Legge Lorenzo Pieri.
«Ella amava così, da undici anni, il suo mite adoratore. Era un amor misto d’orgoglio e di pietà, quasi: orgoglio di sé, pietà di lui. Certamente, neppur l’ombra della sentimentalità, in lei, delle solite scipite storie d’amore.»
Prima pubblicazione: La tavola rotonda, anno II, n. 46, Napoli, 13 novembre 1892.
La ricca
Legge Lorenzo Pieri
|
******
Solevan le tre sorelle di Giulia Montana maritate così senza aspettar tempo e amore, secondo la lor condizione sociale e i beni di fortuna, sparlare a preferenza della sorella rimasta nubile ostinatamente, e sfoggiando sotto voce massime prudenziali comentavan con amarezza le più serie proposte di matrimonio da lei respinte; e da buone figliuole, commiseravano il vecchio padre inasprito sempre e rigido, come di marmo, verso quell’ultima figlia, e anche lei, la povera Giulia, per quella sua disgrazia, come esse dicevano.
La disgrazia della povera Giulia era un amore indirizzato male, senza prudenza; un amore insomma che guardava in giù, dalla ricca vettura padronale, tra le persone che vanno a piedi a passeggio.
Maria, la più piccola delle tre, sospirava:
– Rifiutar Nicola Pàncamo! Peccato!
Era Nicola Pàncamo cognato della seconda sorella, della placida Anna; alto appena cinque palmi, già quasi calvo a trent’anni, e con certe gambette piccole come due dita, sempre aperte per regger meglio il peso della pancetta precoce – tal quale, del resto, il fratello Giorgio, il marito di Anna.
– Follie! Dio voglia, non se ne debba mai pentire! – aggiungeva Elena, la maggiore. – Non è più una ragazza, ormai: ventisei anni e ancora così! Sarebbe stata una fortuna per lei e pel babbo.
Anna era sempre per pigliar parte alla conversazione; ma i suoi occhi azzurri ombreggiati da lunghe ciglia bionde si volgevano involontariamente a quella delle due sorelle, che aveva taciuto, e pareva con quel placido sguardo le permettesse di dir ciò che doveva dir lei, assentendo col capo e con un sorrisetto costante a ogni frase, come se fosse sua, e ripetendone di tratto in tratto, quasi macchinalmente, le ultime parole: Ventisei anni… Una fortuna per lei e pel babbo.
– Per chi, poi? Per Enrico Santagnese! – inveiva Maria, la più accanita, aprendo il fuoco contro quel povero Enrico amato dalla sorella. Ma, alla fin fine, come se tutte e tre avessero pietà della magrissima persona del giovine, non lo mordevano a sangue abbastanza! Ahimè, di sangue, ne mostrava tanto poco quel poveretto, sempre pallido, sempre malaticcio. Poi, con lui, con le sorelle di lui, prima che il padre, Carlo Santagnese, uno dei più ricchi armatori siciliani, perdesse tutta la fortuna, erano state tanto tempo vicine di casa, amiche d’infanzia, compagne di cari giuochi.
– S’è ridotto a far l’agente di navigazione, ora!
– L’agente di navigazione… – ripeteva Anna, rigirandosi continuamente gli anelli intorno alle dita.
– Vive alla giornata, poveretto, e gli tocca per giunta mantener la madre e le sorelle, si sa!
Non s’affacciavano però all’idea che Enrico Santagnese si facesse amar da Giulia per la dote: no! dicevano solamente, che per quanto egli non ci pensasse, pure quella piccola appendice all’amore, via, non gli avrebbe mica fatto dispiacere. Naturale! Ma anche con la dote, come avrebbero potuto vivere in città, frequentar la società? Senza dubbio, coi gusti di Giulia, si sarebbero creati presto degl’imbarazzi. Era dunque ammissibile? – Non era ammissibile.
– Alla fin fine, poi – ripigliava Elena – sarei curiosa di sapere, che trova Giulia di straordinario in Enrico. Brutto non è, è vero; ma Dio mio! pare un cristo spirante…
– Antipatico – si contentava di aggiungere Anna. E Maria:
– Un cuoricino così! Senza spirito, senza fiato… Buono, poveretto; ma un fil di paglia – insipido. Datemi pure addosso, io, sentite, per me quei capelli d’oro matto non li ho potuti mai soffrire… Ma già, ha pure gli occhi neri, dunque: tipo di bellezza!
Dal canto suo Felice Montana, il padre, duro e inflessibile, rompeva il cupo silenzio abituale per dire: – Finché io vivo, non lo sposerà!
E pareva che queste parole gli restassero incise tra le ciglia sempre aggrottate.
Della velata commiserazione delle sorelle, dell’assoluta opposizione del padre si nutriva, per dir così, l’amore di Giulia Montana per Enrico Santagnese: era forza di quell’amore l’irritazione prodotta dall’invincibile ostacolo.
Alla rigida e chiusa inflessibilità del padre, Giulia opponeva la sua non men rigida e chiusa.
Tra loro due rimasti soli in casa da sei anni, non si scambiava mai una parola più del necessario. Egli attendeva come sempre alla direzione degli affari di banca e dei negozi di zolfo; ella a le abituali occupazioni: la pittura, la musica, la lettura, il ricamo.
Dopo il rifiuto opposto alla domanda del Pàncamo, il padre non le aveva più comunicato nessun’altra domanda. Eran venuti allora a un’aperta spiegazione.
– È inutile parlarne. Né il Pàncamo, né altri! Non voglio sposare, non sposerò mai nessuno – aveva dichiarato Giulia.
– O Enrico Santagnese…
– O Enrico Santagnese, o nessuno.
Liberissima di farlo, le aveva risposto il padre; la legge ormai le permetteva di ribellarsi all’autorità paterna: liberissima! egli però non le avrebbe dato un soldo di dote: la legittima, alla sua morte; il consenso, mai!
Da quel giorno Giulia s’era chiusa tutta in se stessa, in uno stato d’animo sempre uguale, inalterabile, senz’aspettativa per nessuna evenienza.
Non vedeva che rare volte Enrico Santagnese, o a passeggio, dall’alto della sua carrozza, lungo il viale del Giardino Inglese; d’onde Enrico, tra gli alberi, salutava costantemente il vecchio banchiere, senza aver mai risposta al saluto, o in certi pomeriggi, lungo il Corso Scinà, mentr’ella stava alla finestra.
Erano incontri, sguardi fuggevoli, miti come una domanda ansiosa e sommessa da parte d’Enrico; fermi, quasi solenni, da parte di Giulia.
«Ancora?», chiedevan gli occhi d’Enrico.
«Ancora!», rispondevan quelli di Giulia, pieni di cuore e d’impero.
Ella amava così, da undici anni, il suo mite adoratore. Era un amor misto d’orgoglio e di pietà, quasi: orgoglio di sé, pietà di lui. Certamente, neppur l’ombra della sentimentalità, in lei, delle solite scipite storie d’amore. Giulia Montana amava il lusso e la ricchezza, compresa della signoria che l’uno e l’altra danno usati con arte e con gusto; amava la società delle persone del suo ceto, pur giudicandole, la maggior parte, sciocche e banali, e subendo come una legge le affabilità affettate, i vani orgogli mondani. Era, per esempio, un conforto per lei il pensare che Enrico Santagnese tornando ad esser ricco come una volta, avrebbe saputo vivere e spendere da gran signore. Molti, e fra questi i suoi parenti, avevan di lei il concetto che fosse una creatura fredda, impassibile; ma a torto. Certe volte, pareva veramente ch’ella si fosse imposta una parte, e che la rappresentasse sempre, in casa e fuori; finanche a se stessa; pareva che mai nessuna meraviglia esistesse per lei, né per gli occhi, né per l’anima. Signora sempre di sé e dotata d’una percezione straordinaria, penetrava tutto, tutti eran come fanciulli in faccia a lei. Impossibile dire una cosa ch’ella quasi non prevedesse. Entrando in una sala, sapeva e mostrava di sapere che molti pensavano a lei, che tutti l’aspettavano, che procacciava a tutti un piacere con la sua presenza; quantunque nessuno forse trovasse amabile il suo contegno più tosto serio, non sciolto certo, né leggiadro. Ma il fascino traspirava dalla sua anima chiusa, come un liquido odore dai pori d’un’ampolla suggellata.
Quel profumo d’eleganza ch’ella spargeva nelle sale della società per riceverne in ricambio un trionfo mondano, i suoi trionfi la rallegravano però soltanto pel fermo pensiero, ch’ella aveva di lui, d’Enrico Santagnese, e perché anche di ciò poteva fargli sacrifizio.
*******
Or da qualche tempo Felice Montana si mostrava molto più cupo del solito, e più profonda era divenuta l’impronta, cui l’indole taciturna e meditativa gli aveva inciso tra le ciglia. Se ne stava spesso seduto con gli occhi chiusi a escogitare evidentemente qualche nascosto rimedio; e pareva in quei momenti che le lunghe ciocche lievi dei bianchi capelli gli si sollevassero sul capo per la tensione della fronte fieramente contratta. Non era certo il pensiero della figlia, né l’ostinazione di lei, che lo tenevano così preoccupato.
E la figlia se n’era accorta, e lo spiava con gli occhi penetranti, in preda a una vaga inquietudine.
Di casa ormai non si usciva più come prima, quasi tutti i giorni. Giulia aspettava fino a tarda notte, leggendo nella sua stanza, di cui lasciava aperto l’uscio a bella posta, con le tendine tirate sui bracciuoli, che il padre uscisse dal suo studio. Lo vedeva passar curvo, nella ricca veste da camera, con le mani dietro la schiena, e la testa china sul petto; ma non osava andargli incontro e parlargli. Udiva richiuder l’uscio della stanza di faccia, e sospirava e stava incerta a pensare, dimenticando il libro e l’ora tarda.
Una notte Felice Montana, invece di recarsi nella sua stanza entrò in quella della figlia. Giulia si alzò stupita. Il padre si arrestò in mezzo alla stanza, levò la testa e le disse: – Siedi – come se quel movimento l’avesse disturbato. Un farfallone vellutato, nero, destato dall’improvviso alzarsi di Giulia, si mise a svolar pazzamente urtando contro il globo opaco della lampa sul tavolo. Anche di ciò s’infastidì evidentemente il vecchio; aspettò che il farfallone si quietasse di nuovo, poi parlò:
– Andiamo male – disse, scuotendo il capo. – Possibile? A conti fatti, l’esportazione dello zolfo è stata molto meno di tutti gli altri anni. Ho verificato sui libri di cassa. Appena la terza parte. Lo zolfo ormai si dà come pietra vile; non ha più prezzo. Nell’interno, c’è della gente che muore di fame. Colpa un po’ di tutti, nostra specialmente; l’ho predicato sempre. Nella zolfara grande di San Cataldo ho dovuto far sospendere i lavori d’estrazione. Che ce ne facciamo di tutto questo materiale inutile, che ci pesa sullo stomaco? Non si ricavan più neppure le spese! Ma questo è ancor nulla; non è di ciò che mi preoccupo. C’è di peggio.
Parlava come a se stesso, come continuando un pensiero nato nel suo studio, e l’esponeva così senza schiarimenti, per nulla dubitando che la figlia non l’intendesse.
– Circolano gravi notizie intorno alla compagnia di navigazione La Trinacria. Le credo ancora infondate. Mene, io dico, della nuova compagnia che vorrebbe impiantarsi. Però cominciano a inquietarmi, lo confesso.
Tacque, pensando; si passò forte una mano sulla fronte, poi scrollò le spalle e disse piano, andandosene: – Sarebbe la mia rovina.
Giulia restò perplessa, in piedi, presso il tavolo, guardando. Soprappresa così, non aveva capito nulla, aveva colto soltanto le ultime parole mormorate dal padre nell’andarsene: la mia rovina. Quando si riebbe da quell’insolito stordimento, andò fino all’uscio, guardò fuori nell’andito: buio e silenzio; l’uscio della stanza del padre, chiuso. Un’apparizione? pensò. La mia rovina! aveva detto così. Com’era venuto da lei, perché? che aveva voluto significarle, con quelle parole?
– Soffre molto! – esclamò forte, e subito si stupì della sua voce, come fosse uscita d’un’altra persona nella stanza. – Deve soffrir molto – ripetè piano, con gli occhi fermi in un punto. Quelle ultime parole le tornavano insistenti dalla memoria alle labbra, come per esser riflesse col suono sulla coscienza ancora ottusa: la mia rovina!… la mia rovina!…
Sedette, appoggiando i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani; lesse così, macchinalmente, alquanti righi sul libro che le stava aperto sotto gli occhi, quasi costretta e legata dal candor della pagina rischiarata dal lume; poi si scosse e con una mano scostò stizzita il libro. Quell’atto la distrasse momentaneamente, ed ella vagò col pensiero, come in sogno.
Era un giorno grigio, autunnale. Andava con la vecchia governante per via del Borgo Nuovo. Presso Santa Lucia, la chiesetta sul mare, si sentì chiamare dall’alto, da una finestra. Una voce esile nel vento. Si volse. Non avrebbe voluto salire, a nessun patto; ma come dir di no? Avrebbero potuto credere che lei, ricca, disprezzasse ora l’amicizia e la casa dei poveri. Del resto, a quell’ora lui non era in casa certamente.
«Ah, se il babbo venisse a saperlo!», si diceva turbata salendo la scala dei Santagnese.
E sentiva ancora, nella visione, il turbamento e il disagio nel salir quegli scalini dal bigio intonaco, dall’alzata troppo alta, polverosi. E le ritornava anche in mente, come una puntura, il rimprovero, che allora faceva a se stessa: «Se il babbo venisse a saperlo!».
Rivedeva oppressa lo squallore di quelle pareti nude, la povera suppellettile smarrita quasi sul pavimento rifatto di fresco con mattoni di terracotta ancora imbrattati di calce qua e là; la malinconia delle pretenziose tendine di juta agli usci e a quei balconi, pei quali pareva entrasse nella stanza tutto il mare dinanzi, e tutto il cielo grigio e palpitante; e l’imbarazzo, l’imbarazzo di quelle povere fanciulle, le sorelle d’Enrico, e della vecchia madre, che sbucavano ad una ad una, sorridenti e impacciate, da una stanza contigua, dove certamente eran corse a mettersi in fretta chi un grembiale pulito, chi uno scialletto di lana trapunto, chi un fazzoletto a fiorami, per accogliere decentemente l’ospite ricca, l’antica compagna.
Poi, tutt’a un tratto, sopraggiungeva Enrico. Ed ella rivedeva lo stupore in quel volto pallido, in quegli occhi dolenti, e il sorriso timoroso, impercettibile, quasi una contrazione di meraviglia. Adesso, adesso capiva le parole ch’egli le aveva dette allora, e ch’ella nel turbamento, nell’ansia d’andar via, di scappar da quella casa, aveva appena udite. Sì, Enrico le parlò della compagnia di navigazione La Trinacria; ella rammentava bene. Capiva adesso anche il turbamento del padre, l’apparizione di lui nella sua stanza, tutto, tutto.
Per quella notte non potè chiuder occhio.
Dopo qualche settimana Felice Montana ricevette una lettera di Enrico Santagnese, in cui questi, chiedendo ripetutamente venia dell’ardire che si prendeva ecc. ecc., lo scongiurava di disfarsi al più presto possibile, anche con perdita del settanta per cento, di tutte le azioni sulla Compagnia La Trinacria. Ma lo stesso giorno in cui gli pervenne questa lettera, il Montana fermo nel convincimento, che una Compagnia di quell’importanza non potesse rovinar così, da un giorno all’altro, senza gravi cause apparenti; incoraggiato e tradito da persone di sua fiducia addette alla Compagnia, aveva dato all’amministrazione quattrocento mila lire, sperando di rialzarne il prestigio.
Dopo tre giorni la Compagnia dichiarava il fallimento, e il Montana rovinava con essa. Al povero vecchio restava appena da viver ritirato con la famiglia. Fu quasi per ammattirne; si volle sbarazzar di tutto al più presto, della casa sontuosa, della rimessa: licenziò servi, come se in preda a una febbre smaniosa vedesse negl’improvvisi risparmi la sua salvezza.
– Sai? disse alla figlia. Il tuo Santagnese mi aveva messo in guardia con una lettera. Ora puoi sposarlo, se vuoi. Così lo ringrazieremo…
E rise orribilmente.
*******
Le carrozze se l’eran portate via, una dietro l’altra, chiuse e coperte come carri funebri, sotto il piovoso mattino invernale. Oh quell’ultimo romor cupo di ruote sul lastrico, nel trarle dalle rimesse nel cortile!
Giulia assisteva a tutto, guardando dietro i vetri della finestra.
Anche gli otto cavalli «i più belli della città» s’eran portati via, mossi per due, lungo il viale ancor bagnato dalla notte. I superbi animali se n’erano andati battendo la coda, quasi ballando sulle lucide anche, erte le orecchie e impettiti nella coperta di biondo albagio. Carrozze e cavalli passavan coi cocchieri e coi mozzi nelle stalle e nelle rimesse di altri signori.
Quanti viandanti si fermavano ad ammirar quei cavalli, a guardar poi la casa dei Montana! Alcuni scuotevan la testa; altri poi passavan dritti, per gli affari loro, ignari o non curanti.
E Giulia vi si guardava intorno con occhi, che parevan gonfii ancora d’un sogno lacrimoso.
– Piano! Piano! – udiva dalla stanza vicina. – Bada allo specchio! Così… Scosta quella poltrona! Ora giù… Piano! Ah, come si sta comodi qui!
Qualcuno si sedeva sulla poltrona, sbuffando, ed esercitandone le molle, villanamente.
Smantellavan di là la gran sala, portavano via tutto!
Giulia vi si recava ogni tanto, come in sogno, per salvar qualche oggetto caro dalla rovina; ma ogni volta rientrava nella sua camera più smarrita, senza l’oggetto. Si affacciava all’uscio della sala, e s’arrestava. Tutta la mobilia smossa, in mezzo alla stanza; gli usci, le finestre, senza tende; le seggiole appajate, una sull’altra, e della paglia stesa sul tappeto, e trucioli di paglia dappertutto, sulle poltrone, sui sofà… Le sue carte da musica? Ah quelle no! quelle no! Il pianoforte non c’era più. E i grandi piatti dipinti da lei? e i due tamburelli? Anche quelli? – Le venivan le vampe al viso; chiamava la vecchia governante: era andata via anche lei?
Si chiudeva a chiave in camera sua. Ma neanche qui si sentiva più padrona. Andava in su e in giù, con la testa bassa; s’arrestava a un tratto colpita dalla sua persona, dalla sua veste bianca riflessa crudamente da uno specchio in ombra, che scendeva giù fino a terra; si guardava attorno, e altri due lunghi specchi la riflettevano nello stesso atteggiamento smarrito. Allora andava a sedere sulla poltrona accanto al letto dal gran parato a padiglione; chiudeva gli occhi ed aveva la sensazione del vuoto, come se la casa le crollasse sotto i piedi. S’afferrava ai bracciuoli della poltrona, restringendosi indietro, contro la spalliera, e guardava innanzi a sé, con gli occhi ingranditi, stranamente appuntati.
– Nulla! più nulla! – mormorò, e due lacrime calde le sgorgarono dagli occhi sempre fissi in un punto, e le scesero lentamente, lentamente per le guance. Il suono della sua voce l’aveva intenerita.
Non la casa soltanto crollava, crollava anche il suo sogno, l’amore. Ella aveva sognato di dare, di regalare il suo corpo magnifico e la sua ricchezza al mite adoratore. Or rovinavano tutti i progetti, cui la sua ricchezza aveva generosamente fabbricati, cui gli ostacoli avevano afforzati. Con la dote andava via anche l’amore. Rivide per un istante la povera casa dei Santagnese, al Borgo Nuovo, come in quel giorno grigio, autunnale.
– Entrare in quella casa? No, no, giammai. Entrarvi così, senza portarvi nulla, grata al marito della fede mantenuta, della costanza provata, e viver là, come le sorelle Santagnese, tra quelle pareti nude, col mare grigio in casa e la polvere della strada – ah, impossibile! impossibile!
Avrebbero avuto gli occhi d’Enrico Santagnese come nei giorni contrastati, lungo il viale del Giardino Inglese, mentr’ella passava superba nella ricca vettura, accanto al padre, la domanda ansiosa e sommessa: «Ancora?».
Oh, sì! certo! ma a che scopo, ormai? Giovine, no, ricca, neppure; e allora perché?
*******
Due mesi dopo la completa liquidazione della casa Montana, Enrico Santagnese domandò formalmente la mano di Giulia. Il vecchio s’affrettò a comunicare alla figlia la domanda, che credeva attesa con impazienza.
Giulia Montana rispose: – no.
La ricca – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
La ricca – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
La ricca – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
La ricca – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com