1921 – La Poesia di Dante – Recensione del saggio di Benedetto Croce

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Con questo titolo Benedetto Croce ha pubblicato recentemente un saggio che, «a saldare la catena del progresso orientale», ritenta quel migliore avviamento nella critica su Dante, del quale, secondo lui, avrebbe dovuto esser principio la grande monografia in quattro volumi intorno alla Commedia del tedesco Karl Vossler, noto crociano

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La poesia di Dante
Benedetto Croce. Immagine dal Web

La Poesia di Dante

Recensione del saggio di Benedetto Croce. 

Edizione di riferimento
Recensione del saggio di Benedetto Croce su La Poesia di Dante pubblicato su L’idea nazionale (14 settembre 1921) e mai raccolto in volume.
Luigi Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, collana “I Classici contemporanei italiani” Arnoldo Mondadori Editore, Milano giugno 1973.

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Con questo titolo Benedetto Croce ha pubblicato recentemente un saggio che, «a saldare la catena del progresso orientale», ritenta quel migliore avviamento nella critica su Dante, del quale, secondo lui, avrebbe dovuto esser principio la grande monografia in quattro volumi intorno alla Commedia del tedesco Karl Vossler, noto crociano; dopo quanto altri aveva già detto su quello che egli chiama il problema preliminare, se non propriamente il centrale della critica dantesca, cioè il problema della dualità della Commedia, che al Bouterweck si era presentato come distinzione e diversità tra il «sistema» e la poesia del poema, al De Sanctis come un contrasto tra allegorismo e poesia, tra cielo e terra, e a tant’altri prima (e meno esattamente, dice il Croce) tra il Dante teologo e il Dante poeta.

La soluzione del De Sanctis non pare al Croce molto felice; né in fondo, per quanto la tenga in pregio e in onore, egli riesce ad accogliere quella del Vossler, il quale, pur dopo essersi rifiutato a pensare la Commedia come opera mista di scienza e di poesia, perché «le opere piú possenti dello spirito umano sono quelle pure e non quelle ibride», e pur sapendo che il «tono fondamentale» dello stile della Commedia è «essenzialmente lirico», pensa poi che questo vitale principio lirico, trovandosi di fronte l’azione epico‑drammatica del poema, ora la converta in intima poesia e ora no, e che nell’esame di questa lotta e vicenda, che si prosegue lungo le tre cantiche, debba consistere la critica estetica del poema; esame che, ammettendo piuttosto che un contrasto una relazione da porre e da risolvere a volta a volta tra struttura e poesia, pare al Croce che avviluppi invece il Vossler in difficoltà inestricabili e lo tragga a conseguenze erronee.

Perché per lui non c’è via di mezzo: «l’uscita dalle difficoltà e dagli errori non può aversi, se non col distinguere nettamente struttura e poesia, ponendole bensí in istretta relazione filosofica ed etica, e perciò considerandole entrambe come necessità dello spirito dantesco, ma guardandosi dal pensare tra loro qualsiasi relazione di natura poetica. Solo a questo modo è dato godere profondamente e tutta la poesia della Commedia, e accettarne insieme la struttura, con qualche indifferenza bensí, ma senza avversione e, soprattutto, senza irrisioni».

Il che val quanto dire che per il Croce la Commedia non è opera di poesia, ma un’opera in cui sono bensí alcune poesie da «godere profondamente», e basta. Insomma, un nuovo ritorno a quel principio della «frammentarietà» del Bouterweck; principio che «se per una parte», dice il Croce, «era adesione ai giudizi su Dante del Bettinelli e di altri settecentisti, per l’altra anticipava un piú libero modo d’interpretare e gustare la poesia». Unica novità, il riconoscimento della stretta relazione filosofica ed etica tra struttura e poesia, considerate entrambe come necessità dello spirito dantesco e l’accettazione della struttura senza avversione e senza irrisioni.
E con ciò la catena è saldata.

Se non che, in quest’unica novità (dato che sia in tutto mantenuta, e vedremo che non è), viene a cascar l’asino della logica, scoprendosi subito un’insanabile contradizione, perché si vogliono tenere unite con uno stretto necessario legame quelle parti che poi si vogliono distinguere nettamente, col conseguente effetto della netta distinzione che non è possibile (e difatti si afferma e non si prova), e dello stretto e necessario legame che, ugualmente, volendo far la distinzione, non è possibile (e difatti si afferma e non si prova).
Se struttura e poesia sono da considerare entrambe come necessità dello spirito dantesco; se questo spirito dantesco, dovendo com’ogni spirito esser uno, non può essere che cosí, come non vede il Croce che non solo s’avviluppa anche lui nelle difficoltà e negli errori da cui voleva guardarsi il Vossler stabilendo la relazione anziché il contrasto o la netta distinzione, ma che viene anche a dire il contrario di quello che ha detto, prima affermando come necessaria la relazione e poi come necessaria la distinzione? Che vuol dire che la relazione tra struttura e poesia è di natura filosofica ed etica, e non di natura poetica? Se è relazione, non può essere da una parte sola: dev’esser anche la struttura di natura poetica; o se no come farà la poesia a essere in relazione non poetica con la struttura, ma soltanto in relazione filosofica ed etica? È l’assurdo. Tra le due l’una, o non è piú poesia, o la relazione non esiste, ed è da vedere soltanto la distinzione e il frammento, e addio unità dello spirito dantesco e quella relazione pur affermata come necessaria!

È difatti cosí. Pur tra un garbuglio opprimente di contradizioni, egli afferma che «l’unità vera della poesia è lo spirito poetico di Dante, del Dante della Commedia», che poi non ha unità, e difatti soggiunge «non quella complessiva del volume suo», e «il carattere complessivo delle tre cantiche» si può solo ritrovarlo «con la contemplazione della varia poesia che ciascuna di esse offre, e che, pur nella sua varietà, ha, in ciascuna delle cantiche, una certa fisionomia particolare, che la differenzia: non diversa per altro e non maggiore di quella che possono presentare tre libri in cui uno stesso poeta abbia raccolto, raggruppandole secondo certe affinità, le proprie liriche». Liriche, insomma «che stanno per sé» come dice altrove, senza aver nulla da vedere con la struttura. Ma poi dice invece che per questa struttura «la poesia di Dante prende carattere di assoluta necessità, prorompendo attraverso lo schema» cosicché «a chi non credesse all’esistenza reale e autonoma della poesia e la reputasse cosa artifiziosa e di cui si possa far di meno, non si potrebbe offrire caso piú chiaro da meditare che questo furore poetico di Dante teologo e politico, questo torrente che alta vena preme, che s’apre la via tra le rocce e i sassi e scorre impetuoso», «e tanta è la sua forza, tanta la sua ricchezza, che esso penetra in tutti i cavi delle rocce e dei sassi e avvolge con le sue onde spumeggianti e col velo d’acqua che solleva lo spettacolo alpestre», «segno che sovente non si vede altro che il moto delle sue acque», «e questa poesia di Dante, quando altro non può, avviva con freschissima fantasia i particolari delle disquisizioni e parti informative ed espedienti di racconto, e perfino le non infrequenti concettosità dell’erudito in istoria, mitologia e astronomia, e investe tutte queste cose col suo commosso e sublime accento».

O allora? domandate voi. Ma il Croce, che non può negare che per tale ragione schema e poesia «non sono separabili nell’opera di Dante, come non sono separabili le parti nell’anima sua, di cui l’una condiziona l’altra e perciò confluisce nell’altra», poi fa la netta distinzione, e dice che filosofia ed etica si traducono nella poesia dantesca, come dovevano tradursi, in modo negativo, «come racconto di un’esperienza che si sia fatta di cose ineffabili». E il racconto, chi sa perché, pare non debba considerarsi come cosa poetica. Il Croce afferma che lo accetta, con qualche indifferenza bensì, ma senza avversione e, soprattutto, senza irrisioni. Lo afferma, ma poi, al solito, alla prova, altro che senza avversione e senza irrisioni! La dice cosí grossa, che perfino al suo fedelissimo seguace tedesco Karl Vossler sembra poco seria. Per non mostrare avversione e per non fare irrisioni, non pensando piú minimamente a quel che ha affermato altrove, dice che la struttura o lo schema della Commedia non è neanche paragonabile alla cornice d’un quadro, perché con questo paragone ci potrebbe esser pericolo di ridare a quella struttura «una virtú propriamente estetica» essendo le cornici di solito «ideate insieme coi quadri e artisticamente lavorate in modo da formare un’armonia, quasi compimento delle pitture, il che veramente non è in questo caso». Perdio! Anche stonata come cornice! Neanche buona a far da cornice! E allora una cosa che non s’accorda per nessun verso e in nessun modo? E quella famosa stretta relazione? E quell’efficacia benefica per la quale la poesia di Dante «prende carattere di assoluta necessità, prorompendo attraverso lo schema»? ‑ Piú niente! Cornice che non s’accorda con la pittura. Mi pare che non ci sia male per uno che voglia accettarla senza avversione e, soprattutto, senza irrisioni! Ma non basta.

Sapete che cosa fece Dante nella rappresentazione dei tre regni d’oltretomba, che il Croce ‑ oh, badiamo bene ‑ non nega, sebbene lo dica a denti molto stretti, che cioè, sí, è «anche evidente che egli forní una certa rappresentazione dei tre regni», una rappresentazione che, insomma, «certamente si trova nel libro della Commedia, e anzi sembra sorreggere tutto il resto» ‑ (par di sognare!) ‑ ebbene, sapete che cosa fece in siffatta rappresentazione?

Voi tutti, illusi dalla potenza d’una fantasia creatrice che ha costruito un mondo di cui il poeta stesso agli occhi vostri appare, per prodigio d’arte, non piú il creatore ma l’attore, il viaggiatore che passa per esso mondo, dubitoso, impaurito, quasi non si fosse egli stesso apparecchiate quelle sorprese, quelle meraviglie, quegli spettacoli; voi tutti, che per effetto di quel suo passaggio in mezzo all’eterno di quel mondo vedete a mano a mano destarsi una vita momentanea che la potenza dell’arte fissa in atteggiamenti eterni, senza neanche piú pensare che questo transitorio nell’eterno, divenuto per potenza d’arte a sua volta eterno, non è certamente per il poeta com’è per voi, che vedete il fatto dov’egli vedeva e sentiva ancor nuova e calda la sua fattura, perché il sentimento del poeta ‑ divenuto quasi realtà fuori di lui ‑ voi lo vedete consistere nella rappresentazione ch’egli ne ha data, e non pensate piú neanche che questa consistenza con un carattere d’eternità che il sentimento oggettivato del poeta ha per voi, non poteva averla per lui che vedeva ancora invece l’atto del crearla a mano a mano che la materia gli consisteva dentro, quando era ancor caldo quel sentimento momentaneo per cui, ad esempio, Farinata, proprio ora, in quel gesto, gli si leva dall’arca, dalla cintola in su, e Francesca e Paolo gli s’appressano al grido affettuoso per narrargli i loro dolci sospiri; voi tutti, che se non ci fossero quei cerchi, e in uno d’essi non ci fosse quel «turbo», non vedreste piú Francesca e Paolo, e senza quell’arche in quell’altro cerchio non vedreste piú Farinata che è tutto in quel suo gesto di levarsi «dalla cintola in su»; voi tutti, a cui man mano leggendo par di vederlo e di toccarlo, quel mondo, tale e tanta è la potenza d’arte con cui il poeta ve lo rappresenta; voi tutti certo rispondete che questa rappresentazione non è, né può essere altro che una creazione fantastica di prodigiosa potenza.

Come siete ingenui, cari miei! Come non avete «occhio e orecchio per la poesia»! ‑ Rappresentazione è, e non si può negare. Una certa rappresentazione, sí, ecco; una rappresentazione che certamente si trova nella Commedia e anzi sembra sorreggere tutto il resto. E il Croce, trattandosi di rappresentazione, sí, si troverà magari un po’ impacciato ad ammetterla e piú a definirla, perché, stando alla sua Estetica, veramente gli toccherebbe dire che è arte. Che sarà, Dio mio? Che sarà? Ah, non arte! Nossignori! Ma sapete che cosa? Costruzione immaginativa, ecco. Non poesia. Non scienza. È l’immaginazione che qui «interviene come demiurgo e compie un’opera affatto pratica, qual è quella di foggiare un oggetto che adombri a uso dell’immaginazione l’idea dell’altro mondo, dell’eterno». Ripeto, par di sognare! L’immaginazione che foggia un oggetto che adombri a uso di se stessa l’idea dell’altro mondo! Idea dell’altro mondo, veramente, dove di certo si potranno vedere siffatti prodigi; opere di cui non si può dire che diavolo siano, se poesia no, poesia sbagliata neppure, come parrebbe di dover dire trattandosi dell’immaginazione che vuol compiere come demiurgo un’opera affatto pratica; e opera affatto pratica neppure, perché compiuta con lo strumento dell’immaginazione, che di fatti la compia a uso di se stessa.

Arte e scienza - Capitolo 4
Dante Alighieri (1265-1321)

Tutto questo, già cosí difficile anche ad affermare, doveva poi a ogni modo essere dimostrato. Ma figurarsi! Il Croce si prova a dire in un modo, e poi, naturalmente, si disdice. Nell’Introduzione, a pag. 11, aveva scritto ‑ «Valga il vero… quelle dottrine vi stanno non in quanto pensate ma in quanto immaginate… importa conoscerle, ma allo stesso modo con cui si conosce un mito, una favola, un fatto qualsiasi, cioè come elementi o parti della poesia, dalla quale, e non dalla logica, ricevono impronta e significato». Benissimo! Era dunque da veder questo: l’immagine di quei pensieri; l’impronta e il significato poetico di quegli elementi e di quelle parti della poesia dantesca, che come elementi e parti di poesia non potevano esser altro che poesia. Ma che! Nossignori! Che poesia! Poesia non possono essere perché il Croce, dopo aver detto cosí, dice che ora manca per essa il necessario motivo poetico generatore. E perché manca? Sentite. Perché «se alla ferma fede nella vita oltremondana come vera ed eterna vita si univa nell’animo di Dante fortissimo il sentimento delle cose mondane, se al suo poema posero mano “e cielo e terra”, la conseguenza che si presenta aperta è, che a rigor di termini la rappresentazione dell’altro mondo, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, non poteva essere soggetto intrinseco della sua poesia né motivo generatore e dominante». E questa è una dimostrazione? Potrebbe essere al contrario la prova piú evidente di quello che si vuol negare. Se al suo poema avesse posto mano soltanto il cielo, se in Dante fosse soltanto la ferma fede nella vita oltremondana come vera ed eterna vita, senza che ad essa s’unisse nell’animo di lui fortissimo il sentimento delle cose mondane, Dante sarebbe un asceta, un teologo, un padre quaresimalista o non so che altro; invece è proprio poeta, e il poeta che compone un poema a cui pongon mano e cielo e terra, appunto perché oltre il cielo, grazie a Dio, c’è in lui anche la terra, e a quella ferma fede s’unisce quel sentimento fortissimo delle cose mondane!

Dire che una rappresentazione dell’altro mondo avrebbe richiesto un assoluto predominio del sentire del trascendente su quello dell’immanente, una disposizione qual’è propria dei mistici ed asceti, aborrente dal mondo, aspra e feroce, o estasiata e beata, e di cui è dato rinvenire qualche poetico assaggio nell’innografia cristiana o in alcuni cantici di fra Jacopone, e che il ritmo sarebbe stato allora molto accelerato e le immagini affioranti e sparenti, energiche in certi tratti, vaghe e sfumate nel resto, quali si accennano nelle aspirazioni e nel terrore, premute d’ogni intorno dalla presenza di Dio, e l’Inferno cosí e cosí, e il Purgatorio cosí e cosí, e il Paradiso cosí e cosí; è dire come l’avrebbe fatta lui, Benedetto Croce, o un innografo cristiano o fra Jacopone, la Commedia, ma non è dimostrare un’impossibilità in Dante di farla in modo diverso, cioè a suo modo, senza quell’assoluto predominio, senza quella disposizione propria dei mistici ed asceti, col suo ritmo, con le sue immagini, con quel suo Inferno, con quel suo Purgatorio e con quel suo Paradiso, di cui dopo tutto mi sembra che, senza aver «l’occhio e l’orecchio» che per la poesia ha il Croce, ci possiamo contentare.

Nessuna dimostrazione contraria, dunque. E tuttavia, sempre per accettare senza avversione e soprattutto senza irrisioni questa costruzione immaginativa, dice che «si potrebbe forse acconciamente chiamare (impagabile quel forse!) un romanzo teologico, o etico‑politico‑teologico, in analogia dei romanzi “scientifici” o “socialistici” che si sono scritti in tempi a noi vicini e si scrivono ancora». Insomma, il Viaggio al centro della Terra o intorno alla Luna o intorno al Sole di Giulio Verne, o Nell’anno 2000 di Bellamy; però teologico; cioè «perché abbia una certa impronta di serietà» con un bel cappello da prete in capo.

E la rappresentazione cosí evidente dei tre regni oltremondani, che quasi si vede e si tocca, non è perché Dante crea con la potenza della sua arte la realtà di quei tre mondi popolati delle sue figure eterne; no: è per una finzione a freddo, perché altrimenti «s’introdurrebbe nel genio di Dante una troppo grande mistura di demenza e si verrebbe meno al rispetto che gli si deve». No. Per Croce, Dante non è demente: Dante lo fa apposta, «si regola come tutti i compositori di romanzi di quella sorta, teologici, scientifici o socialistici» che sono tutti cosí «precisi e meticolosi e ragionano le loro immaginazioni perché cosí richiede il loro assunto». Capite? Come dire: Dante, signori miei, ve la dà a bere. E il Croce non vuol mancargli di rispetto. Ma per lui codeste costruzioni immaginative sono «di scarsissima importanza». Sapete perché? Perché noi soprattutto «abbiamo altre immaginazioni pel capo»!

Mi pare che sia proprio il caso di ripetere ancora una volta: par di sognare! Ma nossignori: ecco che il Croce si mette a far dell’ironia su quanti cercano di fare esercizii di logica intorno a quelle che appajono e sono contradizioni logiche della rappresentazione. Ma fa dell’ironia non in nome di quell’irrazionale che può trovarsi in ogni creazione fantastica; ma perché gli sembra ridicolo prendere tanto sul serio, come quei poverini fanno, una cosa che per lui ha scarsissima importanza, quella costruzione immaginativa, che per lui non nasce da motivo poetico, e che non vale «né a segnare il particolare carattere poetico, posto che vi sia, di ciascuna cantica, né i passaggi da una situazione poetica all’altra». Perché per lui «la poesia delle tre cantiche non si deduce dal concetto del viaggio per i tre regni». E nessuno gli potrebbe dar torto, se veramente si trattasse del concetto del viaggio. Il guajo è che si tratta invece di una rappresentazione, e non d’un concetto: d’una rappresentazione fatta da Dante, e non d’un concetto d’un teologo; come Dante, insomma, poteva farla, dato quello che era, tutto intero e uno; e non come l’avrebbe fatta Benedetto Croce poeta.

Ma Dante tutt’intero e uno ha il grave torto di non potere entrare nella teoria estetica di Benedetto Croce, che tutti sanno che cos’è e quali frutti ha prodotto. Dante poeta, come lui lo vuole, non combacia con Dante critico, «l’atto della creazione poetica e l’atto del pensamento filosofico di essa» sono per lui due atti distinti diversi, capite?; pur essendo un pensamento filosofico della creazione poetica, quest’atto è ora distinto diverso, e l’uno non condiziona piú l’altro e non confluisce piú nell’altro, come prima aveva detto. E con questa bella logica bisogna perciò trattare «la poesia dantesca, non secondo Dante, ma secondo verità». Vale a dire, secondo quella teoria estetica.

Dante potrebbe rispondere che, veramente, quando si propose di far trattati d’indole didascalica e pratica, li fece, come il De Vulgari Eloquentia e il De Monarchia; e che se ne avesse voluto fare un altro ugualmente didascalico e pratico, il quale, dopo quello su la lingua volgare e l’altro sul reggimento politico, trattasse propriamente di morale, lo avrebbe fatto. E che se poi avesse voluto far tante liriche, o episodii lirici, e dar loro una struttura non poetica, lo avrebbe fatto ugualmente come nella Vita nuova o nel Convivio. Se fece invece la Commedia, segno è che non volle fare un trattato, né un’opera composta di parti poetiche e non poetiche; ma un poema; e che perciò assolutamente arbitrario è voler vedere, nella sua stessa intenzione, due intenzioni, una dualità, due Danti. Egli, ch’era un Dante solo, si sentí di poter cavare poesia dalla materia che imprendeva a cantare, il che val quanto dire che sentiva poeticamente la sua materia, o piú precisamente, che questa materia era il suo sentimento poetico; se no, avrebbe composto un trattato e non un poema.
La sua fantasia è popolata d’immagini e non di concetti. Ma il Croce, che si prova sempre a negare quel che prima ha affermato, dice che «quella materia» nello spirito di Dante, «si formò in poesia» e poi che resta materia da trattato allegorico‑morale.

Sì mette a parlare in astratto dell’allegoria, per dimostrare che, nella poesia, l’allegoria non può aver mai luogo; che se ne parla bensí, ma quando si va a cercarla e a volerla cogliere, non si trova. E pone tre casi; il primo dei quali è che l’allegoria sia congiunta ab extra con una poesia, decretandosi per un atto di volontà, che tali personaggi, tali azioni, tali parole della poesia debbano stare anche a significare un certo fatto che è accaduto o accadrà, o una verità religiosa o un giudizio morale o altro che sia; e in questo caso, è chiaro ‑ dice ‑ che la poesia rimane intatta e che essa sola può riguardare la storia della poesia, laddove tutto l’altro appartiene alla cerchia e alla storia della pratica; altra casella; il secondo caso è che l’allegoria non lasci sussistere la poesia o non la lasci nascere, e in questo caso, non essendovi poesia, non c’è neppure oggetto alcuno di storia della poesia; il terzo caso è quello in cui si abbia bensí l’allegoria ma tradotta compiutamente in immagini, e tale che non rimanga fuori della poesia come nel primo caso o non la distrugga e impedisca come nel secondo, ma cooperi con essa e in essa. Ebbene, questo terzo caso, dice il Croce, si dimostra apertamente contradittorio, perché, se l’allegoria c’è, essa è sempre, per definizione, fuori e contro la poesia, e se invece è davvero dentro la poesia, fusa e identificata con lei, vuol dire che l’allegoria non c’è, ma unicamente immagine poetica, la quale non si circoscrive a cosa materiale e finita, ed ha sempre valore spirituale e infinito. In tutti questi casi, chi legge poeticamente, non giunge, né deve o può giunger mai, al senso allegorico, perché naviga in altre e piú dolci acque; e d’altronde, è impossibile, per isforzi che si facciano, vedere una accanto all’altra due cose, di cui una appare solo quando l’altra dispare.

Si potrebbe obbiettare: e la favola? È allegoria. Non è poesia? Certo, in quanto vale come rappresentazione; ma rappresentazione di qualche cosa che vuole avere per se stessa il suo senso: un senso morale, voluto sí anche per la morale, ma non solo per questa, ché altrimenti non si farebbe una favola ma si darebbe un precetto morale: dunque sí questo, ma divenuto immagine, rappresentazione, poesia. Ed ecco che l’allegoria è fuori dei tre casi che il Croce pone. Non fuori o contro o dentro la poesia; ma sottinteso morale, continuo, compresente, della rappresentazione: e non c’è definizioni che tengano e che neghino a priori, cioè volendo, sí lui, sofisticare.
E, del resto, bisognava dimostrare che l’allegoria dantesca sta in uno di questi tre casi.

Chiunque di proposito componga un’allegoria, non crede certamente alla realtà dell’immagine che per lui stesso è forma fittizia d’un concetto da rappresentare. In Dante, invece, l’allegoria è necessaria e sostanziale, sempre: è l’altro mondo che è il vero mondo: non un concetto, ma una realtà da creare poeticamente. Dante crede alla forma allegorica del suo sentimento, che val quanto dire alla realtà della sua rappresentazione, e si vede in essa, attraverso essa, toccando tutto, descrivendo tutto nella sua consistenza maravigliosa: parlare di romanzo‑allegoria, di costruzione intellettuale è bestemmia.

L’errore massimo consiste nell’assumere questa allegoria dantesca alla stregua di tutte le altre allegorie: cioè come un concetto che si vesta, un concetto figurato, laddove è proprio l’inverso. Dante muove dalla terra al cielo, dall’umano al divino. Per lui è da natura inferiore prendere soltanto una sensibile dilettazione. Egli non vuole fare la figura simbolo di un concetto, una figura dunque che non abbia per sé verità. Ma per lui la figura ha verità in quanto simbolo; in quanto cioè significa qualche cosa, per cui è cosí e cosí; e l’arte è la rappresentazione di questo qualche cosa, per cui ogni figura vive nella sua essenzialità allegorica, non come in una veste, ma anzi nella sua vera realtà. Non è la Grazia che si fa Beatrice; è Beatrice che vive nella sua vera essenzialità di Grazia divina. Come si vede, abbiamo un assoluto capovolgimento del concetto d’allegoria. E chi non intende questo, non può intender Dante.

È questa sua una falsa poetica? Ma se tutto questo, per lui, non è un pensato ma un sentito, se tutto questo non è un pensiero astratto da trattare in versi, ma un sentimento da rappresentare?
Non bisogna parlare d’uno schema allegorico come d’uno scheletro. Lo scheletro è il poema stesso con tutta la sua carne e tutto il suo sangue e i suoi muscoli e i suoi nervi. Carne muscoli e nervi son distribuiti dove piú e dove meno: e c’è dove è polpa sanguigna, dove si snoda un muscolo, dove fremono i nervi, e dove è solo la durezza dell’osso e lo scheletro si tocca. Ma tutto è vivo, e quello scheletro non è mai la morte.

Luigi Pirandello

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