La prima guerra mondiale nelle novelle di Pirandello: una presenza rimossa

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Di Sara Lorenzetti 

Nelle Novelle per un anno di Pirandello la Prima Guerra Mondiale compare in modo ambiguo e sfuggente e costituisce una presenza dal volto ancipite: da un lato figura solo in un numero davvero esiguo di racconti, dall’altro è l’unico evento appartenente alla “grande storia” che marca in modo significativo alcuni testi. 

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La prima guerra mondiale nelle novelle di Pirandello
Prima pagina del Corriere della Sera. 24 maggio 2015.

La prima guerra mondiale
nelle novelle di Pirandello:
una presenza rimossa

in Letteratura e grande guerra,
a cura di Francesca Romana Andreotti, Simona Mancini,
Tiziana Morosetti e Laura Vitali,
2015, pp. 136 (XV, 2015)
Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma

Da Academia.edu

La Grande Guerra segna un riferimento imprescindibile per numerosi scrittori che, da posizioni politiche diverse e talora opposte, registrano un’esperienza destinata in modo inevitabile a tracciare una cesura nella loro produzione.

Nella letteratura del primo Novecento si assiste infatti ad una demitizzazione dell’episodio bellico: mentre sin dall’antichità il conflitto aveva costituito l’espressione sublimata dell’epos, momento generatore di senso per l’individuo e portatore di valori per la collettività, ora, inutile strage in cui il soldato subisce lo stillicidio della trincea, esso diventa emblema dell’insensatezza esistenziale e paradigma dell’assurdità della condizione dell’uomo. [1]

[1] Antonio Scurati, Guerra. Nazioni e culture nella tradizione occidentale, Roma, Donzelli, 2003, ma sull’argomento vedi anche Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, traduzione di Giuseppina Panieri, Bologna, il Mulino, 1984. Per una disamina dei rapporti tra esperienza bellica e narrazione letteraria dall’Otto al Novecento cfr. anche Lavinia Spalanca, Il martire e il disertore. Gli scrittori e la guerra dall’Ottocento al Novecento, Lecce, Pensa Multimedia, 2010.

Il Primo Conflitto Mondiale, che tracciò uno spartiacque nella storia europea e mondiale del XX secolo, incise in modo profondo sulla vita personale di Pirandello: allo scoppio delle ostilità, il primogenito Stefano si arruolò come volontario e, dopo pochi mesi, fu preso prigioniero dagli Austriaci; avrebbe riacquistato la libertà solo nel 1918; [2] nel frattempo anche l’ultimo figlio, Fausto, era stato richiamato alle armi.

[2] Stefano combatté sull’Isonzo per tre mesi, dall’agosto all’ottobre 1915; caduto a novembre in uno scontro sul Monte Podgora e preso prigioniero degli Austriaci, trascorse la prigionia prima nel lager di Mauthausen poi, dopo la rotta di Caporetto, in quello di Plan in Boemia, dove rimase fino alla firma dell’armistizio con l’Austria l’11 novembre 1918.

Lo scrittore che, appartenente ad una famiglia di lunga tradizione risorgimentale, in un primo momento aveva considerato favorevolmente l’intervento italiano, si sentì dimidiato tra la fedeltà alle proprie convinzioni patriottiche e gli affetti familiari; la circostanza di forte preoccupazione e di tensione minò la già incerta salute psichica della moglie che si aggravò ulteriormente. [3]

[3] Su questi fatti forniscono notizie dettagliate le biografie dell’autore, come Federico Vittore Nardelli, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1932 e Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, Torino, UTET, 1980, ma soprattutto gli epistolari Luigi Pirandello, Lettere della formazione 1891-1898. Con appendice di lettere sparse 1899-1919, «Quaderni dell’Istituto di Studi Pirandelliani», XXIV, 10, 1996, pp. 158-196 ed il più recente Il figlio prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918, a cura di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2005.

In anni così difficili, nell’agosto 1915 l’autore visse anche il lutto della madre, Caterina Ricci Gramitto.

Nelle Novelle per un anno di Pirandello la Prima Guerra Mondiale compare in modo ambiguo e sfuggente e costituisce una presenza dal volto ancipite: da un lato figura solo in un numero davvero esiguo di racconti, dall’altro è l’unico evento appartenente alla “grande storia” che marca in modo significativo alcuni testi. 

In questo saggio mi propongo di indagare le ragioni di questa apparente contraddizione, di verificare quale ruolo l’episodio bellico rivesta nella narrativa breve dello scrittore e come si ponga in relazione alle tematiche fondamentali della sua weltanschauung.

Sotto un profilo strettamente quantitativo, il conflitto del ’15-’18 assume un rilievo del tutto marginale nel corpus: tra le 210 novelle che Pirandello redasse nei quarant’anni della sua attività [4] la Grande Guerra fa registrare solo un numero sparuto di occorrenze; il dato appare ancora più significativo se si considera che, nell’ambito di una produzione che non si sviluppò in modo costante nel tempo, i primi due decenni del Novecento furono i più prolifici per l’autore.

[4] La prima novella Capannetta comparve nel 1884 e l’ultima Effetti d’un sogno interrotto uscì nel 1936, il giorno prima della morte dello scrittore; diversi altri testi, ancora inediti al momento della scomparsa dell’autore, furono pubblicati postumi e compresi nella raccolta Una giornata, che vide la luce nel 1937.

In questo momento, infatti, anche la difficile situazione economica in cui lo scrittore versava dopo l’allagamento della miniera di zolfo, lo costringeva ad infittire la redazione di racconti destinati a quotidiani e riviste, che gli garantivano un introito immediato. Quindi, proprio quando avrebbe avuto maggiore possibilità di scandagliare temi mai affrontati, Pirandello sembra volutamente relegare in secondo piano un evento carico di risonanze autobiografiche.

D’altra parte, nei pochi testi in cui il Primo Conflitto Mondiale fa la sua comparsa, l’autore gli riserva un trattamento peculiare rispetto ad un cronotopo che si connota per una forte omogeneità. Alla straordinaria varietà di temi e casi cui la fantasia dello scrittore dà vita nel corpus corrisponde, infatti, una certa ripetitività per quanto riguarda le caratteristiche dell’ambientazione. Lo spazio su cui si muovono i personaggi è duplice: alla città di Roma, spesso neppure citata in modo esplicito ma deducibile senza equivoci dall’onomastica delle vie e delle piazze, si contrappone una Sicilia che assume le sembianze della Palermo o dei paesi della sonnolenta provincia, di solito camuffati con denominazioni fantasiose. [5]

[5] «Pirandello spesso varia il nome di Agrigento: in Péola, in Zunica, in Richieri, ecc.; una variazione che suggerisce lo sforzo di dipingerne l’identità al lettore, di effigiare una realtà paesana metamorfica, in cerca di se stessa» (Franco Zangrilli, Pirandello e il fantastico siciliano, « Pirandelliana », v, 5, 2011, p. 31).

Anche i riferimenti temporali sono spesso vaghi e generici e quasi mai lo sfondo storico sotteso alla vicenda assume un rilievo tale da influire sulle vite dei protagonisti. Il trattamento delle coordinate ambientali sembra, allora, conferire significato esistenziale ai casi dei personaggi, che assumono valore paradigmatico per l’individuo. In questo senso la Grande Guerra acquista un rilievo singolare, in quanto si pone come l’unico evento storico caratterizzato da una fisionomia distinta.

Questa prima considerazione, scaturita dall’analisi contrastiva dei testi, sollecita l’ipotesi che il conflitto del ’15-’18, in apparenza marginale nell’ambito della raccolta, ricopra invece un ruolo centrale e faccia registrare non un’assenza quanto piuttosto una presenza rimossa. Lo studio delle occorrenze tematiche nelle novelle permetterà di verificare, attraverso le scelte narrative effettuate, come l’autore abbia rappresentato un evento che, per l’urgenza autobiografica, doveva comportare un coinvolgimento emotivo difficile da oggettivare sulla pagina.

Da una ricognizione sulla narrativa breve pirandelliana che comprenda anche gli esemplari poi esclusi dalla raccolta, risulta che l’episodio bellico ricorre in un gruppo di sei testi, costituito da Berecche e la guerra, Frammento di cronaca di Marco Leccio, Colloqui coi personaggi, Jeri e oggi, Quando si comprende e Un goj; ad esclusione dell’ultima novella, in tutti gli altri casi lo scrittore, rievocando una situazione fitta di rimandi autobiografici, sceglie proprio di mettere in scena le drammatiche conseguenze che provoca, tra i suoi cari, la partenza di un figlio per il fronte. [6]

[6] Sull’argomento vedi l’articolo di Piero Meli, Il dramma allo specchio. Pirandello, la guerra e la “reciprocità” dell’illusione, « Otto/Novecento», n.s., XXXI, 1, 2007, pp. 101-106.

Il lungo racconto [7] Berecche e la guerra, che esce in edizione definitiva nel 1934 nel volume dal titolo omonimo, risulta dalla revisione e fusione di testi o sezioni già pubblicati in precedenza a partire dal 1914. [8]

[7] Il termine “racconto” si usa in questa sede come equivalente di novella e senza tenere conto della distinzione teorica tracciata dall’autore nell’articolo Luigi Pirandello, Romanzo, racconto, novella, pubblicato in «Le Grazie» il 16 febbraio 1897 ed ora racchiuso nel volume Paolo Mario Sipala, Capuana e Pirandello. Storia e testi di una relazione letteraria, Catania, Bonanno, 1974, pp. 35-36.

[8] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1990 («I Meridiani»), pp. 573-632; per la ricostruzione della storia editoriale della novella vedi ivi, II, p. 1408.

Sono spie della singolarità dell’opera, segno di un rispecchiamento autobiografico difficile da oggettivare, non solo il fitto lavoro redazionale a cui è sottoposta, ma anche una pratica che non ha precedenti nel corpus, come l’inserzione di un’epigrafe, in cui Pirandello precisa che la novella fu scritta nei mesi precedenti l’intervento dell’Italia nel conflitto:

Vi è rispecchiato il caso a cui assistetti, con meraviglia in principio e quasi con riso, poi con compassione, d’un uomo di studio educato, come tanti allora, alla tedesca, specialmente nelle discipline storiche e filologiche. La Germania, durante il lungo periodo dell’alleanza, era diventata per questi tali, non solo spiritualmente ma anche sentimentalmente, nell’intimità della loro vita, la patria ideale. Nell’imminenza del nostro intervento contro di essa, promosso dalla parte più viva e più sana del popolo italiano e poi seguito da tutta intera la Nazione, costoro si trovarono perciò come sperduti; e, costretti alla fine dalla forza stessa degli eventi a riaccogliere in sé la vera patria, patirono un dramma che mi parve, sotto questo aspetto, degno d’esser rappresentato. [9] Ivi, p. 572. 

L’autore sceglie la strategia affabulatoria della terza persona ed il suo alter ego è il protagonista Berecche: tedesco d’origine, dopo lo scoppio della guerra egli vive un dissidio con se stesso e con la sua famiglia che lo induce ad un cambiamento. In un primo tempo il personaggio, convinto che l’Italia debba restare fedele all’antico alleato, quando il governo dichiara la neutralità, freme di sdegno per un gesto che giudica un tradimento. Quindi egli si confronta con le opinioni degli avventori della birreria, che riflettono le diverse posizioni del dibattito sviluppatosi in Italia prima della partecipazione al conflitto: il fronte interventista è variegato e, se alcuni sostengono la necessità di attaccare l’Austria per poter finalmente riconquistare le terre irredente, altri vedono nella guerra l’«alba di un’altra vita». [10] Ivi, p. 577.

L’inizio delle ostilità scatena forti tensioni in ambito domestico perché il sostegno incondizionato di Berecche alla coalizione austro-tedesca provoca l’accesa reazione del figlio Faustino (dietro la cui figura Pirandello adombra il primogenito Stefano), deciso ad arruolarsi come volontario a fianco dell’Intesa; contro il protagonista si scaglia anche Gino Viesi, il fidanzato della figlia Carlotta, originario della Val di Non e irredentista convinto, ora richiamato alle armi a combattere per l’odiata Austria. Dalla parte di Faustino e Gino si schierano anche la moglie e la figlia Carlotta. Un ulteriore dissidio familiare si apre con il genero, il signor Livo Truppel, orologiaio di origine svizzera: a causa del suo cognome “tedesco”, egli è vittima di un’aggressione da parte di un gruppo di interventisti, tra cui riconosce proprio il nipote Faustino. Questo personaggio supera il proprio turbamento ricorrendo ad una duplice tecnica di distanziamento dagli eventi e, se di giorno si rifugia nei meccanismi di precisione degli orologi, di notte si perde nella contemplazione delle volte celesti.

Nel corso del racconto il lettore assiste al trascolorare dell’opinione di Berecche, che abbandona le convinzioni dettate dalla fedeltà ai propri ideali per abbracciare le ragioni degli affetti fino alla decisione di condividere la scelta del figlio, e presentarsi anche lui, già anziano e senza alcuna esperienza militare, come volontario nella cavalleria.

Il cammino di formazione del personaggio, che si conclude con la sconfitta dei valori della razionalità, è scandito da due momenti epifanici, che Pirandello descrive come di consueto in passi densi di reminiscenze leopardiane. Il primo cade quando il protagonista, dopo una furiosa lite in famiglia, si ritira di sera nel suo studio ed, in una solitudine silenziosa, contempla la volta celeste punteggiata di stelle: l’assunzione dell’ottica cosmica (in altre novelle definita “filosofia del lontano”), [11] per cui «questa piccola Terra che va e va, senza un fine che si sappia» diventa «un granellino infimo, una gocciolina d’acqua», [12] lo induce a relativizzare gli eventi ed i drammi umani, destinati ad essere inghiottiti in un vuoto senza tempo. [13]

[11] Cfr. per esempio la novella Pallottoline (Scialle nero), ivi, pp. 185-195 o Rimedio: la geografia (La giara) in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, I, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1993 (« I Meridiani»), pp. 205-213.

[12] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., p. 595.

[13] Ivi, pp. 595-596.

Adottata questa prospettiva filosofica, Berecche riesce a mantenersi freddo e razionale anche quando, fuggiti da casa Fausto ed il futuro genero, la moglie sembra impazzire e addossa su di lui la colpa della situazione. Durante una discussione con il suo amico Fongi, forte delle sue speculazioni, egli mostra disprezzo per la reazione emotiva della sposa e millanta la sua capacità di soffocare la sofferenza, sostenendo che non piangerebbe neppure se venisse a sapere che il figlio è morto.

La conclusione della novella smentisce con i fatti le persuasive argomentazioni del protagonista e segna il dominio della sfera sentimentale-affettiva: quando Fongi gli legge una lettera di Faustino che spiega le ragioni della sua scelta, Berecche scoppia in singhiozzi e si unisce alla sua famiglia nel pianto.

Il secondo momento epifanico è marcato dal notturno leopardiano che suggella l’explicit del racconto: il personaggio, che si trova nel suo studio al buio e con gli occhi

bendati, matura considerazioni opposte da quelle che la ragione gli aveva dettato:

E se domani, là in Francia, Faustino sarà ucciso? Oh, allora anche per lui, senza piú quella benda, con gli occhi di nuovo aperti alla vista del mondo, sarà tutto bujo, sempre, così, anche per lui; ma forse peggio, perché condannato a vederla ancora la vita, questa atrocissima vita degli uomini. [14] Ivi, p. 621.

Stringendo a sé la figlia Margheritina, cieca sin dalla nascita, il protagonista paragona il proprio buio, scaturito dal dolore per la perdita di Fausto, a quello a cui è condannata la bambina: l’oscurità, che in una consolidata tradizione letteraria a partire dall’Illuminismo si pone come correlato dell’assenza della ragione, diventa emblema, allora, non solo del destino senza senso che ha privato della vista la piccola, ma anche della sconfitta dei valori della logica rispetto a quelli dell’affettività.

Nella novella la Bildung del personaggio si configura quindi come il cammino percorso tra due momenti epifanici che, tramati di suggestioni leopardiane, assumono una valenza speculare: dal “naufragio” in un cosmo che allontana le vicende umane e proietta su di esse un’ottica razionale fino all’assaporamento di un buio che, scaturito da un dolore individuale, diventa metafora del destino esistenziale. Pirandello, nel momento di rappresentare la sua vicenda autobiografica, se da un lato prende le distanze dalla materia proiettandola in un suo doppio, dall’altro traccia per il suo eroe una “formazione” che sancisce il prevalere della sfera affettiva.

La medesima vicenda che Pirandello aveva utilizzato per la stesura di Berecche e la guerra confluì nel Frammento di cronaca di Marco Leccio, pubblicato nel 1919 e poi escluso dalla raccolta: [15] esemplare della dimensione intertestuale che connota la pratica scrittoria dell’autore, [16] l’opera ospita ampi inserti che si leggono in altre novelle (in particolare in quella appena analizzata ma anche in Colloqui coi personaggi) e riporta stralci di una lettera privata del figlio. [17] La maschera autobiografica in questo caso è proiettata su Marco Leccio, di cui il narratore finge di riferire la cronaca.

[15] Appendice, ivi, pp. 1161-1207.

[16] Per questo argomento vedi Giovanni Macchia, Luigi Pirandello, in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno, Letteratura italiana, IX, Milano, Garzanti, 1969, pp. 444-446, Giovanna CerinaPirandello o la scienza della fantasia. Mutazioni del procedimento nelle «Novelle per un anno», Pisa, ETS, 1983, p. 9 e Novella GazichPer una tipologia della novella pirandelliana: il caso delle metanovelle, « Otto/Novecento », xvi, 5, 1992, p. 44.

[17] La lettera di Stefano al padre del 18 agosto 1915 cfr. Il figlio prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918, cit., pp. 52-53; per questo vedi anche Aurelio Benvenuto, Un nuovo epistolario di Pirandello. Il “carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918”, «Esperienze letterarie», XXXI, 3, 2006, pp. 95-105.

L’autore sembra mettere alla prova la storia esplorandone possibili variazioni e suggerendone un’eventuale continuazione: in modo speculare a Berecche, qui il protagonista, veterano garibaldino e suocero del signor Truppel, vede partire per il fronte quattro degli otto figli, ma si strugge di preoccupazione soprattutto per il minore Giacomino. Per questo, nonostante i 67 anni, anche lui tenta di arruolarsi volontario ma non viene accettato e si rassegna a seguire la guerra nel plastico costruito nel suo studio, rimpiangendo la strategia bellica del passato. A differenza del suo doppio, egli è colpito dalla tragica notizia della morte del nipote e vive lo strazio del silenzio del figlio da cui, dopo la partenza per la linea del fronte, non riceve più notizie. Come se l’urgenza autobiografica gli impedisse di proseguire, Pirandello chiude il racconto con un finale aperto in cui la “voce” [18] riferisce che la guerra sarebbe continuata altri tre anni e che Marco Leccio, sdegnato per gli errori degli Alleati, non se ne interessò più.

[18] Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto, traduzione di Lina Zecchi, Torino, Einaudi, 1976.

Lo sfondo bellico ricorre di nuovo nella novella Colloqui coi personaggi, pubblicata in rivista nel 1915 e poi esclusa dalla raccolta. [19]

[19] Appendice, in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., pp. 1138-1153.

Anche questo testo fa registrare un intenso autobiografismo, marcato dall’utilizzo della prima persona e dal motivo metatestuale. Protagonista della vicenda è infatti uno scrittore che, nella tragica vigilia della Prima Guerra Mondiale, sospende le udienze che era solito tenere con gli aspiranti personaggi dei suoi romanzi o racconti: a sconvolgerlo è la decisione del figlio, in procinto di partire per il fronte.

Il racconto è costruito sul dissidio tra lo spirito patriottico dell’io narrante che, impaziente del conflitto, vi vede un’occasione per riscattare l’odiosa alleanza con l’Austria, ed il suo affetto di padre. Il protagonista rispecchia la delusione e la frustrazione di coloro che che, educati ai valori risorgimentali, dopo aver coltivato trent’anni l’orrore e lo sdegno per gli Imperi centrali, non riuscirono a gioire per lo scoppio della guerra tanto attesa sapendo che i propri figli avrebbero rischiato la vita. Essi provarono un senso di non appartenenza, schiacciati tra la generazione precedente che aveva dato avvio al processo risorgimentale e quella successiva, chiamata a concluderlo.

Come già in Berecche e la guerra, in questo testo l’episodio bellico è colto da differenti e contrapposti punti di vista e l’interazione dinamica che scaturisce da questo gioco prospettico sembra conferire al conflitto del ’15-‘18 una valenza relativa rispetto alla dimensione cosmica. L’io narrante, alter ego dell’autore, è immerso nel piano della Storia, transeunte e contingente: del tutto assorbito dal dolore per la sorte del figlio, egli vive in un presente bloccato ed immobilizzato, mentre il sentimento di angoscia provocato dai fatti recenti lo chiude in un’interiorità ossessiva ed avulsa da quanto lo circonda. A richiamarlo alla realtà interviene un petulante personaggio, incurante del suo rifiuto; dopo uno stravagante invito ad ascoltare il melodioso canto di un merlo, che suscita nel narratore irritazione e rabbia, la creatura fantastica gli prospetta l’esistenza di un’altra dimensione:

Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua guerra? […]. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. Perché la vita, così dura com’è, così di terra com’è, vuole se stessa lì e non altrove, ancora e sempre uguale. [20] Ivi, pp. 1141-1142.

Come Pirandello chiarisce in altri luoghi della sua produzione, [21] la Vita è flusso continuo e indistinto, eterno accadere di un Essere che si esprime in infinite forme; tuttavia, poiché ogni determinazione è una negazione, quando l’Essere assume delle forme, si uccide in esse, negando la propria indeterminatezza.

[21] Vedi, per esempio, Luigi Pirandello, Foglietti inediti, in Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, Milano, Mondadori, 1977, pp. 1275-1276 ed il saggio Luigi Pirandello, Non conclude, «La preparazione», I, 82, 17-18 agosto 1909, oggi leggibile in appendice a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, a cura di Giancarlo Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1994.

La morte fisica, del resto, coincide con il ritorno al flusso. La Vita si configura dunque come un ciclo ininterrotto, svolgimento dell’eterno accadere dell’Essere. Alla prospettiva dell’io narrante, annichilito dal proprio dolore, si contrappone allora quella ontologica del personaggio in cui i singoli eventi perdono la loro assolutezza e diventano parte di un ciclo inarrestabile, mosso dall’istinto cieco e brutale della Vita che si vuole. Quando l’uomo, angosciato, si chiude in se stesso, non solo si lascia sfuggire il bene che l’esistenza gli riserva, ma compie un tentativo vano, perché nella sfera intima ed inconsapevole egli continua tuttavia a partecipare al flusso vitale. [22]

[22] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., p. 1142. 

Le parole del personaggio fantastico delineano anche un’altra dimensione che permette di distaccarsi dalla mutevolezza transeunte del fieri e contemplare senza turbamento gli accadimenti terreni, quella dell’Arte, capace di immortalare l’evento contingente e conferirgli una vita al di fuori del tempo.

Da questo colloquio, l’io narrante è dunque invitato a considerare altri piani d’esistenza rispetto a quello della Storia e a relativizzare un dolore legato ad un fatto contingente e destinato a scomparire, fagocitato dal flusso della Vita o dimenticato rispetto agli eventi eternizzati dalla rappresentazione artistica.

La marca autobiografica del racconto è suggellata dall’ultima parte, in cui Pirandello rappresenta il momento doloroso della perdita dell’amatissima madre: il protagonista dialoga con l’ombra della defunta esprimendo il dolore per la sua scomparsa e il terrore, ora, di perdere anche il figlio; ella lo conforta e, rievocando la storia della famiglia, segnata dall’avversione alla monarchia borbonica e dal fervore risorgimentale, sembra confermare le ragioni ideali del patriottismo e sollecitarlo ad accettare la decisione del giovane volontario. L’io narrante risponde ricorrendo alla teoria dell’illusione, che per quel peculiare fenomeno di autocitazionismo tipico dell’autore ritorna in diverse novelle della raccolta. [23]

[23] Dedicate a questo tema sono I nostri ricordi (L’uomo solo) in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, I, cit., 708-717 e I pensionati della memoria (Donna Mimma), in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, II, Milano, Mondadori, 1992 (« I Meridiani»), pp. 734-739.

L’illusione è l’immagine fittizia del mondo che ciascuno si costruisce sulla base del proprio sentimento individuale e costituisce per l’uomo l’unica realtà. Alla luce di questo soggettivismo gnoseologico, anche la morte è sottoposta ad una rilettura ermeneutica: infatti, si piange il decesso di una persona cara perché questa, ormai incapace di sentimenti, non può più dare a noi una realtà, mentre noi possiamo coltivare ancora la sua immagine. Con il consueto rovesciamento di ciò che il lettore è abituato a ritenere consueto, Pirandello conclude che i morti sono vivi per i vivi, mentre i vivi sono morti per i morti; ecco la ragione delle lacrime che versiamo, in effetti, per noi stessi.

Il contesto del Primo Conflitto Mondiale è evocato anche dai due testi “gemelli” Jeri e oggi e Quando si comprende, un dittico che ritrae la stessa vicenda colta in due frammenti temporali differenti e da due diversi punti di vista. La Grande Guerra è raccontata ancora una volta dalla prospettiva dei genitori che vedono i giovani partire per il fronte ed è quindi studiata per le reazioni che suscita tra i familiari delle reclute.

In queste novelle un ruolo centrale è rivestito dal personaggio della signora Lerna, che a malincuore si è separata dall’unico figlio, deciso ad arruolarsi come volontario e destinato al reggimento di stanza a Macerata, dove dovrebbe rimanere alcuni mesi; all’improvviso egli è richiamato al fronte e la madre si reca a salutarlo, per quella che teme sia l’ultima volta.

In Quando si comprende [24] la vicenda si svolge nel treno locale da Fabriano a Macerata: il viaggio (in particolare quello ferroviario) svolge spesso nella narrativa di Pirandello la funzione di attante epifanico, [25] ma qui la descrizione del vagone e della stazione, definiti da una costellazione di termini che rimandano all’area semantica dello sporco («sudicia vettura in tanfata di fumo»), della decadenza («sgangherato») e dello squallore, enfatizzano uno spazio soggettivo, che riflette l’angoscia della protagonista.

[24] Il racconto fu pubblicato per la prima volta in Luigi Pirandello, Un cavallo sulla luna, Milano, Treves, 1918, ora si legge Luigi Pirandello, Novelle per un anno, II, cit., pp. 675-681.

[25] Maria Argenziano Maggi, Il motivo del viaggio nella narrativa pirandelliana, Napoli, Liguori, 1977.

 Quando entra in scena, la signora Lerna appare così compresa nel suo dolore, sentito come unico e assoluto, che non riesce neppure a camminare ma viene trasportata dal marito.

Anche in questo caso, la protagonista compie un percorso di formazione che la conduce a relativizzare la propria vicenda e vederla Con altri occhi, [26] come recita un titolo della raccolta: il dialogo con gli altri passeggeri dello scompartimento è sollecitato dal signor Lerna che, imbarazzato per il comportamento scortese e scostante della moglie, cerca di spiegarne le ragioni.

[26] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, II, cit., pp. 983-992.

I coniugi scoprono, dunque, di condividere una sorte che ha colpito molti altri. Infine, prende la parola un signore «grasso e sanguigno»; egli sostiene con calore che ogni giovane dovrebbe spendere la “vita per lui” come desidera, anche se questo comporti il sacrificarla per la patria; a conclusione del discorso, egli confessa di essere felice che il proprio figlio sia morto in guerra appagando così le proprie aspirazioni. La signora Lerna, che fino a quel momento era rimasta chiusa nel proprio dolore e sorda alle parole che le venivano rivolte, nello sbalordimento subisce una rivelazione epifanica: «Tutt’a un tratto comprese che non già gli altri non sentivano ciò che ella sentiva; ma lei, al contrario, non riusciva a sentire qualcosa che tutti gli altri sentivano e per cui potevano rassegnarsi, non solo alla partenza, ma ecco, anche alla morte del proprio figliuolo». [27] Ivi, p. 680.  

La madre sembra aver percorso dunque il proprio bildungsroman ed essere passata dal piano dell’emotività alla razionalità; tutti i passeggeri sono pronti a sottoscrivere le ragioni del patriottismo, ma Pirandello chiude la novella con un colpo di scena che ribalta il gioco apparenza/realtà. Infatti, quando la signora Lerna, incredula, chiede all’interlocutore se effettivamente il figlio sia morto, allora quest’ultimo, «tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi». [28] Ivi, p. 681.

Il signore «grasso e sanguigno» compie dunque anch’egli un percorso di formazione, speculare ed opposto rispetto alla madre, abbandonando le rassicuranti convinzioni dettate dalle precedenti argomentazioni. La prospettiva che sigla l’explicit del racconto in questo sofisticato gioco di specchi è dunque la disperazione inconsolabile che scaturisce dalla scomparsa di una persona cara in quanto “morta per noi”.

La medesima vicenda ispira il racconto Jeri e oggi[29] in una prima parte della novella, l’intervallo temporale ritratto nel testo precedente è raccontato dal punto di vista del figlio Marino Lerna, in procinto di partire per il fronte ed in attesa dell’incontro straziante con i genitori; l’altro protagonista è il soldato Sarri che, solo al mondo, trascorre invece le ultime ore nella spensieratezza, in compagnia di Ninì, la “donnina allegra” con cui tutto il reggimento si era divertito nei mesi precedenti.

[29] La novella comparve la prima volta ne «Il Messaggero della Domenica», l’8 giugno 1919; ora, compresa nella raccolta Dal naso al cielo, si legge in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, II, cit., pp. 555-565.

Le sezioni narrative successive costituiscono il seguito di Quando si comprende e sono dedicate all’incontro delle reclute con i familiari ed al momento successivo alla loro partenza. In questo caso, alla desolazione della signora Lerna si contrappone la reazione di Ninì: dopo l’addio alle reclute, la “donnina allegra” manifesta il suo dolore con un pianto inconsolabile “per tutti” i soldati, ma il giorno dopo si abbandona ad un riso spensierato in un’allegria che condivide con un altro giovane: «– Povera mamma buona e stupida, – le disse con quello sguardo. – E non capisci che la vita è così? Jeri ho pianto per uno. Bisogna che oggi rida per quest’altro». [30] Ivi, p. 565. 

Le parole che Ninì rivolge alla madre «senz’ira, senza sdegno» [31] assumono il valore di un monito; sebbene poste in bocca ad una donna superficiale e leggera, riecheggiano quelle pronunciate dalla creatura fantastica in Colloqui coi personaggi («piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi») [32] e sembrano alludere ancora alla dimensione dell’Essere come flusso ostinato e brutale che ingloba i fatti storici e, di fronte a qualunque circostanza tragica, richiama comunque alla Vita chi resta.

[31] Ibidem.    [32] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., p. 1141.

È ora opportuno prendere in esame la novella La camera in attesa [33] che può essere analizzata in modo proficuo in questo discorso critico, sebbene ricopra una posizione eccentrica rispetto alla tematica affrontata; il fatto storico sotteso all’invenzione pirandelliana è infatti in questo caso la campagna militare di Libia, che impegna l’Italia negli anni precedenti al conflitto del ’15-’18.

[33] La novella fu pubblicata per la prima volta in «La lettura» nel maggio 1916 ed ora è compresa nella raccolta Candelora, in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., pp. 428-439.

In modo analogo a quanto avveniva nei testi finora citati, anche qui la guerra, che non ha alcun autonomo spazio narrativo, risuona per le conseguenze che provoca nella sfera affettiva tra i cari di un giovane arruolato. Il racconto, condotto da un narratore esterno, assume la forma di un lungo monologo interrotto spesso da formule allocutorie rivolte al pubblico, coinvolto e chiamato in causa per discutere dell’episodio e «seguire lo scrittore nella sua destrutturazione di una gnoseologia da lui ritenuta ormai insoddisfacente». [34]

[34] Novella GazichPer una tipologia della novella pirandelliana: il caso delle metanovelle, cit., p. 45.

Nella prima parte della novella si descrive con minuzia il rituale con cui tre sorelle e una madre puliscono e riordinano una camera sempre chiusa, quella del loro amato Cesarino, partito da più di due anni per la Tripolitania e dichiarato disperso. Il caso è illustrato nel secondo paragrafo, quando la “voce”, alter ego dell’autore, ne fornisce una spiegazione argomentando che l’unica realtà è quella soggettiva dell’illusione, che prescinde dalla presenza fisica dell’oggetto o della persona a cui si riferisce: per la sua famiglia Cesarino è vivo ed essa ne aspetta ogni giorno con trepidazione il ritorno; la sua partenza, sostiene il narratore, è analoga a quella di un figlio che abbia lasciato la città natale e si sia trasferito in un’altra per frequentare l’università. La morte subentra invece quando interviene una discrasia tra la nostra illusione ed il suo oggetto, che nel tempo può subire un mutamento e non coincidere più con l’immagine fittizia che su esso avevamo proiettato; così, sostiene l’autore, il figlio che ritorna a casa dopo un lungo periodo d’assenza, sebbene presente fisicamente, può essere morto per i suoi cari, mentre Cesarino, disperso, è ancora vivo per la sua famiglia.

Ancora una volta Pirandello affronta il tema bellico con una tecnica di distanziamento della dimensione storica, che sembra non poter provocare conseguenze sulla quotidianità, regolata dalla “realtà per noi” dell’illusione. Così nella casa di Cesarino si perpetua una vita senza tempo, avulsa dagli accadimenti esterni e segnata dalla circolarità di rituali che si ripetono sempre uguali: l’irruzione della Storia nello spazio domestico è provocata dalla notizia delle future nozze di Claretta, fidanzata di Cesarino, dapprima assidua nelle visite alla famiglia e nella corrispondenza con il suo amato. La risoluzione della giovane, che decide di non attendere più il ritorno del ragazzo, fa crollare l’illusione della famiglia ed, infatti, precede di pochi giorni la morte della madre di Cesarino, ormai disperata di poter rivedere suo figlio. Il tentativo dell’autore di esorcizzare l’evento bellico e la sciagura della perdita di una persona cara alla luce di un soggettivismo gnoseologico che prevede la “realtà per noi” dell’illusione registra una sconfitta di fronte all’irrefutabile della morte e sancisce di nuovo il prevalere delle ragioni del sentimento.

Il Primo Conflitto Mondiale trova infine un’ultima occorrenza tematica nel racconto Un goj[35] dove l’io narrante, simulando di nuovo un dialogo con il lettore, riferisce la vicenda occorsa al suo amico Daniele Castellani che, maritato ad una donna cattolica, viene perseguitato in famiglia per le sue origini ebraiche, nonostante abbia rinunciato alla sua religione nella pratica e nell’educazione dei figli.

[35] La novella apparve per la prima volta in Luigi Pirandello, La rallegrata, Milano, Bemporad, 1922 ed ora si legge in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, I, cit., pp. 559-566. 

Esasperato nel sentirsi considerare “uno straniero”, come recita il titolo, egli organizza uno scherzo per vendicarsi del suocero, zelante credente ma intollerante verso di lui: mentre i suoi parenti assistono alla celebrazione della Messa del Natale, egli manipola il presepe amorosamente preparato e sostituisce le statuine con dei soldatini armati di fucili e dei cannoni puntati sulla grotta di Betlemme. Il tiro giocato al suo persecutore, così come la risata irritante che il protagonista usa in ogni circostanza quasi inconsapevolmente, assumono un valore liberatorio e di denuncia: all’ipocrisia dei familiari, devoti nelle pratiche religiose ma poco rispettosi dei valori cristiani nella vita, corrisponde l’incoerenza della politica estera degli stati europei, disposti ad intraprendere un massacro in nome degli stessi principi:

E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia. [36] Ivi, p. 563.

In questa novella, eccentrica rispetto a quelle analizzate in precedenza per la modalità con cui il conflitto è presentato, la funzione di distanziare la sfera contingente è assolta dal riso del protagonista, che diviene emblema di un destino di ingiusta persecuzione.

In Pirandello la Grande Guerra è un tema di urgente valenza autobiografica e questo spiega la singolarità della sua posizione nell’ambito della raccolta delle Novelle per un anno. Se da un lato la sorte dei propri figli induce l’autore ad un coinvolgimento emotivo che sembra non poter non essere espresso, dall’altro, per la stessa ragione, egli sottopone l’argomento ad un processo di rimozione. Nei pochi testi in cui l’episodio bellico compare, si realizza un equilibrio dinamico tra la sfera contingente della Storia, studiata nelle conseguenze devastanti che il conflitto provoca nelle famiglie delle reclute sul piano degli affetti, ed altre dimensioni che, all’opposto, tendono a distanziare l’evento, quali la “filosofia del lontano”, la prospettiva ontologica della Vita come flusso continuo ed indistinto o, ancora, la dimensione eternizzante ed immutabile dell’Arte. I racconti ospitano sempre una bachtiniana pluralità di visioni che, affidate alle voci dei personaggi, entrano in contrasto tra loro e, se spesso si rappresenta in modo suggestivo lo sforzo di sublimare l’accadimento storico, la costruzione della novella sancisce la sconfitta di questo tentativo e segna il prevalere del sentimento su qualsiasi processo di razionalizzazione ed evasione edulcorante dalla realtà.

Sara Lorenzetti
Settembre 2015

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