La rivoluzione di Pirandello

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Di Arcangelo Leone de Castris

Lungi dall’essere, come per tanto tempo il buon senso di molti ignoranti ha creduto, un velleitario filosofo del sofisma, un dilettante ad oltranza del paradosso, egli era il più cosciente testimone, oltre che la vittima prima, del fallimento della filosofia, il più sofferente denigratore della logica, colui che più d’ogni altro ha denunziato il ridicolo e immorale paradosso, l’utilitario tranello, della ragione tradizionale.

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La rivoluzione di Pirandello

La rivoluzione di Pirandello

da Storia di Pirandello, Appendice

La «fortuna» di Pirandello, quale che sia l’angolazione critica dalla quale ci si disponga ad analizzarla, rivela oggettivamente un suo connotato fondamentale e costante, rintracciabile sin dal momento della polemica crociana come ancora evidente oggi, nelle terroristiche reazioni antipirandelliane dei più conservatori e anacronistici (anche se talora mascherati da progressisti) tra i letterati italiani: ed è che il rapporto tra il gesto espressivo di Pirandello e la nostra cultura è andato sempre più definendosi come rapporto dialettico, anzi di immediata e violenta provocazione.

Tanto che chiunque non voglia eludere i propri compiti critici e storiografici deve accettare di rimettere in gioco gli elementi della provocazione: nella misura in cui questa parola (e, insieme, la funzione stessa della critica letteraria) si intenda come ricerca delle contraddizioni, critica della falsa coscienza critica, impegnato recupero dei significati di un’arte (specchio-per-la-vita) che volle essere soprattutto un confronto drammatico con le ideologie e con la società del suo tempo.

     Era la società che alla diagnosi negativa del drammaturgo siciliano preferiva, com’è ovvio, la morbosa e dissipante facilità dell’avventura «poetica» di D’Annunzio.

Il primo distruggeva, uno ad uno, i miti comodi, gli allegri istituti, dell’ottimismo piccolo-borghese; il secondo celebrava in ritmi frenetici e pacchiani il genio della stirpe e l’eterna giovinezza del sangue. Sicché pare inevitabile già preliminarmente affermare che la crisi della cultura e della società italiana del primo Novecento non è solo la condizione primaria e l’ambito formativo dell’arte di Pirandello, ma anche la ragione di fondo dei tanti atteggiamenti mentali e dei tanti modi culturali attraverso i quali si trasmise la resistente incomprensione della sua testimonianza, e cioè la ignorante elusione o la raffinata mistificazione della sua carica aggressiva e provocatoria: modi diversi, ma consanguinei ed organici, dall’ostracismo volgare e dalla puristica svalutazione «poetica» alla più sapiente e distratta indifferenza, al calcolato esilio dello scrittore nel limbo dei personaggi rappresentativi e geniali, ma stravaganti ed astratti.

La mentalità pigramente conservatrice di quella società e il liberalismo formale della sua ideologia non potevano comunque non relegare la coscienza più vigile e acuta del Novecento in zone inoffensive e incruente, donde il suo messaggio perdesse le sue tonalità originarie più fastidiose e traumatizzanti. Era una difesa oggettiva. E, tra le sue strategie più efficaci e coerenti, non è certo casuale la cura con cui il Croce si preoccupava di eliminare tout court Pirandello dal mondo dell’arte e dell’alta cultura, rifiutando e insieme minimizzando e occultando il senso dell’operazione pirandelliana: ben più pericolosa ed eversiva della rivolta rumorosa ma sostanzialmente integrabile delle avanguardie ufficiali e persino delle loro più o meno dirette autorizzazioni filosofico-irrazionalistiche, tutte inevitabilmente destinate ad attingere nuovi sbocchi metafisici o a riparare in consolanti ritorni alla ragione. Di fronte alla disperazione antifilosofica di Pirandello, alla distruzione totale, sensistica e materialistica, che egli compiva della ragione tradizionale, rappresentando lucidamente, empiricamente, sulla scena, il fallimento e la tortura vana della logica formale e l’alienazione idealistico-borghese del personaggio, l’ordine crociano reagiva con una opposizione di gusto che era insieme, dichiaratamente, una opposizione di mentalità: negando qualità «lirica» a un’arte che presumeva un impegno anti-lirico e consapevolmente criticoriflessivo, e insieme mostrando l’insostenibilità teorica e la illegittimità filosofica di una meditazione e di una volontà culturale che nascevano da una precisa scelta antifilosofica e anti-idealistica in specie. Da un lato, il teorema estetico secondo il quale la poesia sorge da una zona spirituale categorialmente diversa da quella che produce il pensiero, valeva a negare spazio, valore, certificato di nascita e possibilità di esistenza a un programma di arte-riflessione-denuncia che violava istituzionalmente il sistema delle competenze distinte; dall’altro, la stessa sistemazione storiografica, la difesa etica e intellettuale che il Croce forniva della storia italiana ed europea dal Risorgimento alla prima guerra mondiale (come storia di un’ascesa costruttiva e di una verifica razionale della religione della libertà), comportava il rifiuto di una esperienza artistica organicamente promossa da una visione tragica del mondo moderno, da un bilancio negativo e fallimentare della civiltà ottocentesca. Comportava, fra l’altro, il rifiuto di tutta l’arte moderna: che pareva al Croce una industria del vuoto e una bestemmia irrazionale, la paurosa sintomatologia di una abdicazione della borghesia ai profitti e ai doveri della «ragione»; ed era, invece, nella sua direzione più autentica, la testimonianza sofferente del fallimento di un intero ordine di valori e insieme la rivolta contro il sistema che li ha alienati e traditi: la denuncia talora consapevole, e in ogni caso oggettivamente ricca di spinte rivoluzionarie, di una crisi irreversibile e totale, la scoperta di un vuoto a colmare il quale più non servivano le tranquille sistemazioni della filosofia e le mistificanti modellizzazìoni della morale tardo-ottecentesca, cioè la necessaria distruzione di un ordine formale e la drammatica destituzione di una ragione privilegiata e apparente.

     In quest’ordine di ragioni è da cercare, crediamo, l’unica prospettiva concreta del problema di Pirandello: una prospettiva che, mentre implica e intanto lascia affiorare le linee interpretative di un problema più generale e complesso – e cioè quello della caratterizzazione storica di fondo di tutta la civiltà culturale ed artistica che si può convenire di chiamare Decadentismo – consente poi anche di ridurre al suo significato più organico e unitario l’apparente varietà delle ragioni dell’incomprensione crociana e delle ricorrenti incomprensioni che Pirandello continua ad incontrare nei settori del mediocre buon senso e della mentalità tradizionale e in quelli, perfettamente allineati, pur se nobilmente acculturati in senso moderno ed «europeo», del raffinatissimo gusto formalistico. Il gusto della poesia disinteressata, tale da concedere all’anima il lusso della nobile «inutilità» e della consolazione fantastica, fu appunto, e continua ad essere in forme assai più subdole e mistificate, l’ideale estetico di una civiltà, di un costume storico, sommariamente paghi del proprio ordine e della propria sistemazione «razionale» della realtà e dei suoi rapporti: dove ogni contraddizione reale è destinata a pacificarsi (= eludersi) nella dialettica di una logica apparentemente perfetta, e ogni problema, ogni ferita, ogni tentazione di indistinto e di irrazionale può esorcizzarsi alla luce di una autocoscienza assolutamente fiduciosa di sé e della legittimità del suo dominio sul mondo. Quel gusto diventava, sempre più radicandosi in una ideologia letteraria apparentemente «autonoma» (ma che proprio nella sua autonomia e assolutezza rispecchia la matrice ideologica, il modello essenziale, della società di cui è funzione: la divisione del lavoro), uno degli assoluti fondamentali attraverso i quali il sistema tardo-borghese conferisce legalità universale alle istituzioni e alle strutture portanti della sua egemonia: una delle vie, la meno immediata prammaticamente ma forse la più resistente e la più corruttrice in ambito ideologico, attraverso le quali il contenuto di un ordine storico-sociale diventa una metafisica nuova, istituzionalizzandosi in eterne categoria della storia; di una storia sempre più protervamente negata e tradita perché funzionalizzata a una filosofia e cioè governata da una universalità normativa e di classe. Sicché, in definitiva, la indisponibilità di quel gusto della poesia (dal quale, e dalla mentalità che lo fonda, discendono in linea diretta tutte le odierne difese, accademiche o avanguardistiche che siano, del formalismo dell’alienazione specialistica e asemantica del linguaggio letterario) nei confronti della violenza polemica, della «compromissione» critica e razionale e del risalto storico-sociale dell’arte di Pirandello, evidentemente riflette ben più che una scelta di gusto o un’incomprensione di esclusivo ordine estetico: riflette altresì l’oggettiva difesa di una organica concezione della realtà, di una egemonia ideologica e dì una non disarmata mentalità, contro una testimonianza intellettuale che rilutta al loro dominio e anzi tenacemente assume quel loro ricatto come oggetto della sua denuncia, che quella ideologia insistentemente demitizza e dissacra, svelandone la falsa coscienza e la crisi organica.

     In questo senso, e proprio se si considera la tensione sistematica della sua critica nei confronti del carattere velleitario e insignificante della presunzione totalitaria e scientifica della filosofia borghese e della assolutezza «separata» dell’arte pura (della quale appunto denunzia le implicazioni ideologiche e la sostanziale impossibilità conoscitiva), l’arte pirandelliana non può non apparire una delle più autentiche e lucide testimonianze del momento più tragico della moderna cultura europea, e di gran lunga l’esperienza più rappresentativa e più progressiva del Decadentismo italiano. Di quel complesso e necessario travaglio della coscienza artistica europea, che oggettivamente testimonia la crisi della funzione «organica» dell’intellettuale borghese e la sua rivolta aprospettica contro il sistema responsabile della sua alienazione, Pirandello non solo prefigura e originalmente sperimenta le fasi progressive, le successive progettazioni di poetica e le conseguenti inquietudini e invenzioni formali (espressionismo, surrealismo, ecc.), ma soprattutto testimonia e rivela più di ogni altro il nucleo genetico, la matrice unitaria e profonda, cogliendone la ragione e la condizione storica primaria. È un itinerario intellettuale, il suo, in cui proprio il culmine assolutamente negativo appare come la inevitabile e coraggiosa conseguenza di un impegno critico tutto oggettivo, non settoriale e non «autonomo»: vissuto e realizzato certo nell’ambito (necessariamente ideologico) e con gli strumenti (non scientifici e perciò non globalmente dialettici) della filosofia e della letteratura, ma consapevolmente orientato al rifiuto di quella falsa totalità e ostinatamente attento a sottrarre la propria analisi delle contraddizioni della sua società al rischio di ogni consolazione solipsistico-letteraria e di ogni possibilità di risarcimento filosofico. Lungi dall’essere, come per tanto tempo il buon senso di molti ignoranti ha creduto, un velleitario filosofo del sofisma, un dilettante ad oltranza del paradosso, egli era il più cosciente testimone, oltre che la vittima prima, del fallimento della filosofia, il più sofferente denigratore della logica, colui che più d’ogni altro ha denunziato il ridicolo e immorale paradosso, l’utilitario tranello, della ragione tradizionale. Quella ragione e quella logica erano cadute per sempre – rivelandosi ai suoi occhi come strumento di oppressione, assurdi meccanismi di alienazione dell’uomo – perché travolte dal crollo storico degli antichi ideali che sembravano sorreggerle e renderle necessarie, negli anni oggettivamente mediocri (ma per lui terribili come un trauma definitivo) in cui la sua illusione giovanile di un mondo giusto e razionale aveva improvvisamente urtato contro la realtà prosastica e fallimentare della società italiana dopo l’unità: la sofferenza e la fame nelle campagne siciliane, la bancarotta del patriottismo, la corruzione e il sottogoverno che legavano Roma a Palermo, gli scandali bancari della politica crispina, la speranza e la repressione dei Fasci siciliani. Libertà, umanità, giustizia, tutte le parole sacre di una fede veramente creduta e di una speranza che aveva promesso agli uomini un mondo migliore, apparivano improvvisamente manomesse e tradite proprio nel momento della loro verifica storica, nell’uso di chi avrebbe dovuto renderle operanti come strutture di una compagine nuova: improvvisamente svuotate dei loro contenuti ideali, devitalizzate della loro sostanza attiva, coinvolte in una piccola logica della prepotenza e della mistificazione. Diventavano nomi abusati, «guardaroba dell’eloquenza», sepolcri imbiancati, nei quali una società ingiusta seppelliva per sempre un’immagine positiva della storia e dell’uomo. Era la totale definitiva disfatta dell’Ottocento, di quel mondo che aveva creduto di edificarsi in un sistema compatto e coerente di valori, e che ora naufragava perché minato nelle sua fondamenta, logorato nelle sue strutture portanti: è questa l’appassionata e insieme desolata diagnosi che Pirandello forniva in quel bilancio tragico della sua giovinezza che è il romanzo I vecchi e i giovani, nel quale qualunque critico, qualunque lettore, avrebbe potuto trovare, e solo di recente sembra aver trovato, la confessione più diretta e illuminante dello choc originario della coscienza di Pirandello, e cioè la più organica premessa del suo itinerario intellettuale e la vera ragione genetica della sua arte.

     Rispetto a questo mondo desolato, infatti, che la prima novellistica pirandelliana tratteggia in una espressionistica furia di decomposizione grottesca, non è tanto la obbiettiva credibilità dei suoi colori negativi che importa, quanto l’incidenza di essi nella formazione della «ideologia» di Pirandello. Quei colori, attraverso una rigorosa indagine storiografica, potranno certo – com’è avvenuto – attenuarsi, e le dimensioni effettive di quel momento della nostra storia potranno valutarsi in un calcolo meno disperato, e ritenersi mediocri più che irreparabili, e persino da alcuni giustificarsi entro una prospettiva che accentui la necessità di quel travaglio interno della nostra società nazionale: e l’età crispina e poi giolittiana potrà anche guardarsi come la vedeva il Croce, cioè come l’età intermedia nella quale pur tra errori e storture si fabbricava quella unità e quella «libertà» prima proclamate che realizzate. Ma non è tanto questo che importa: anche se, com’è noto, a considerazioni equilibrate e assolutorie è doveroso in definitiva opporre il ben più fondato convincimento che proprio in quella età modesta, in quell’universo piccolo-borghese, in quel senso pratico elevato a sistema, si fondavano le premesse di ben altre degenerazioni e di tragici scompensi della nostra successiva storia civile e sociale. Certo è che il punto di vista di Pirandello su questo problema era del tutto opposto a quello liberale e ufficiale, e decisamente ispirato a un’ottica-dal basso, com’è evidente, ad esempio, in uno dei tanti luoghi che nel romanzo violentemente demistificano la comoda teoria di coloro che attribuivano all’indifferenza della plebe l’insuccesso di ogni tentativo di riscatto economico e sociale: « – Sono tutte calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai tirannelli locali capi-elettori, per mascherare trenta e più anni di malgoverno! Qua c’è la fame, signori, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane». Ma, come si diceva, più preme sottolineare che quella immagine mediocre del mondo contemporaneo, quella realtà incapace . di autentici ideali, assumevano per la coscienza di Pirandello le dimensioni mostruose di una rovina globale, i connotati di un dramma entro cui un intero universo di valori trovava la sua delusione e il suo schianto, la improvvisa rivelazione di una catastrofe morale dalla quale era impossibile recuperare una qualsiasi speranza, un qualsivoglia sostegno di certezza. La scoperta della corruzione immedicabile d’un mondo storico coinvolgeva così nella sua rovina la fede che l’aveva edificato, le strutture intellettuali che l’avevano sorretto e le convenzioni morali che l’avevano garantito. È questo il punto più alto e drammatico della destituzione della civiltà ottocentesca, della crisi di una intera visione del reale, che si opera nella presa di coscienza pirandelliana: una presa di coscienza che immediatamente si risolve in un radicale e definitivo rifiuto dell’ancora intatta presunzione di sanità, di razionalità, di quella concezione del reale e di quella cultura. Lungi dall’accettarne gli strumenti, le metodologie filosofiche, le sistemazioni etiche, Pirandello li considera strumenti inservibili, anzi responsabili di quella rovina. Essi non forniscono una spiegazione, una giustificazione veramente valida di quella realtà contraddittoria e discorde che egli avverte in ogni aspetto della vita: al contrario è il loro impiego dogmatico, il loro carattere abusivo e pseudologico a mistificare il mondo, ad approfondire la dissociazione tra l’uomo e le cose, tra la coscienza e i suoi contenuti reali. Falsa, ingannevolmente ottimistica, è la gnoseologia idealistica, la illusoria razionalità di una logica che cristallizza la vita in apparente armonia di concetti e di categorie formali; e falsa l’immagine di una realtà scientificamente concorde e ordinata, scandita in rapporti fissi, in gerarchie oggettivamente plausibili, che il naturalismo pretende di opporre. Da quella presuntuosa e arbitraria posizione di pratica sicurezza discende la ottusa difesa di un codice morale tanto più resistente e protervo quanto più esterno e privo di moralità vera, la fanatica mitizzazione di una legge che salvaguarda le apparenze e ignora e tradisce le sostanze effettive e reali del rapporto tra gli uomini. Contro la volgarità e la violenza camuffata di quell’ordine privilegiato, di quell’etica che si rifugia e dissolve nella falsa assolutezza dei fatti, dei pregiudizi e delle certezze apparenti, la protesta di Pirandello si configura nei termini lucidissimi di una denuncia talora spietata, sempre amarissima e sofferente: in una dissacrazione sistematica e violenta delle convenzioni entro cui la società mediocre del suo tempo alienava i problemi sostanziali della coscienza; mettendo a confronto (in Così è se vi pare) la povera e nuda verità dei sentimenti, il doloroso rispetto per le ragioni segrete non convenzionali dell’amore, con la verità formale dei documenti d’anagrafe, con la dignità formale di cui ha bisogno la pettegola e crudele curiosità di un salotto di provincia, che per essa offende e sconvolge la coscienza di chi soffre un dramma silenzioso e pudico; o mettendo a confronto la solitudine tragica, l’illusorio rifugio della follia di Enrico IV, il suo rifiuto a tornare al carnevale della sua società, con la falsa pietà di chi lo respinse in quel gioco crudele ed ora torna a sconvolgerlo, a ricatturare nel carcere buio della realtà sociale la libertà e la protesta di quella illusione. Chi ha creduto di cogliere e condannare in Pirandello una divertita e sofisticata esaltazione della molteplicità, dell’inconsistenza di ogni verità, del relativismo assurdo in cui si decompone ogni assoluto e ogni fede, non ha colto l’autentico oggetto e il significato storico della polemica pirandelliana; e soprattutto non ha inteso che da quella coscienza traumatizzata della sua storia nasceva non già il sofisma e l’abile trucco verbale, bensì l’opposto, la sofferenza, l’analisi critica, la testimonianza angosciata del dubbio nei confronti di una fuga definitiva delle certezze; e semmai il recupero di un universo di valori elementari e puri, respirati in creature ingenue, incarnati in una umanità primordiale (preborghese), capace ancora di nutrire nel cuore «povere favole segrete», brandelli del cielo siciliano e del mare africano, di quel paesaggio infantile che la vita aveva per sempre allontanato nella memoria.

     Altro conforto non c’è, nella prima visione pirandelliana. Il rifiuto delle fedi ingannevoli, dei falsi conforti intellettuali, comporta la perdita definitiva, e insieme l’accorata richiesta, di una norma che conferisca una ragione all’esistenza dell’uomo. Infranti i vecchi valori dall’irresistibile frana, scompare ogni centro, ogni possibilità unitaria e ogni residuo di certezza. Sotto la superficie di un’apparente armonia, di una convenzionale coesione, la realtà oggettiva si scopre dominata e sconvolta da una legge di disgregazione, una fuga inconcludente di forme vuote, senza coerenza e unità; e la vita un vano inseguirsi di momenti irrelati, di fotogrammi privi di nesso, un caotico e casuale ricomporsi e scomporsi di frammenti senza destino; e la storia un precipitare insensato di eventi cui è per sempre sfuggita la misura unitaria del tempo, divenire senza essere, consunzione di attimi senza conservazione di sostanza, senza garanzia di continuità. L’uomo si affaccia sulla scena sconnessa di questo cosmo allucinato, portando in esso, nel regno del relativo, la sua sete di assoluto, la sua interrogazione fondamentale intorno ai perché, al significato stesso della sua presenza nel mondo. Ma quel mondo non ha risposte da dargli: gli manda incontro gli ispidi urtanti frammenti di una consistenza che si è sgretolata, le note di una dissonanza che sembra scandire in un ritmo ossessivo ed ostile un destino di oppressione. L’uomo assiste stupito al progressivo cadere dei sostegni elementari della sua vita; la famiglia, l’amore, il lavoro, la dignità, il rapporto umano paiono improvvisamente mutarsi in figure di una beffarda irrisione, forme neutre di un inarrestabile gioco delle parti, nel quale, coinvolto, egli è costretto a recitare un copione di cui non intende il senso, e insieme a individuarsi in una meccanica ridda di gesti non suoi, in una maschera che lo aliena.
Non resta, allora, che strapparsi dal viso quella maschera grottesca, sulla quale il caos della vita ha inciso, come in una smorfia di dolore, i segni della propria rapina: tutto un repertorio di parole sregolate, di impulsi indistinti e di movenze deformi. Strapparsela, e liberarsi dalla falsa individualità, ed evadere dalla prigione, e ricercare in sé, nel profondo della propria coscienza, un’alternativa di libertà, una possibilità di coesione e una forma autentica. È questa l’ultima illusione della persona romantica che ancora sopravvive nella creatura pirandelliana, e rende necessario, inevitabile, il tentativo anarchico, l’avventurosa fuga di Mattia Pascal. Respinta l’unità fittizia e opprimente della vita associata, egli tenterà di attingere una sua libertà esistenziale, una consistenza al di là d’ogni necessità, d’ogni vincolo. Ma con quali connotati può ricostruirsi un volto, con quali pensieri può riannodarsi e conoscersi una coscienza, con quali valori una fede e con quali sogni una libertà, se il crollo del mondo ha travolto anche la nostra intima essenza? Se la radicalità del rifiuto comporta l’impossibilità di un’alternativa, è fatale che l’uomo di Pirandello scopra infine che al di là dei centomila frammenti che costituivano la sua convenzionale identità non ci può essere l’uno, non ci può essere che nessuno. Al di là delle forme ingannevoli, delle tessere posticce di quel mosaico che è la nostra apparente realtà, non c’è già la forma pura, autentica, c’è bensì la pura informalità, il nulla, l’assenza, il rischio di un naufragio perpetuo, l’inconsistenza senza fine e senza ritorno. Il più incolmabile caos inghiotte l’uomo quando egli tenta di fuggire il caos degli uomini. Evadere è dunque impossibile, vivere è impossibile se non nei rapporti falsi, nelle dimensioni relative di un mondo mistificato. Mattia Pascal non può che tornare sui suoi passi, rivestire uno a uno i panni dimessi della sua vecchia mascherata, cercare di ricomporsi i frammenti della sua antica forma, nella quale rassegnarsi a patire, e vanamente ragionare, e lungamente sospirare l’irrealizzabile libertà.
Era questa, com’è evidente, l’ultima coerentissima conseguenza di quel fallimento globale del mondo ottocentesco di cui Pirandello rappresenta la coscienza più lucida e disarmata: la definitiva centrifugazione e la totale scomparsa di una immagine tradizionale dell’uomo, dell’eroe, della persona romantica. Soggetto e prodotto, ragione e risultato di una intera civiltà, di un ordine, di una cultura, quella persona, quel contesto unitario, era destinato infine a subire la sorte dei suoi elementi costitutivi, a rimanere schiacciato dal cedimento delle sue strutture, e dunque a perdere per sempre la compattezza ideale, la fiduciosa razionalità, la spinta all’azione, l’unità medesima della coscienza. E a questo punto la sua distruzione era interamente compiuta, e la sua vita storica ormai consumata. Ma da quel processo negativo, dal crollo della persona nasceva il personaggio pirandelliano, cioè il simbolo espressivo, intrinsecamente teatrale, di quella condizione umana, la figura autonoma di una protesta e di una testimonianza di valore ormai universale. Di quella storia di rovina egli ha sperimentato l’angoscia, le mille situazioni senza uscita, i tanti casi delle creature sconvolte, il senso medesimo della vita che non consiste, la frantumazione della personalità, la provvisorietà delle parti e l’ansia di fuggirne; ed ora dal fondo buio di quella sua preistoria egli ascende alla luce assoluta del palcoscenico, per riassumere la varietà dei casi della commedia borghese nella stilizzazione unitaria di un gesto permanente, di un significato corale. Il personaggio è l’uomo, che ha perduto la sua forma, il suo centro, la ragione del proprio soffrire. Un autore crudele, un Dio sconosciuto, creandolo, lo gettò via da sé, in una esistenza senza destino. Ebbene, egli torna a cercare la sua forma, il suo centro, a protestare il suo diritto, con l’umile ma vigorosa coscienza della vittima di una insensata condanna; torna a formulare in eterno la sua insistente e vana richiesta di un autore che lo fissi per sempre, di una ragione che appunto lo liberi dalla condanna e lo restituisca alla garanzia assoluta di un destino.

     Sennonché commetterebbe un errore assai grave, già responsabile di deformazioni prospettiche e di facili rifiuti da una acritica posizione «di sinistra», il lettore che accentuasse indiscriminatamente, irrelatamente, questa apparente o complementare dimensione «esistenziale» e «assoluta» del personaggio pirandelliano: chi cioè annullasse nell’ovvia individuazione del carattere in definitiva ideologico, cioè aprospettico e perciò assolutamente negativo, dell’analisi critica di Pirandello, l’effettiva carica di conoscenza e di orrore storico contenuta ed espressa nella vicenda del suo personaggio. Giacché questo è bensì l’uomo, ma un uomo singolarmente datato nei suoi gesti e nelle sue follie, nel suo linguaggio e negli oggetti e nell’ambiente e nei riferenti polemici della sua denuncia: cioè l’uomo vissuto e alienato nella società borghese del nostro secolo, nella provincia italiana o nella penombra desolata della capitale del Regno. Certo, al suo universo fallimentare, al caos delle sue particelle impazzite, quest’uomo non ha da opporre una concreta e riconoscibile ipotesi di alternativa certezza, un modello di identificazione e di convivenza sociale che risulti in qualche modo più agibile di una breve speranza presto sopraffatta dalla vincente incombenza del ricatto borghese (La nuova colonia). E tuttavia, se assoluta è ogni volta la sua finale disperazione, ogni volta operante, totalmente prammatica, è la sua ricerca di una libertà come liberazione da un vincolo sempre uguale, da una casistica oggettiva inequivocabilmente contrassegnata da connotati storici, realistici, borghesi quant’altri mai: ogni volta relativa e dialettica, innegabilmente, è la sua contestazione nei confronti del mondo che lo reifica nell’apparente libertà delle maschere e della loro patetica logica e del loro inespressivo linguaggio.
Il che significa, storicamente parlando, che se quell’uomo non ha la forza di consolare le sue ansie in una proiezione utopica del futuro, sa tuttavia vivere con una energia morale e razionale che ha del prodigioso la deiezione storica del presente perché in questo continua a riconoscere la struttura disgregata del suo passato. Perciò il momento «eterno» del personaggio pirandelliano (il grido della Madre nei Sei personaggi, che ripete all’infinito, nella maschera naturalistica della angoscia materna, i modi tipici di una condizione storica, cioè della creatura subalterna d’un certo sistema di rapporti familiari) non è che la stilizzazione simbolica, il medium drammaturgico, di una diacronia reale, analitica e sociologica, che ne è l’effettivo antefatto e che ogni volta si riconosce e si realizza, all’interno del dramma, nei casi delle persone, nel groviglio dei loro comportamenti mentali e linguistici, nella cornice alienante dei loro rapporti e nella specifica funzione «storicizzante» delle didascalie. È un legame imprescindibile, del resto, che risulta preventivamente fondato, e reso istituzionale, dalla consapevole contemporaneità e programmatica interdipendenza dei grandi bilanci operativi di Pirandello nella stagione centrale della sua vita: cioè dalla connessione tra il bilancio storico della totale défaillance del sistema ottocentesco (I vecchi e i giovani) e la meditazione-progetto dell’Umorismo (dove alla visione frantumata del reale consegue la necessità di un’arte espressionistica, tipica di un momento storico di crisi e perciò destinata a funzioni critiche e anti-idealistiche) e la destituzione del soggetto-persona nel Fu Mattia Pascal dove si rappresenta appunto la centrifugazione dell’io tradizionale). È qui che si fonda, ed è dato cogliere originariamente, la vera genesi del rapporto tra il momento storico e il momento esistenziale dell’ideologia pirandelliana, tra lo spessore realistico e l’assenza «ideologica» (rifiuto della pacificazione estetica, impossibilità di una forma definitiva, e insieme rifiuto di ogni possibile salvazione filosofica) che sono propri della struttura-personaggio. Se ancora nella prima stagione narrativa (l’Esclusa e le prime novelle) la scomposizione antinaturalistica e la deformazione espressionistica del caso umano non incrinavano vistosamente la compattezza del soggetto, né compromettevano definitivamente la garanzia soggettiva e in un certo senso registica dello stesso autore (che poteva ancora ritagliare prospetticamente il caso, montarlo e giudicarlo), il Fu Mattia Pascal segna il momento in cui quella disgregazione intacca il soggetto: la cui unità si rivela, proprio nel momento dell’evasione dalla prigione sociale, composta di maschere, dei contenuti formalizzati (coscienza) del mondo borghese. Come Mattia Pascal, tornando deluso dal viaggio vanificante della avventura soggettiva, si atteggia infine nei gesti funzionali e riduttivi (autoironici) dell’uomo copernicano, che dissacra la compattezza dell’io tolemaico e dell’eroe romantico, così Pirandello converte la tensione scompositiva e ragionativa della prima produzione (il residuo romantico e soggettivo, il tempo narrativo e aprioristico della forma-romanzo) in un impegno di analisi sensistica della coscienza (Umorismo) e poi nella conseguente empiria della rappresentazione scenica. Come sensistico (antifilosofico esplicitamente) è l’impianto ragionativo dell’Umorismo, così la rappresentazione scenica è antiepica e tutta sperimentale: non è dramma di persone e catarsi del personaggio (non è soluzione alla sua ricerca della Forma), ma è corrosione attiva della persona (della sua illusoria compattezza, della sua credibilità) e scacco del personaggio (della sua aspirazione metafisica). In altri termini, la scelta della struttura teatrale è una specie di rifiuto della «mediazione», cioè di una qualunque istituzione di nessi filosofici, prestabiliti ed esplicativi, fra soggetto e oggetto, fra autore e creatura. È la scelta di un luogo e di un tempo non convenzionali, dove il personaggio può cercare all’infinito il suo autore (visto che questo chiede, perché questo è il suo problema storico: la ricerca di un’altra condizione di libertà), e l’autore occasionale (l’autore dell’opera in fieri) può rifiutare all’infinito di dargli la forma tradizionale (protettiva, metafisicizzata, salvifica) e può invece offrirgli soltanto l’occasione di testimoniare il bisogno di un’altra forma: ma tutta da costruire, e che comunque l’autore meno di tutti può oramai costruire. È questa la ragione per cui il termine ultimo dell’ansiosa ricerca che anima tutte le creature del teatro di Pirandello, l’oggetto di speranza di quella «informe vita che anela alla sua forma», lungi dall’identificarsi in una alternativa possibile alla attuale disperante condizione del personaggio, si risolve invece, nella tragedia pirandelliana, solo e sempre nella negazione e nella autodissacrazione, come evasione dal regno della relatività e delle falsità, come volontà di raggiungimento dell’essere solo capace di realizzarsi in permanente ribellione all’esistere. Ma è proprio in questa apparente irrealtà del termine euristico del personaggio che la scelta teatrale di Pirandello consuma fino in fondo la propria funzione realistica e provocatoria, dissacrante e disalienante: nella misura in cui la «ricerca della forma» accetta di limitarsi alla evocazione nostalgica di valori non ideologizzati (amore, maternità, cielo azzurro, morte silenziosa), colti nel loro significato preborghese e precategoriale, piuttosto che ideologizzarsi per l’ennesima volta in ipotesi speculative, in progetti riformistici e oggettivamente mistificati, proprio in questa misura quei miti pirandelliani, oltre che apparire splendidamente tautologici, rivelano e sprigionano ogni volta una inesauribile carica di «scandalo» (Liolà, la paternità trionfante sul codice del decoro economico), di denunzia e di violenta irrisione anti-borghese (Ciampa e la follia, lo sprezzante piacere della disonestà, ecc., la purezza accusante di Ersilia Drei, ecc.).

Questo è il senso, crediamo, del personaggio senza autore, e cioè del rifiuto costante che Pirandello opponeva, nella solitudine del suo studio (Colloqui coi personaggi, I), a quei fantasmi nati dall’ombra, ombra della sua ombra: alla vigilia di quella prima tragedia europea che avrebbe vistosamente colmato le scene del mondo di personaggi infranti, di frantumi di vite e di coscienze. Ed era un rifiuto irreversibile, deciso allora e mai più sconfermato: neppure quando, anticipatore e contemporaneo di quei generosi ma vani tentativi di recupero della realtà irrazionale, del mosaico umano polverizzato, che la vecchia cultura europea esperirà tra le due guerre, anche Pirandello sembrerà rianimare una sopita fede nel contatto surreale con le cose, e progettare un canto dello stupore, e riproporre miti, e sperimentare una ricerca della purezza nelle zone prelogiche e incontaminate della coscienza. Se fosse vero che Pirandello abbia vissuto momenti di illusione vitalistica o di errore morale o politico, sarebbe tanto più vero e documentabile che, proprio negli anni della presunta distrazione dalla sua coscienza ideale e tematica, egli optava per un «surrealismo» non passivamente e genericamente anticonformista, non evasivo formalisticamente, tutt’altro che elusivo nei confronti del problema centrale della sua vita di operatore culturale, ch’era il problema dell’uomo e della sua società: e nella zona dei miti possibili, dove tutta la nostra cultura respirava nobiltà ideali e dimentiche della storia, egli cercava e trovava favole esplicitamente polemiche e proibitive, e risate di folle disprezzo per la grossolana ufficialità del momento, e progettava nuove colonie senza classi e senza divisioni del lavoro, e scudisciava la mostruosa alienazione industriale dei giganti della montagna e insieme dei loro non dialettici contestatori, cioè dei servi fanatici dell’arte pura, che per lui era l’arte più impura perché disumana. Rispondeva di fatto, con parole inequivocabili, a tutti i sacerdoti delle belle forme, allora come oggi responsabili dei contenuti retrogradi e ricattatori che sempre le belle forme accettano e conservano e impongono alla cultura e alla società umana. E scriveva contro di loro: che ancora oggi gli preferiscono (come scelta totale e del tutto coerente, anche se inconsapevole) la violenza e l’arabesco del più incolto e provinciale tra i piccoli letterati italiani. Scriveva icastiche dissacrazioni della nostra tradizione retorica, della nostra Italia di avventurieri e di servi, l’Italia fosforescente e lussuosa di Gabriele D’Annunzio.
Cioè tentava, nel discorso su Verga, di fare intendere alle coscienze sopite dell’accademia nostrana che lui, Pirandello, invece che repertori di svuotate metafore marinare e di ridicole vegetazioni antistoriche, aveva un messaggio reale da comunicare, la testimonianza effettiva di una totale disgregazione del mondo borghese. Sicché il senso ultimo della sua operazione teatrale può cogliersi tanto più consapevolmente quanto più se ne colga la pregnanza storica, la necessità dialettica nell’ambito della nostra cultura e delle sue oggettive articolazioni. Se ancora si pensi alla vistosa non-necessità del personaggio-D’Annunzio (che deformava la realtà assumendola nelle misure irrelate e terroristiche del soggetto, e non poteva quindi che risolversi nella insistita e mediocre rappresentazione del personaggio-D’Annunzio), appare subito chiaro che ciò che resta davvero della rivoluzione pirandelliana, e cioè lo stesso scatto qualitativo che costituisce e rende esemplare la genesi e il significato del teatro di Pirandello, è la risposta eroica che egli ha dato al trauma storico della società contemporanea: non solo la permanente irrinunziabile polemica contro il sistema responsabile di quel trauma e delle sue alienazioni, ma soprattutto la scelta di una intenzione antilirica e «oggettiva» nella rappresentazione della realtà e nella dissacrazione del soggetto, di quella «persona» tradizionale di cui il suo personaggio è il simbolo negativo, la sofferente rivelazione, la sistematica demistificazione; e insieme, in ultima analisi, quella definitiva e così insistentemente ribadita scomparsa dell’autore, come di un pericoloso mediatore di «ideologie» e corruttore dell’autenticità storica e dei significati oggettivi della condizione umana che il personaggio rappresenta.
In questo senso persino l’ultimo gesto di Pirandello, la «volontà» di disperdere le sue ceneri, sembra potersi iscrivere nell’ambito di una tutta polemica coerenza: la scomparsa del «soggetto», in un mondo che alla dialettica storica aveva sostituito la falsa dialettica dei soggetti, tiranni o liberi saggi che fossero. Certo è che, nel momento tragico della storia europea mentre le contraddizioni di quel mondo erano per esplodere in una nuova e più violenta catastrofe, Pirandello decideva di opporre la sua umiltà solitaria alla farsa ufficiale che tentava di coinvolgerlo: e, indicando un modello di libertà evidentemente inviso ai piccoli e «democratici» eroi delle terze pagine e dei premi letterari confindustriali, sottraeva persino la sua morte al formale compianto della sua società, per tornarsene solo e ribelle nella campagna siciliana del «caos», dov’era nato.

Arcangelo Leone de Castris
Salice Salentino, 24 luglio 1929
Bari, 17 marzo 2010

Arcangelo Leone de Castris
Arcangelo Leone de Castris

     Storico della letteratura italiana, Arcangelo Leone de Castris, insigne critico che ha spaziato da Alessando Manzoni a Luigi Pirandello e Italo Svevo fino a Pier Paolo Pasolini. Professore emerito dell’Università degli Studi di Bari, dove ha svolto tutta la sua carriera, è stato protagonista di un’intensa attività saggistica con riflessioni teoriche sul ruolo sociale dell’intellettuale e sul rapporto tra ideologia e cultura. Celebre per le sue lezioni su Pirandello e Svevo, con cui sapeva conquistare gli studenti universitari, Arcangelo Leone de Castris è stato negli anni Settanta un rinnovatore degli studi di impronta marxista e gramsciana, tanto da essere considerato uno dei fondatori di quella che è stata definita, con una certa ironia, «l’ecole barisienne», ovvero la scuola storiografica nata all’interno dell’ateneo di Bari che vide all’opera lo storico Giuseppe Vacca, il filosofo Biagio de Giovanni ed altri intellettuali pugliesi.
A lungo militante del partito comunista italiano, membro della commissione cultura al tempo in cui fu diretta da Aldo Tortorella, de Castris animò il dibattito cultura a sinistra con il saggio «L’anima e la classe: ideologie letterarie degli anni sessanta» (De Donato 1972), riletto da lui stesso tre decenni dopo, con animo disincantato, con il pamphlet «Una fine sinistra. Trent’anni di storia degli intellettuali» (Guida 2001).
(da Il Messaggero del 18 Marzo 2010)

Da sempre legato a una visione utopistica del comunismo, aveva teorizzato un rapporto di politica e di cultura con una valenza politica: bisognava combattere una cultura intesa come chiusa al mondo, come ebbe a dire il professor Luigi Masiello alla sua commemorazione presso l’Ateneo di Bari, dove De Castris aveva insegnato per anni. Tra le sue opere principali di critica letteraria: “«L’ impegno del Manzoni» (Sansoni, 1963), «Egemonia e fascismo» (Il Mulino, 1981), «Estetica e politica. Croce e Gramsci» (Franco Angeli, 1989), «Storia di Pirandello» (Laterza, 1989), «La critica letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi» (Laterza, 1991), «Sulle ceneri di Gramsci. Pasolini, i comunisti e il ‘ 68» (Datanews, 1997), «Gli ossi di Montale» (Manni, 2000), «Una fine sinistra» (Guida, 2001).

(da Wikipedia)

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