuntato improvvisamente a Pèola nella piazzetta dell’ufficio telegrafico. Oltre la persecuzione ai cani, questa domanda di tanti mariti alla loro moglie:

             – Perché, cara, non ti pettini un pochino meglio?

             E mai, certo, da anni e anni, al Circolo, per via, nelle case, a passeggio, avevano canticchiato tanto, senza volerlo, senza saperlo, i «civili» di Pèola.

             La signora Lucietta vedeva e sentiva tutto questo. Il guizzare di tanti desiderii da occhi accesi che la seguivano in tutte le mosse e la carezzavano con lo sguardo voluttuosamente, il calore di simpatia che la avvolgeva, inebriarono in breve anche lei.

             Non ci sarebbe voluto tanto, perché già fremeva, friggeva di per sé, la signora Lucietta. Che impiccio le davano certe ciocchette di capelli, che le cadevano su la fronte appena chinava il capo per seguire con gli occhi il nastro di carta punteggiato che si svolgeva dalla macchinetta ticchettante sul tavolino dell’ufficio! Scrollava il capo e quasi sobbalzava, come per un vellicamento di sorpresa. E che improvvise caldane e che subitanei arresti di respiro, che finivano a un tratto in una stanca risatina! Oh, ma piangeva anche, sì, sì, piangeva in certi momenti, senza saper perché. Lagrime calde, brucianti, per un oscuro, improvviso scompiglio nella mente, per uno strano orgasmo, che le dava un serpeggiar di smanie per tutto il corpo, un’insofferenza… Non poteva frenarle, quelle lagrime, e sbuffava, sbuffava di stizza, ma poi, subito dopo, per un nonnulla, ecco, si rimetteva a ridere.

             Per non pensare a niente, per non andare svolazzando con la fantasia dietro ogni immagine comica o pericolosa, per non sorprendersi assorta in certe previsioni inverosimili, l’unica era d’attendere giudiziosamente al suo ufficio; raccogliersi, prendere a due mani e tener ben ferma l’attenzione, perché tutto procedesse là dentro in perfetta regola, con perfetto ordine. E ricordarsi, ricordarsi sempre che a casa intanto, affidati a una vecchia serva molto stupida e rozza, c’erano i suoi due poveri piccini orfani. Che pensiero era questo! Tirarli su, da sola, col suo lavoro, col suo sacrificio, quei figliuoli! miseramente, pur troppo; oggi qua, domani là, randagia con essi… E poi, quando sarebbero cresciuti, quando si sarebbero fatta una vita per loro, forse del suo sacrificio, di tutte le sue pene non avrebbero tenuto alcun conto. No, via! via! Erano ancor tanto piccini… Perché immaginare queste cose brutte? Sarebbe stata vecchia, lei, allora; sarebbe passato comunque il suo tempo; e quando il tempo è passato e si è vecchi, anche ai ricordi tristi siamo già abituati a far buon viso…

             Chi diceva così? Lei, lo diceva. Ma non perché veramente le sorgessero spontanee nell’animo queste considerazioni affliggenti. Passava ogni mattina dall’ufficio, e talvolta anche sul tramonto, quando usciva dal Municipio, il segretario comunale, quel signor Silvagni incontrato sul treno. Si tratteneva un momento, lì sull’uscio o davanti lo sportello; le parlava di cose aliene, anche liete; rideva con lei della caccia che si dava ai cani, per esempio, e delle difese che ne prendevano le donne brutte del paese. Ma negli occhi di quell’uomo, in quei grandi occhi chiari, intenti e tristi che le restavano a lungo impressi nella memoria dopo ch’egli se n’era andato via, la signora Lucietta leggeva quelle considerazioni affliggenti. Il pensiero dei figliuoli, ogni volta, chi sa perché?, glielo richiamava lui, angosciosissimo; pur senza ch’egli ne avesse chiesto affatto o glien’avesse fatto parola per incidenza.

             Tornava a sbuffare, a ripetersi che i suoi figliuoli erano ancor tanto piccini… e dunque, via! perché avvilirsi? non doveva e non voleva. Là, su, su, coraggio! Era giovine, lei, per ora… tanto giovine… e dunque…

             – Come dice, signore? Ma sì: conti le parole del telegramma, e poi calcoli due soldi di più. Vuole un modulo a stampa? No? Ah, tanto per saperlo… Ho capito. A rivederla, signore… Ma di niente, si figuri…

             Quanti ne entravano all’ufficio a rivolgerle di quelle stupide domande! Come non ridere? Eran pur buffi davvero tutti quei signori di Pèola. E quella commissione di giovinotti, soci del Circolo di compagnia, col loro bravo presidente anziano, entrata all’ufficio una mattina, per invitarla alla famosa festa da ballo annunziatale in treno dal signor Silvagni! Che scena! Tutti con gli occhi spiritati, che da un canto pareva se la volessero mangiare e dall’altro provassero una strana maraviglia nell’accorgersi che dà vicino ella aveva il nasetto così e così, così e così la bocca e gli occhi e la fronte, per non parlare che della testa soltanto! Ma i più impertinenti erano anche i più impacciati. Nessuno sapeva come cominciare:

             – Vorrà farci l’onore… – E consuetudine annuale, signora… – Una piccola soirée damante… – Oh, ma senza pretese, si figuri! – Festa in famiglia… – Ma sì, lasciate dire! – È consuetudine annuale, signora… – Ma via, che dice! basta che voglia veramente onorarci…

             Si torcevano, si strizzavano le mani, si guardavano in bocca l’un l’altro nell’atto che si buttavano a parlare, mentre il presidente, che era anche il sindaco del paese, s’intozzava sempre più, paonazzo dalla stizza. S’era preparato il discorso, lui, e non glielo lasciavano dire. S’era passato anche il cerotto con gran cura su la lunga ciocca di capelli rigirata sul cranio, e aveva infilato i guanti canarini e inserito due dita, dignitosamente, tra i bottoni del panciotto.

             – È consuetudine annuale, signora…

             La signora Lucietta, confusa, per quanto con una gran voglia di ridere e tutta vermiglia in volto per quei pressanti inviti, più degli occhi cupidi che delle labbra impacciate, cercò di schermirsi in prima: era ancora a lutto, lo sapevano… e poi, i due figliuoli… stava con loro la sera soltanto… non li vedeva per tutto il giorno… era usa metterli a letto lei… e poi aveva tante cose a cui attendere…

             – Ma via! per una sera… – Poteva anche venire dopo averli messi a letto… – E non c’era la serva?… per una sera!

             A uno dei giovanotti, nella furia, scappò detto finanche:

             – Il lutto? Ma che sciocchezza!

             Ebbe una gomitata in un fianco e non fiatò più.

             La signora Lucietta promise in fine che sarebbe andata, o piuttosto, che avrebbe fatto di tutto per andare; ma poi, quando tutti se ne furono andati, rimase a guardarsi nella manina bianca posata su la veste nera il cerchietto d’oro che il Loffredi sposando le aveva messo al dito. La sua manina era allora così gracile: manina di ragazzetta; e ora che le dita erano un po’ ingrossate, quell’anellino le faceva male. Così stretto era, che non poteva cavarselo più…

*******

             III. Nella camera da letto del vecchio quartierino mobigliato, la signora Lucietta ora stava a dire a se stessa di no, che non sarebbe andata; e intanto dondolava – aòh  – su le ginocchia il suo angioletto biondo, vestito di nero – aòh, aòh  – questo suo più piccino, caro caro, che voleva ogni sera addormentarsi in braccio a lei.

             L’altro, il maggiore, spogliato dalla vecchia serva taciturna, s’era messo da sé per benino nel suo lettuccio e… sì? Sì sì, che bellezza! già dormiva.

             Con la maggior leggerezza di mano possibile la signora Lucietta prendeva ora a svestire il piccino già addormentato anch’esso in grembo a lei; pian pianino le scarpette, una e due; pian pianino i calzini, uno… e due; e via ora i calzoncini insieme con le mutandine… e ora, ah ora veniva il difficile: sfilare i braccìni dalle maniche del giubbetto alla cacciatora: su, piano piano, con l’ajuto della serva… non così, di qua… sì, giù… piano… piano, ecco fatto! E ora da quest’altra parte…

             – No, amore… Sì, qua, qua con la mamma tua… è mamma tua qua… Lasciate, faccio da me… Rimboccate la coperta, piuttosto… sì, costà, pian pianino…

             Ma perché poi così tanto pian pianino?

             A un anno appena dalla tragica morte del marito voleva proprio andare a ballare? No, non sarebbe andata forse la signora Lucietta, se tutt’a un tratto, uscita dalla camera da letto nell’attigua saletta d’ingresso, non avesse visto davanti la finestra chiusa di quella saletta un prodigio, un vero prodigio.

             Stava da tanti giorni in quel quartierino d’affitto, e non s’era neanche accorta che davanti la finestra della saletta d’ingresso ci fosse un vecchio portafiori di legno, tutto impolverato.

             In quel portafiori, quasi all’improvviso, fuor di stagione, era sbocciata una magnifica rosa rossa.

             La signora Lucietta restò dapprima a mirarla, stupita, tra lo smortume della tappezzeria grigiastra, di quella sudicia saletta. Poi, dalla gioja di quella rosa rossa ebbe come un tuffo nel sangue. Vide vivo lì in quella rosa il suo desiderio ardente di godere una notte almeno. E liberatasi d’un tratto dalla perplessità che finora la aveva tenuta, dall’orrore dello spettro del marito, dal pensiero dei figli, corse, staccò dal gambo quella rosa e istintivamente, presentandosi davanti allo specchio su la mensola, se la accostò al capo.

             Sì, là! Con quella sola rosa tra i capelli sarebbe andata alla festa, e i suoi vent’anni, e la sua gioja vestita di nero…

             – Via!

*******

             IV. Fu l’ebbrezza, fu il delirio, fu la pazzia.

             Al suo primo apparire, quando già quasi tutti avevano perduto la speranza ch’ella venisse, le tre cupe sale del Circolo a pianterreno, divise da due larghe arcate, malamente illuminate da lampade a petrolio e da candele, parve che all’improvviso sfolgorassero di luce, tant’era acceso e quasi sbigottito dal fremito interno del sangue il suo visino, e così fulgidamente le sfavillarono gli occhi e così pazza di gioja le strideva quella rosa di fuoco tra i capelli neri.

             Tutti gli uomini perdettero la testa. Irresistibilmente, sciolti d’ogni freno di convenienza, d’ogni riguardo alla gelosia delle mogli o delle fidanzate, all’invidia delle zitellone, figliuole, sorelle, cugine, sotto colore che bisognava accogliere con festa l’ospite forestiera, accorsero a lei in folla, con vivaci esclamazioni, e lì per lì, subito, poiché già le danze erano cominciate, senza neanche darle tempo di volgere un’occhiata attorno, presero a contendersela tra loro. Quindici, venti braccia le s’offrirono col gomito teso. Tutti da prendere; ma quale per primo? A uno per volta, sì… Avrebbe un po’ per volta ballato con tutti… Ecco, largo! largo! Su, e la musica? Ma che facevano i musicanti? S’erano anch’essi incantati a mirare? Musica! musica!

             E via, tra i battimani, ecco spiccata la prima danza col vecchio sindaco e presidente del Circolo, in abito lungo.

             –    Ma bravo! ma bravo!

             –    Che scosci, guardate!

             –    Uh, le falde della finanziera… guardate, guardate quelle falde, come s’aprono e chiudono su i calzoni chiari!

             –    Ma bravo! ma bravo!

             –    Oh Dio, la ciocca! la ciocca incerottata… gli si stacca la ciocca!

             –    Che? La conduce a sedere? Di già? – E altre quindici, venti braccia col gomito teso le si parano davanti.

             –    Con me! con me!

             –    Un momento! un momento!

             –    L’ha promesso a me!

             –    No, prima a me!

             Dio, che scandalo! Per miracolo non facevano a strattarsi l’un l’altro.

             I respinti, in attesa che venisse il loro turno, si recavano mogi mogi a invitare altre dame, delle loro; qualcuna più brutta, accettava ingrugnata; le altre, indignate, stomacate, rifiutavano con un:

             – Grazie tante! – a schizzo.

             E si scambiavano tra loro con occhi feroci sguardi di schifo; qualcuna scattava da sedere, faceva cenni violenti di volersene andare; invitava questa e quell’amica a seguirla: via tutte! via tutte! Non s’era mai vista simile indecenza!

             Alcune quasi piangenti, altre tremanti di rabbia, si sfogavano con certi omicelli stremenziti nei vecchi abitucci lustri, di taglio antico, odoranti di pepe e di canfora. Come foglie secche, per non esser rapiti dal turbine, s’erano costoro ritratti al muro, riparati tra le oneste gonne di seta delle loro mogli o cognate o sorelle, goffe gonne a sbuffi e a falbalà, stridenti dei più vivaci colori, verdi, gialle, rosse, celesti, che ermeticamente, con gran conforto delle loro nari e della loro coscienza, custodivano, così prese dal tanfo delle onorate cassapanche, gli arcigni pudori provinciali.

             Il caldo a poco a poco nelle tre sale s’era fatto soffocante. Quasi una nebbia s’era diffusa dal vaporare della bestialità di tutti quegli uomini; bestialità ansante, bollente, paonazza, sudata, che del sudore, nelle brevi tregue allucinate, profittava con occhi folli per rassettarsi, incollarsi, rilisciarsi con mani tremanti sul capo, su le tempie, su la nuca, i capelli bagnati, irsuti. E si ribellava ormai, quella bestialità, con tracotanza inaudita a ogni richiamo della ragione: veniva una volta l’anno la festa! Del resto, nulla di male! Zitte e a posto, le donne!

             Fresca, leggera, tutta compresa nella sua gioja che respingeva ogni contatto brutale, ridendo e guizzando con scatti improvvisi, per appagarsi di se stessa, intatta e pura in quel suo momento di follia, agile fiamma volubile in mezzo al tetro fuoco di tutti quei ciocchi congestionati, la signora Lucietta, vinta la vertigine, divenuta lei stessa vertigine, ballava, ballava, senza più nulla vedere, senza più distinguere nessuno; e gli archi delle tre sale, i lumi, i mobili, le stoffe gialle, verdi, rosse, celesti delle signore, gli abiti neri e i candidi sparati delle camice degli uomini, tutto le s’avvolgeva ormai attorno in strisci vorticosi. Si staccava d’un balzo dalle braccia d’un ballerino, appena lo sentiva stanco, pesante, ansimante, e subito si buttava tra altre braccia, le prime che si vedeva tese davanti, e via, via per riavvolgersi in quegli strisci vorticosi, per farsi girare ancora attorno in frenetico scompiglio tutti quei lumi e tutti quei colori.

             Seduto nell’ultima sala, accosto al muro in un canto quasi in ombra, Fausto Silvagni, con le mani sul pomo del bastone e su le mani la grossa barba fulva, da circa due ore la seguiva coi grandi occhi chiari, animati da un benigno sorriso. Egli solo intendeva tutta la purezza di quella folle gioja, e ne godeva; ne godeva come se quel tripudio innocente fosse un dono della sua tenerezza a lei.

             Tenerezza solo? ancora solo tenerezza? non gli palpitava già troppo dentro, per essere ancora solo tenerezza?

             Da anni e anni Fausto Silvagni con quei suoi occhi intenti e tristi guardava come da lontano ogni cosa; come remote ombre evanescenti, gli aspetti vicini; e dentro di sé, i suoi stessi pensieri e i suoi sentimenti.

             Fallita per avversità di casi, per gravosi obblighi meschini la sua vita, spenta sul più bello la luce di tanti sogni tenuta fin da ragazzo accesa con l’ardore di tutta l’anima (sogni che ora non poteva richiamare al suo ricordo senza strazio e senza rossore), rifuggiva dalla realtà, nella quale era costretto a vivere. Ci camminava; se la vedeva attorno; la toccava; ma nessun pensiero, nessun sentimento ne veniva più a lui; e anche se stesso vedeva come lontano da sé, perduto in un esilio angoscioso.

             Ora, in questo esilio, un sentimento all’improvviso era venuto a raggiungerlo; un sentimento ch’egli avrebbe voluto tener discosto per non riconoscerlo ancora. Non avrebbe voluto riconoscerlo, ma non osava più neanche scacciarlo.

             Non era forse volata da’ suoi sogni lontani, questa cara folle fatina vestita di nero, con una rosa di fiamma tra i capelli? Potevano anche essere i suoi sogni stessi, divenuti vivi, ora, in questa fatina, perché egli, non avendo potuto raggiungerli allora sott’altra forma, in questa se li stringesse vivi e spiranti tra le braccia… Chi sa! Non poteva fermarla, trattenerla e ritornare per essa e con essa finalmente dal suo lontano esilio? Se egli non la fermava, se egli non la tratteneva, chi sa dove e come sarebbe andata a finire, quella povera fatina folle. Aveva bisogno d’ajuto, anche lei, bisogno di guida e di consiglio, così sperduta anche lei in un mondo non suo, e con quella gran voglia di non perdersi, ma anche ahimè, di godere. Quella rosa lo diceva, quella rosa rossa tra i capelli…

             Fausto Silvagni guardava da un pezzo, costernato, quella rosa. Non sapeva perché. La vedeva su quel capo come una fiamma… Si scoteva tanto quella testolina folle; come non cascava quella rosa? Ebbene, temeva di questo? Non sapeva dirselo, e seguitava a guardarla, costernato.

             Dentro, intanto, sotto sotto, il cuore gli diceva, tremando:

             «Domani; domani o uno di questi giorni, parlerai… Ora lascia ch’ella balli così, come una fatina folle…».

             Ma ormai la maggior parte dei cavalieri cascavano a pezzi dalla stanchezza; si dichiaravano vinti e si voltavano attorno, come ubriachi, in cerca delle loro donne andate via. Solo sei o sette ancora resistevano, accaniti, tra cui due anziani – chi l’avrebbe creduto? – il vecchio sindaco in abito lungo e il notajo vedovo, tutt’e due in uno stato miserando, con gli occhi schizzanti dalle orbite, le facce sudate, infocate, impiastricciate di tintura, la cravatta di traverso, la camicia spiegazzata, tragici in quel loro furore senile. Erano stati finora respinti dai giovanotti; ora, frenetici, si rilanciavano per farsi buttare uno dopo l’altro come balle su le seggiole, appena compiuti due giri.

             Era la stretta finale, l’ultima danza.

             Se li vide tutti e sette attorno, sopra, aggressivi, furibondi, la signora Lucietta.

             –   Con me! con me! con me! con me!

             N’ebbe sgomento. D’un tratto le s’avventò agli occhi la bestiale sovreccitazione di quegli uomini, e al pensiero ch’essi avessero potuto bestialmente accendersi per la sua innocente festività, provò ribrezzo, onta. Volle fuggire, sottrarsi a quell’aggressione; ma, allo scatto di cerbiatta, i capelli già un po’ allentati le cascarono; e la rosa – giù a terra.

             Fausto Silvagni si tirò su a guardare, come sospinto dal presentimento oscuro d’un imminente pericolo. Ma già quei sette s’eran precipitati a raccogliere la rosa. Riuscì a ghermirla il vecchio sindaco, a costo d’un tremendo sgraffio alla mano.

             –    Eccola! – gridò, e corse con gli altri a porgerla alla signora Lucietta riparata in fondo alla seconda sala per ricomporsi alla meglio i capelli. – Eccola qua… Ma no, che grazie! Ora lei… – (non aveva più fiato da parlare, il vecchio sindaco; la testa gli ciondolava) – …ora lei deve far la scelta… ecco… deve offrirla, qua, a uno…

             –    Bravo! bene!

             –    A uno… a sua scelta… bravissimo!

             –    Vediamo! Vediamo!

             –    A chi l’offre? A sua scelta!

             –    Il giudizio di Paride!

             –    Silenzio! Vediamo a chi l’offre!

             Anelante, col braccio teso e la bellissima rosa alta nella mano, la signora Lucietta guardò quei sette infuriati, come, voltandosi nel sentirsi sopraffatta, una preda inseguita i suoi assalitori. Intuì subito che volevano a ogni costo ch’ella si compromettesse.

             –   A uno? a mia scelta? – gridò all’improvviso, con un lampo negli occhi. – Ebbene, sì… a uno l’offrirò… Ma scostatevi prima… scostatevi tutti! No, più… più… ecco, così… L’offrirò… l’offrirò…

             Saettava con lo sguardo ora l’uno ora l’altro, come fosse incerta nella scelta; e incerti e goffi, con le mani protese e nelle facce brutali e stravolte una smorfia d’implorazione sguajata, quei sette pendevano dal visino di lei ora sfolgorante di malizia, allorché d’un balzo ella, sguizzando tra gli ultimi due alla sua manca, prese la corsa verso la prima sala. Aveva trovato lo scampo: offrire la rosa a uno di quelli che se n’erano stati tutta la serata quieti a guardare, seduti accosto al muro: a uno qual si fosse, il primo che capitava in direzione della corsa.

             –   Ecco qua! L’offro qua a…

             Si trovò davanti i grandi occhi chiari di Fausto Silvagni. Smorì d’un tratto; restò un momento come sospesa, confusa, tremante, alla vista del volto di lui; le sfuggì un’esclamazione sommessa: – Oh Dio… – ma si riprese subito:

             –   Sì, per carità… ecco, a lei, prenda, prenda signor Silvagni!

             Fausto Silvagni prese la rosa e si voltò con un sorriso vano, squallido, a guardare quei sette che s’erano precipitati appresso a lei gridando come ossessi:

             –    No, che c’entra lui? – A uno di noi! – Doveva offrirla a uno di noi!

             –    Non è vero! – protestò la signora Lucietta battendo un piede fieramente. – S’è detto a uno, e basta! E io l’ho offerta qua al signor Silvagni!

             –    Ma questa è una dichiarazione d’amore bell’e buona! – gridarono allora quelli.

             –    Che? – ripigliò la signora Lucietta, facendosi in volto di bragia – Ah, nossignori, prego! Sarebbe stata una dichiarazione, se la avessi offerta a uno di loro! Ma l’ho offerta al signor Silvagni, che non s’è mosso, tutta la serata, e che dunque non può crederlo, è vero? non può crederlo! Come non possono crederlo neanche loro!

             –    Ma sì, ma sì che noi lo crediamo! Lo crediamo invece benissimo! Anzi! tanto più lo crediamo; – protestarono quelli a coro. – Proprio a lui oh! proprio a lui!

             La signora Lucietta si sentì tutta sconvolgere da un dispetto feroce. Non era più uno scherzo ormai! la malignità schizzava da quegli occhi, da quelle bocche; era chiara nei loro ammiccamenti, nei loro grugniti l’allusione alle visite del Silvagni all’ufficio, alla bontà ch’egli le aveva dimostrato fin dal suo arrivo. E quel pallore, intanto, quel turbamento di lui davano esca ai sospetti maligni. Perché quel pallore, quel turbamento? Poteva forse credere anche lui, che ella…? Non era possibile! E perché allora? Forse perché lo credevano gli altri! Invece d’impallidire e di turbarsi a quel modo, avrebbe dovuto protestare! Non protestava; impallidiva sempre più, e una crudele sofferenza gli s’acuiva di punto in punto negli occhi.

             Intuì tutto in un lampo la signora Lucietta, e n’ebbe come uno schianto. Ma in quell’attimo d’angosciosa perplessità, di fronte alla sfida di quei sette impudenti sconfitti che seguitavano a strillarle intorno con furia dilaniatrice:

             –    Ecco! ecco, vede? Lo dice lei, ma non lo dice lui!

             –    Come non lo dice? – gridò, lasciando prevalere, tra il guizzare e il cozzare di tanti opposti sentimenti, il dispetto.

             E, facendosi innanzi al Silvagni, agitata da un fremito convulso, guardandolo negli occhi, gli domandò:

             – Può lei credere sul serio che, offrendole codesta rosa, io abbia voluto farle una dichiarazione?

             Fausto Silvagni restò un momento a guardarla con quel sorriso squallido di nuovo sulle labbra.

             Povera fatina, forzata dall’impeto bestiale di quegli uomini a uscire dal cerchio magico di quella pura gioja, di quell’innocente ebbrezza, nella quale come una pazzerella s’era aggirata! Ecco che ora, pur di difendere di tra l’accanimento dei brutali appetiti di quegli uomini l’innocenza del dono di quella rosa, l’innocenza di quella sua folle gioja d’una sera, esigeva da lui la rinunzia a un amore che sarebbe durato per tutta la vita, una risposta che valesse per ora e per sempre, la risposta che doveva far subito appassire tra le sue dita quella rosa.

             Sorgendo in piedi e guardando con fredda fermezza quegli uomini negli occhi, disse:

             – Non solo non posso crederlo io; ma stia sicura che non lo crederà mai nessuno, signora. Ecco a lei la rosa; io non posso, la butti via lei.

             La signora Lucietta riprese con mano non ben ferma quella rosa e la buttò via in un canto.

             – Ecco, sì… grazie… – disse; sapendo bene ormai ciò che con quella rosa d’un momento aveva buttato via per sempre.

La rosa – Audio lettura 1 – Legge Renzo Clerico
La rosa – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La rosa – Audio lettura 3 – Legge
Giuseppe Tizza
La rosa – Audio lettura 4 – Legge 
Valter Zanardi

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