La paura del sonno – Audio lettura

image_pdfvedi in PDF

Legge Valter Zanardi
«Per volere di Dio o per mano del diavolo, la piccola signora Fana era risuscitata; e forse il merito spettava più al diavolo, a giudicare almeno dalla prova che della sua resurrezione volle subito dare spezzando il nastro che le legava i polsi per scagliare contro la gente che la intronava il crocifisso trovatosi in grembo.»

Prime pubblicazioni: Roma letteraria, 25 marzo 1900, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.

La paura del sonno
Immagine dal Web

La paura del sonno

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

******

             I Florindi e i Lindori, dalle teste di creta dipinte di fresco, appesi in fila ad asciugare su uno dei cinque cordini di ferro tesi da una parete all’altra nella penombra della stanzaccia, che aveva sì due finestroni, ma più con impannate che con vetri, chiamavano la moglie del fabbricante di burattini, la quale si era appisolata con l’ago sospeso in una mano che pian pianino le si abbassava in grembo, davanti a un gran canestro tutto pieno di berrettini, di brachette, di giubboncini variopinti.

             – Parona bela!

             E l’appisolata si scoteva di soprassalto; si stropicciava gli occhi; si rimetteva a cucire. Uno – due – tre punti e, a poco a poco, di nuovo, ecco le palpebre socchiudersi e il capo pian pianino reclinarsi sul seno, come se volesse, un po’ tardi veramente e con molto languore, dir di sì ai Florindi e ai Lindori: un sì che voleva dir no, perché le parrucchine, dormendo, non le faceva davvero quella buona signora Fana.

             –   Neh, signo’!  – chiamavano allora i Pulcinelli, dal secondo cordino. L’appisolata tornava a scuotersi di soprassalto; si stropicciava gli occhi; si rimetteva a cucire. Uno – due – tre punti… ed ecco, di nuovo, le palpebre socchiudersi, il capo reclinarsi pian pianino, come se volesse dir di sì anche ai Pulcinelli. Ma, ahimè, non faceva neanche le casacche e i berrettoncini la buona signora Fana, così.

             E aspettavano pure tocchi e toghe, maglie e brachette e manti reali, su gli altri cordini di ferro, giudici, pagliaccetti, contadinotti e Carlimagni e Ferraù di Spagna: tutto, insomma, un popolo vario di burattini e marionette.

             Saverio Càrzara, marito della signora Fana, per questa sua svariata e ingegnosa produzione s’era acquistato il nome e la fama di Mago delle fiere. Realmente aveva la passione del suo mestiere, e tanto impegno, tanto studio e tanto amore poneva nel fabbricare le sue creaturine, quanto forse il Signore Iddio nel crear gli uomini non ne mise.

             – Ah, quante cose storte hai tu fatte, Signore Iddio ! – soleva infatti ripetere il Mago.  – Ci hai dato i denti, e a uno a uno ce li levi; la vista, e ce la levi; la forza, e ce la levi. Ora guardami, Signore iddio, come m’hai ridotto! Di tante cose belle che ci hai date, nessuna dunque dobbiamo riportarne a te? Bel gusto, di qui a cent’anni, vedersi comparire davanti figure come la mia!

             Egli, il Mago, ogni sera, vincendo lo stento con la pazienza, leggeva ogni sorta di libri: dai Reali di Francia alle commedie del Goldoni, per arricchirsi vieppiù la mente di nuove cognizioni utili al suo mestiere.

             Gli era di conforto a quello studio un buon fiasco di vino. E leggeva ad alta voce, magnificamente spropositando. Spesso rileggeva tre e quattro volte di seguito lo stesso periodo, o per il gusto di ripeterselo, o per capirne meglio il senso. Talvolta, nei punti più drammatici e commoventi, a qualche frase d’effetto, chiudeva furiosamente il libro, balzava in piedi e ripeteva la frase ad altissima voce, accompagnandola con un largo ed energico gesto:

             – E lo bollò con due palle in fronte!

             Si raccoglieva, ci ripensava un po’, e poi di nuovo:

             – E lo bollò con due palle in fronte!

             La moglie dormiva quietamente, seduta all’altro capo del tavolino, affagottata in un ampio scialle di lana. Di tanto in tanto il suo ronfo crescente infastidiva il marito, il quale allora interrompeva la lettura per mettersi a fare con le labbra il verso con cui si chiamano i gatti. La moglie si destava; ma, poco dopo, ripigliava a dormire.

             Saverio Càrzara e la signora Fana (come ella si faceva chiamare: – Perché io veramente, di nascita e d’educazione, sono signora! – ) erano da dodici anni uniti in matrimonio, e mai una lite, mai un malinteso avevano turbato la quiete laboriosa della loro casetta.

             Da giovanotto, il Càrzara, sì, era stato un po’ focoso, tanto che portava ancora i calzoni a campana a modo dei guappi: e forse avrebbe voluto pettinarsi ancora coi fiaccagote; ma i capelli, eh! gli erano caduti precocemente; avrebbe voluto fors’anche parlare con l’enfasi d’un tempo; ma la voce aveva adesso certi improvvisi ridicolissimi cangiamenti di tono, che don Saverio preferiva star zitto, e parlava solo quando non poteva farne a meno; e lo faceva ogni volta in fretta e arrossendo.

             Al guasto dei capelli, all’infermità della voce s’era poi unita, a finir d’estinguere il giovanile fervore del Mago, l’indole placidissima della moglie.

             Piccola di statura, stecchita, come di legno, la signora Fana pareva avesse lo spirito avvelenato di sonno: dormiva sempre, infusa come in un’aura spessa e greve di letargo; o si rintanava in un cupo, oscuro silenzio, rifuggendo in tutti i modi da ogni sensazione della vita.

             Aveva accolto i primi impeti d’amore del marito come un lenzuolo bagnato un febbricitante. E così gli ardori del Càrzara a poco a poco si erano raffreddati.

             Attendeva ora assiduamente al lavoro, senza mai stancarsi. Qualche volta, dimentico della infermità della voce, si provava a canticchiare, lavorando; smetteva però subito, non appena la dolorosa coscienza di quella ridicola infermità gli si ridestava; sbuffava, e continuava (come per ingannar se stesso) a modulare il motivo fischiando. S’intratteneva qualche sera un po’ di soverchio col fiasco del vino; ma la placida moglie ci passava sopra, purché egli la lasciasse dormire.

             Questa del continuo sonno della moglie era una spina che di giorno in giorno si faceva più pungente per il Mago. I burattini, è vero, esposti ignudi su i cordini di ferro non erano capaci di soffrire il freddo o la vergogna; ma, andando a lungo di questo passo, don Saverio si vedeva minacciato d’avere tra breve tutte le stanze invase dalle sue creaturine ignude e supplicanti la signora Fana di fornir loro, alla fine, la tanto attesa opera dell’ago. Senza contare che quattrini in casa non ne entravano davvero, seguitando così.

             –    Fana! – chiamava egli pertanto, dalla stanza attigua, in cui lavorava, e – Fana! – di lì a poco, se ella non rispondeva, e – Fana! Fana! – di mezz’ora in mezz’ora, per quanto era lunga la giornata. Finché stanco, per farla breve, di quella continua sorveglianza, prese un giorno il partito di lasciar dormire in pace la moglie e di dare a cucir fuori i varii indumenti delle sue creaturine. Era il meglio che potesse fare, perché la signora Fana, imbestiata nel sonno, infastidita dai continui richiami, cominciava a rispondere con poco garbo al marito.

             –    Questo sonno è la mia croce, – diceva il Mago a gli amici, di cui ascoltava ora con compiacimento le commiserazioni, e in ispecie quelle della vicina, a cui aveva rimesso l’incarico della fornitura del vestiario per i suoi burattini.

             Con gli occhi bassi questa vicina parlava sospirando al Càrzara del marito defunto, «buon uomo, ma pigro, sant’anima!».

             – Per il sonno e per il caldo del letto, vedete, ci siamo ridotti in questo stato… Lui, no, ormai: dorme in pace per sempre, poverino! ma io… mi vedete? Perciò vi dico che nessuno può compatirvi più di me…

             E chi sa quanto e fino a qual punto avrebbe voluto davvero compatirlo, se il Mago col suo onesto contegno non avesse imposto fin da principio un limite alla vedova vicina.

             – Badate se quel sonno non provenga da qualche malattia che cova! – gli suggeriva intanto qualche amico.

             Il Mago si stizziva, scrollava le spalle.

             – Non mi fate rìdere! Mangia per due, dorme per quattro! Vorrei essere malato io, com’è malata lei!

             Così, in quel tratto di via, non si parlava d’altro che del continuo sonno della signora Fana, passato quasi in proverbio.

             Quand’ecco una mattina, poco prima di mezzogiorno, partire dalla casa del Càrzara grida e pianti disperati.

             Tutto il vicinato e altra gente che si trovava a passare per via accorrono e trovano la signora Fana stesa immobile sul pavimento e il Mago che grida in ginocchio e piange davanti a lei:

             – Fana! Fana! Fana mia! Non mi senti più? Perdono! Fana mia… Poi, alla vista di tanta gente, comincia a percuotersi le guance:

             –    Assassino! Assassino! L’ho ammazzata io! Non l’ho curata! Io che credevo…

             –    Coraggio, su! coraggio… – gli ripetono attorno tante voci, nella confusione del momento. – Coraggio! Avete ragione, poveretto!

             E alcune braccia lo strappano dalla morta, lo sollevano, lo trascinano in un’altra stanza, sorreggendolo; mentr’egli, con l’escandescenza del primo dolore, interrotto da singhiozzi, narra com’è avvenuta la disgrazia:

             – Su la seggiola, là… Credevo che dormisse… «Fana! Fana!» la chiamo… – Ah Fana mia! Io t’ho ammazzata… – La chiamavo… Chi poteva supporre? – E lei, come poteva rispondermi? Morta, capite? Così, su la seggiola! Me le accosto per scuoterla, pian piano… e lei… oh Dio! me la vedo traboccare a testa giù, sotto gli occhi… Morta! morta! Oh Fana mia!

             Il Càrzara siede inconsolabile, tra un crocchio d’amici; mentre la signora Fana è sollevata da terra e messa a giacere sul letto, subito assiepato da curiosi che si sporgono a guardare di su le spalle dei più vicini. Ha gli occhi chiusi, la buona signora Fana, e pare che dorma placidamente; ma è fredda e pallida, come di cera. E c’è chi vuol sentire quanto le pesi il braccio; chi le tasta la fronte, vincendo il ribrezzo, con paurosa curiosità; chi le rassetta addosso qualche piega della veste.

             Il popolo delle marionette, appeso su i cordini di ferro, par che assista atterrito dall’alto a questa scena, con gli occhi immobili nell’ombra della camera. I pulcinelli, senza berrettoncini, par che se li siano levati dal capo per rispetto verso la morta: i Florindi e i Lindori, senza parrucchine, pare che se le sieno strappate nella disperazione del dolore; soltanto i paladini di Francia, chiusi nelle loro armature di latta o di cartone indorato, ostentano un fiero disdegno per quell’umile morte non avvenuta in campo di battaglia; e i piccoli Pasquini, dalle folte sopracciglia dipinte e il codino arguto sulla nuca, conservano la smorfia furbesca del sorriso che scontorce loro la faccia, come se volessero dire: «Ma che! ma che! La padrona fa per burla!».

             Intanto, chi va, chi corre per un medico? – Un medico? Perché? – Povera signora Fana! Morta senza conforti religiosi! – Le torce! Quattro torce! – Sì, ma… il danaro? – Eccolo qua! – (una vicina lo appronta). Si va per il medico.

             –    Ma è inutile! – Vestirla piuttosto! Bisogna vestirla! Dove saranno gli abiti?

             –    Le vicine più premurose girano per la casa in cerca dell’armadio; ficcano il naso da per tutto. – Dov’è l’armadio? – E intanto a pie del letto c’è chi strappa le scarpe alla morta, mentre gli altri raccomandano: – Piano! Piano! – come se la piccola buona signora Fana si possa ancora far male. Arriva il medico, osserva, tra quella confusione, la giacente; poi domanda ai vicini: – Perché m’avete chiamato? –. Nessuno sa o attende a rispondergli, e il medico se ne va. Allora le vicine fanno sgomberare la stanza, e poco dopo la signora Fana è vestita e coperta da un lenzuolo.

             Il Mago, sorretto per le ascelle, viene condotto davanti al letto di morte. La signora Fana su l’ampio letto è così esile e piccina, che s’indovina appena sotto il lenzuolo: due, tre lievi pieghe soltanto accusano il cadavere al lume giallognolo dei grandi ceri.

             È già sopravvenuta la sera. Tre vicine veglieranno la morta tutta la notte. Quattro amici terranno in un’altra stanza compagnia al Mago. – Ah, che spasimo qua… – si lamenta questi a tarda notte.

             –    Nel cuore? Eh, poveretto!

             –    No. – Don Saverio accenna alla guancia. – Come se ci avessi un cane addentato.

             –    Scherzi del dolore… – gli risponde uno degli amici. E un altro gli propone, con esitanza:

             –    Per stordirlo, una fumatina… Il terzo gli offre un sigaro.

             –   Ma che! No! – si schermisce il Mago, quasi offeso: – Fana è lì, morta; come faccio a fumare io qua?

             Un quarto si stringe nelle spalle e osserva:

             – Non vedo che male ci sarebbe, se non fumate per piacere… E quell’altro gli offre di nuovo il sigaro (tentazione).

             – Grazie, no… se mai, la pipa… – dice don Saverio, cavando, esitante, dalla tasca una vecchia pipa intartarita.

             I quattro amici lo imitano.

             –    Come vi sentite adesso? – gli domanda uno, di lì a poco.

             –    Ma che! lo stesso… – risponde il Mago.  – Arrabbio dal dolore.

             –    Forse, date ascolto a me, un goccetto di vino… – suggerisce il primo, rattristato e premuroso.

             E gli altri: – Certo!

             –    Meglio!

             –    Stordisce di più! La notte è così fredda!

             –    Ma vi pare che possa bere? – domanda mestamente don Saverio. – Fana lì morta… Se voi volete, senza cerimonie: di là ce ne dev’essere…

             Uno degli amici si alza infreddolito e va a prendere il vino, seguendo le indicazioni del vedovo; non per sé, né per gli amici, ma per quel poveretto che ha mal di denti… Una bottiglia e cinque bicchieri. Man mano la conversazione s’avvia; triste. Resta al Mago il rimorso di non aver dato ascolto a chi gli aveva espresso il dubbio non fosse quel sonno continuo della moglie il segno manifesto d’una malattia che le covava dentro. Sì, così era: adesso, troppo tardi, egli ne aveva la prova nel fatto. Ma intanto… eh già, intanto bisognava pur farsi coraggio, rassegnarsi. Nessuna colpa volontaria, in fin dei conti, da parte sua: aveva lasciato dormire la moglie per non infastidirla più. La moglie invece era malata, dormiva, poverina, quasi per prepararsi all’ultimo sonno! Che ne sapeva don Saverio? Un giorno o l’altro quella disgrazia doveva pure accadere! Non era più vita, ormai! Meglio dunque presto che tardi, e penante ragioni…

             Così, a poco a poco, la bottiglia si votava, ma piano piano, senza glo glo. E finalmente ruppe l’alba.

             Ai quattro angoli del letto le torce si erano a metà consumate, non ostante la cura d’una vicina che pazientemente aveva nutrito d’ora in ora le fiammelle coi gocciolotti raccolti dai fusti, perché contava di portarsi via i resti di quelle torce, mentre le altre due compagne dormivano placidamente accanto al letto funebre.

             Vennero su le prime ore del giorno i portantini col cataletto.

             I  morti, al tempo del Mago, non si spedivano belli e incassati all’altro mondo: usavano altri mezzi di spedizione: i cataletti.

             Tutto il vicinato era già in attesa, per accompagnare la defunta fino all’uscita del paese.

             Don Saverio volle legare lui stesso con le sue mani i polsi della moglie con un nastrino di seta gialla, come usava allora; poi, ajutato da un amico, tolse dal letto la morta per le spalle e l’adagiò sul cataletto, e le pose sul seno un Crocifisso; la baciò in fronte e la contemplò un tratto attraverso le lagrime che gli sgorgavano abbondanti dagli occhi gonfi e rossi.

             Un sacerdote, labbreggiando con gli occhi socchiusi un’orazione, benedisse il cadavere, e finalmente i portantini s’introdussero tra le stanghe del cataletto, si disposero su gli omeri le cinghie, e via.

             II Mago ricadde in preda ai quattro amici della veglia.

             Andava il mortorio silenzioso per le vie della cittaduzza, a quell’ora deserte. Il freddo era intenso, e andavano gli uomini stretti nelle spalle e con le mani in tasca, guardando il fiato vaporare nell’aria rigida invece del fumo della pipa che non accendevano per rispetto alla morta; andavano le donne avvolte negli scialli neri di lana o nelle mantelline di panno, conversando tra loro a bassa voce; e borbottando orazioni, le vecchie. Di tratto in tratto il mortorio s’arrestava, e i portantini si davano il cambio.

             La via che conduceva al camposanto, situato in alto, in cima al colle che sovrasta la cittaduzza, svoltava bruscamente al cominciare dell’erta, fuori dell’abitato. Proprio al gomito sorgeva un vecchio albero di fico dal tronco ginocchiuto e dai rami aspri e stravolti, coi quali sbarrava quasi il passaggio. Quest’albero di fico, guardiano della via del cimitero, non era stato abbattuto, perché, rendendo così, coi suoi rami, difficile il transito ai morti, pareva ai vivi di buon augurio.

             Giunto presso all’albero, già il codazzo del mortorio si sbandava, quand’ecco, a un tratto, avendo i portantini nel darsi un ultimo cambio lasciato impigliar le vesti della morta tra i rami del fico più sporgenti, la signora Fana, solleticata alle gambe, alle mani, al volto, dalle foglie dell’albero, tra le grida d’orrore di tutta la gente, sorgere a sedere sul cataletto, coi polsi legati, cerea, sbalordita di trovarsi in quel luogo, all’aria aperta, tra tanto popolo che le urlava intorno raccapricciato.

             Per volere di Dio o per mano del diavolo, la piccola signora Fana era risuscitata; e forse il merito spettava più al diavolo, a giudicare almeno dalla prova che della sua resurrezione volle subito dare spezzando il nastro che le legava i polsi per scagliare contro la gente che la intronava il crocifisso trovatosi in grembo. Scesa poi dal cataletto con le mani tra i capelli, fu circondata dalle amiche, dai curiosi che avevano seguito il mortorio. In un baleno si sparse, volò la nuova della resurrezione, e gente accorreva da ogni parte, a vedere il miracolo.

             – Miracolo! Miracolo!

             E la piccola signora Fana non trovava parole da rispondere; stordita, oppressa, tempestata di domande, di cure, guardava in bocca la gente. – Una sedia! Una sedia! – Non si reggeva in piedi? – I piedi? – Come si sentiva? – Aria! Aria! Largo! – I piedi? – Come! le facevano male i piedi?

             – Sì… ho le scarpe strette, che non mettevo più da un anno… – risponde la signora Fana, guardandosi i piedi, seduta.

             I più vicini ridono; le tolgono le scarpe.

             –    Voglio tornare a casa… – riprende la signora Fana. Sorge allora un contrasto tra la folla raccolta.

             –    Per carità! Non la fate andare subito a casa! – raccomandano alcuni.

             –    Subito! Subito! – tempestano altri.

             –    No! Preparate alla notizia il marito! Potrebbe impazzire!

             –    E giusto! E giusto! – si grida di qua; ma di là, sollevando in trionfo la sedia su cui la signora Fana sta seduta: – A casa! A casa!

             –    No! Prima in chiesa! A ringraziare Dio!

             –    A casa! A casa!

             Da quel pandemonio, intanto, tre, quattro vicini di casa del Mago scappano di corsa per prepararlo al fausto avvenimento, prima che arrivi la processione che va gridando in delirio per le vie:

             –    Miracolo! Miracolo!

             –    Cose che avvengono… – spiega invece sorridendo un medico mattiniero in una farmacia. – Una sincope cessata a tempo, per fortuna!

             Intanto i vicini accorsi a dare l’annunzio, pervenuti in casa di Càrzara, lo trovano tra i quattro amici della veglia, se non del tutto confortato, già quasi calmo. Discorre dei suoi burattini e dell’arte sua, fumando e bevendo con gli altri, a sorsellini, senza aver l’aria di badare a quello che fa. La mestizia, sì, è rimasta nella voce, poiché il discorso è partito dalla disgrazia della moglie che da molto tempo non lo ajutava più nel suo lavoro; ma ne parla come se fosse morta da più d’un anno. Gli amici gli lodano le sue creaturine, e lui se ne compiace; ne ha presa anzi una a caso da un cordino, e la mostra ai quattro ammiratori.

             – Guardate… no, vi prego, guardate bene. In coscienza, chi li lavora più così? Questi non si rompono neanche se li sbattete su le corna del Tubba che osa dirsi mio rivale! E facile che un bambino, fattura di Dio, muoja; ma questi che faccio io campano cent’anni, parola d’onore! La ragione c’è: figli non ne ho avuti, mi capite? I miei figli sono stati sempre questi qua.

             Ma la strana animazione che è nei volti dei sopravvenuti tutti ansanti, esultanti, sorprende il Mago e i quattro compagni.

             –    Una buona notizia, don Saverio!

             –    No, cioè… sì… una notizia che vi farà piacere…

             –    Che notizia?

             –    Ma… ecco, dicono… che tante volte… sì, uno si inganna e che poi none vero… in certe malattie…

             –    Miracoli della Madonna, ecco! – esclama uno, con gli occhi spiritati, non sapendo più contenersi.

             –    Che miracoli? che malattie? Parlate! – fa il Mago alzandosi, inquieto.

             Ma già comincia a farsi sentire dal fondo della via il clamore confuso della processione.

             –    Vostra moglie, sentite?

             –    Ebbene?… Ebbene?… – balbetta don Saverio impallidendo, poi, a un tratto, arrossendo.

             –    Non è morta? – domanda stupito uno dei quattro compagni.

             –    No, don Saverio, no! sentite? ve la por… Oh Dio, don Saverio! Che avete? Il Mago si abbandona sulla seggiola, privo di sensi.

             –    Aceto! Aceto! Fategli vento!

             Il clamore della processione cresce, s’avvicina vie più, diviene assordante. La popolazione è già sotto la casa del Mago. E invano i primi accorsi e due dei compagni si sbracciano a far cenni, a zittire dal balconcino: nessuno dà loro retta; e già la signora Fana, calata tra gli evviva dalle spalle dei portatori, si alza dalla seggiola, confusa, imbalordita dai mille rallegramenti che le piovono da tutte le parti.

             – Zitti! Zitti, perdio! È svenuto! Lo fate impazzire!

             La signora Fana, seguita da gran moltitudine di gente, sale la scala – la casa è inondata – don Saverio non rinviene.

             –    Saverio! Saverio! Saverio mio! – lo chiama la moglie, abbracciandolo.

             –    Adesso muore il marito! – esclama la gente qua e là.

             Finalmente il Mago si ria. Marito e moglie s’abbracciano piangendo dalla gioja, a lungo a lungo, tra i battimani e gli evviva di tutti. Don Saverio non sa credere ancora ai suoi occhi.

             – Ma come? E vero? È vero?

             E tocca, stringe, torna ad abbracciare la moglie, piangendo.

             – E vero? E vero?

             Poi, come impazzito dalla gioja, si mette a trar salti da montone e con le mani scuote, agita, scompiglia su i cordini di ferro i burattini e le marionette, invitando gli altri a far lo stesso.

             – Così! Così! facciamoli ballare! Su! su! Ballare! Balliamo tutti, perdio!

             E mille braccia minuscole, mille gambette di legno si agitano scompostamente, con furia pazza, in pazzo tripudio, tra le risa e le grida della gente. I più ridicoli di tutti sono i piccoli Pasquini, con la faccia scontorta dalla smorfia furbesca: – «Lo dicevamo noi che la padrona faceva per burla!». – E danzano e dondolano allegramente.

             A poco a poco, intanto, i curiosi sgombrano la casa: rimangono i più intimi del vicinato: una dozzina di persone.

             – A pranzo! a pranzo! Tutti quanti a pranzo con me! – propone il Mago. E tiene una seconda festa di nozze.

             Ma, terminata la festa:

             – Badate adesso, don Saverio! – gli ricordano gli amici sottovoce, prima di partirsi. – Badate che vostra moglie non si rimetta a dormire come per l’addietro… Badate!

             Da quella notte stessa, cominciò per il Mago una vita d’inferno.

             Nulla di più naturale che, di notte, santo Dio, la moglie dormisse. Ma egli non poteva più vederla dormire. La toccava leggermente per sentire se non era fredda; si levava su un gomito per discernere al lume del lampadino da notte se la coperta sulla moglie si movesse al ritmo del respiro; e, non contento, accendeva la candela per meglio esaminarla, se non era troppo pallida… Fredda non era, e respirava, sì; ma perché così piano e a lento? perché così placida?

             –    Fana… Fana… – chiamava allora a bassa voce, per non svegliarla di soprassalto.

             –    Ah… chi è?… che vuoi?

             –    Nulla… sono io… Ti senti male?

             –    No. Perché? Dormivo…

             –    Bene., dormi, allora, dormi!

             –    Ma perché mi hai svegliata? Come faccio adesso a riaddormentarmi? Anche la signora Fana, ora, aveva paura del sonno; smaniava sul letto, con

             gli occhi sbarrati, angosciata dal terrore, come in attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancarle dentro. Ma le notti che era così smaniosa e non dormiva, il Mago era contentone e dormiva lui, invece, fino a tanto però che la moglie, trambasciata dall’insonnia e dalla paura, non lo svegliava a sua volta.

             Così, a nessuno dei due recava riposo la notte. Di giorno, poi, era un altro continuo tormento.

             Non dormendo la notte, il sonno naturalmente li coglieva spesso durante la giornata. Ma don Saverio lo scacciava per sorvegliare la moglie la quale minacciava d’addormentarsi, come prima, sulla seggiola. Per divagarla, la intratteneva in discorsi sciocchi e senza nesso, poiché la costante costernazione gl’inaridiva la fantasia.

             E pretendeva che la moglie stesse ad ascoltarlo!

             –    Figli miei, ajutatemi voi! – esclamava il Mago, rivolgendosi ai burattini. Ne toglieva due dai cordini di ferro, e ne dava uno in mano alla moglie.

             –    Tieni, tu reggi questo…

             –    Per far che? – domandava sorpresa la signora Fana.

             –    Sta’ a sentire: ti faccio sbellicare dalle risa.

             –    Oh Dio, Saverio! Ti pare che sia una ragazzina?

             – No. Ti rappresento una parte seria: della rotta di Roncisvalle… Sta’ a sentire.

             E si metteva a declamare, a casaccio, ripetendo le parole del libro, come gli sovvenivano alla memoria, e a far gestire furiosamente la sua marionetta, mentre quella sorretta dalla signora Fana a poco a poco si piegava su le gambette, s’inginocchiava, come se, impaurita dagl’irosi gesti dell’altra, volesse chiederle misericordia.

             –    Fana! Perdio!

             –    Sì, parla… parla: ti sento!

             –    Non mi senti! Cava il brando!

             –    Cavo… cavo…

             –    Non cavi un corno! Stai dormendo! – No…

             Come no? – Giù una crollatina di capo! – La signora Fana dormiva.

             Ah che disperazione per il Mago! Si sentiva stretto alla gola da una voglia rabbiosa di piangere, d’urlare. E non lavorava più: le schiere dei burattini e delle marionette s’assottigliavano di giorno in giorno, su i cordini di ferro, in ogni stanza della casa.

             –     Parona belai  – chiamavano i Florindi e i Lindori.

             –     Neh, signo’!  – chiamavano i Pulcinelli. Invano.

             Alcuni di quei cordini parevano tesi ormai per le mosche che, con l’estate, ricominciavano ad abbondare. E quella casa, tanto tranquilla un tempo, rimbombava adesso delle liti tra marito e moglie, a causa del sonno.

             Il Mago rovesciava le sue bollenti collere su la mobilia, sconquassava seggiole e tavolini, rompeva contro le pareti tazze, vasetti, boccali.

             Questo supplizio durò parecchi mesi. Finalmente la morte ebbe pietà del povero Mago,e venne a togliersi, questa volta sul serio, la piccola signora Fana.

             Un colpo apoplettico genuino, di pieno giorno, e mentr’ella non dormiva.

             Quasi quasi, in principio, don Saverio non voleva prestarci fede. Ma, accertata da un medico la morte, si mise a piangere e a strillare come la prima volta. E volle vestir lui, con le sue mani, la morta; lui rimetterla sul cataletto e lui annodarle ancora una volta i polsi, mentre i singhiozzi gli rompevano il petto.

             Però ai portantini, che già sollevavano il cataletto, non seppe tenersi dal dire, tra le lagrime:

             – Ve la raccomando, poveretta! Fate piano. Passando davanti all’albero di fico, state bene attenti. Tenetevi al largo, quanto più potete, per carità!

La paura del sonno – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La paura del sonno – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La paura del sonno – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
La paura del sonno – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

««« Indice Audio letture

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

Shakespeare Italia

image_pdfvedi in PDF
Skip to content