1919 – La patente – Commedia in un atto

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Si tratta di una scrittura che racchiude in sé tutti gli elementi più tipici dell’universo pirandelliano. In essa troviamo il tema della maschera forzatamente imposta, l’impossibilità di porsi agli altri per ciò che si è, il rifiuto da parte degli altri e la condanna ad un’emarginazione che sempre più assume i contorni della morte civile.

FONTE  Novella «La patente» (1911)
STESURA dicembre 1917? – In italiano dicembre 1917 – gennaio 1918
PRIMA RAPPRESENTAZIONE Torino 23 marzo 1918 al Teatro Alfieri – in siciliano – con la compagnia di Angelo Musco.

Approfondimenti nel sito:
Sezione Tematiche – Domenico Papaccio – Per una ri-lettura de «La patente»: Jettatura, jettatore e logica dei contrari
Sezione Tematiche – Maria Vittoria Giardinelli – Analisi de «La patente»: rabbia e indignazione come valvole d’azione
Sezione Tematiche – Biagio Lauritano – La patente: la narrazione del paradosso
Sezione Tematiche – Riccardo Mainetti – «La patente», analisi della novella di Luigi Pirandello
Sezione Novelle – La patente
Sezione Video – La patente – 1954. Con Mario Scaccia.
Link esterni
Teatro e scuola – Considerazioni
Antoniodecurtis.org – La patente al cinema

‘N Sicilianu – ‘A patenti
Em Portugues – A patente

««« Elenco delle opere in versione integrale
««« Introduzione al Teatro di Pirandello.

La patente - Commedia
Totò, film “Questa è la vita”, episodio La patente, 1954. immagine dal Web.

.    Premessa

             È un atto unico derivato dall’omonima novella del 1911. Se ne fa risalire la stesura al 1917 in siciliano, nell’edizione scritta dall’autore per Angelo Musco; la versione in italiano dello stesso Pirandello è stata stesa tra il dicembre 1917 e il gennaio 1918. Fu pubblicata nella Rivista d’Italia del 31 gennaio 1918 e, in volume, dai fratelli Treves, Milano 1920. Angelo Musco la rappresentò al Teatro Alfieri di Torino, in siciliano, il 23 marzo 1918; l’anno seguente, il 19 febbraio 1919, la rappresentò a Roma al Teatro Argentina. Il regista Luigi Zampa nel 1953 ha ripreso l’argomento in un film a episodi, interprete Totò.

             È uno dei più originali e grotteschi atti di ribellione di un personaggio pirandelliano contro le ingiustizie della società. Pirandello mette in evidenza la tragica situazione in cui viene a trovarsi un poveretto bollato dalla società col marchio di menagramo, portasfortuna, jettatore: è odiato e sfuggito da tutti, chi lo incontra fa i debiti scongiuri, non ha amici, lui e la sua famiglia vivono nell’isolamento, le due belle figliuole da marito intristiscono in casa perché nessuno le vuole; egli perde addirittura il posto di lavoro ed è ridotto alla fame.

             Questa è la situazione del protagonista Rosario Chiàrchiaro. Il suo cognome ha in sé qualcosa di sinistro; secondo Sciascia è ripreso dall’omonima collina rocciosa, ricca d’anfratti, rifugio di animali notturni; una specie d’inferno nella credenza popolare. Ma Chiàrchiaro non subisce, non si piega: invece di negare l’infame calunnia, fa ogni sforzo per convalidarla. Il giudice D’Andrea che, in una causa da lui intentata contro chi ha fatto scongiuri al suo passaggio, crede di favorirlo sostenendo che la iella non esiste; si trova di fronte a una sorprendente reazione: secondo Chiàrchiaro non solo la jella esiste, ma lui è uno jettatore autentico, e vuol essere riconosciuto pubblicamente tale in quella causa, perché vuole una «patente» che gli consenta di esercitare la professione di jettatore. Spaventerà il prossimo con la minaccia di esercitare i suoi oscuri poteri e otterrà compensi per non eseguirla. Lo stesso giudice D’Andrea, l’unico incredulo, assisterà esterrefatto alla morte del cardellino, unico ricordo della madre, per un colpo di vento che fa cadere la gabbia, mentre gli altri giudici presenti, per rimanere indenni dalla jella, danno il loro obolo a Chiàrchiaro che attribuisce sghignazzando ai suoi po­teri la morte del cardellino.

             Il divertito umorismo di Pirandello sulla paura della jella e sulla reazione, a suo modo eroica, tragica e comica a un tempo, del singolare protagonista, crea un grottesco di alta qualità. L’obolo dei giudici spaventati ne rappre­senta il culmine: Rosario Chiàrchiaro inizia trionfalmente la sua professione di jettatore patentato proprio in quel tribunale che avrebbe dovuto pronun­ciarsi contro il malcostume di chi l’ha bollato con quel marchio infamante.

La patente
Commedia in un atto – 1919

Personaggi
Rosario Chiàrchiaro
Rosinella, sua figlia
Il giudice istruttore D’Andrea
Tre altri Giudici
Marranca, usciere

             Stanza del giudice istruttore D’Andrea. Grande scaffale che prende quasi tutta la parete di fondo, pieno di scatole verdi a casellario, che si suppongono zeppe d’incartamenti. Scrivania, sovraccarica di fascicoli, a destra, in fondo; e, accanto, addossato alla parete di destra, un altro palchetto. Un seggiolone di cuojo per il Giudice, davanti la scrivania. Altre seggiole antiche. Lo stan­zone è squallido. La comune è nella parete di destra. A sinistra, un’ampia fi­nestra, alta, con vetrata antica, scompartita. Davanti alla finestra, come un quadricello alto, che regge una grande gabbia. Lateralmente a sinistra, un usciolino nascosto.

             Il giudice D’Andrea entra per la comune col cappello in capo e il soprabito. Reca in mano una gabbiola poco più grossa d’un pugno. Va davanti alla gab­bia grande sul quadricello, ne apre lo sportello, poi apre lo sportellino della gabbiola e fa passare da questa nella gabbia grande un cardellino.

             D’ANDREA: Via, dentro! – E su, pigrone! – Oh! finalmente… – Zitto adesso, al solito, e lasciami amministrare la giustizia a questi poveri piccoli uomini fe­roci. (Si leva il soprabito e lo appende insieme col cappello all’attaccapanni.

             Siede alla scrivania; prende il fascicolo del processo che deve istruire, lo scuote in aria con impazienza, sbuffa:) Benedett’uomo!

             Resta un po’ assorto a pensare, poi suona il campanello e dalla comune si presenta l’usciere Marranca.

             MARRANCA: Comandi, signor cavaliere!

             D’ANDREA: Ecco, Marranca: andate al vicolo del Forno, qua vicino; a casa del Chiàrchiaro.

             MARRANCA (con un balzo indietro, facendo le corna): Per amor di Dio, non lo nomini, signor cavaliere!

             D’ANDREA (irritatissimo, dando un pugno sulla scrivania): Basta, perdio! Vi proibisco di manifestare così, davanti a me, la vostra bestialità, a danno d’un pover’uomo. E sia detto una volta per sempre.

             MARRANCA: Mi scusi, signor cavaliere. L’ho detto anche per il suo bene!

             D’ANDREA: Ah, seguitate?

             MARRANCA: Non parlo più. Che vuole che vada a fare in casa di… di questo… di questo galantuomo?

             D’ANDREA: Gli direte che il giudice istruttore ha da parlargli, e lo introdurrete subito da me.

             MARRANCA: Subito, va bene, signor cavaliere. Ha altri comandi?

             D’ANDREA: Nient’altro. Andate.

             Marranca esce, tenendo la porta per dar passo ai tre Giudici colleghi, che entrano con le toghe e i tocchi in capo e scambiano i saluti col D’Andrea; poi vanno tutti e tre a guardare il cardellino nella gabbia.

             PRIMO GIUDICE: Che dice eh, questo signor cardellino?

             SECONDO GIUDICE: Ma sai che sei davvero curioso con codesto cardellino che ti porti appresso?

             TERZO GIUDICE: Tutto il paese ti chiama: il Giudice Cardello.

             PRIMO GIUDICE: Dov’è, dov’è la gabbiolina con cui te lo porti?

             SECONDO GIUDICE (prendendola dalla scrivania a cui s’è accostato): Eccola qua! Signori miei, guardate: cose da bambini! Un uomo serio…

             D’ANDREA: Ah, io, cose da bambini, per codesta gabbiola? E voi, allora, parati così?

             TERZO GIUDICE: Ohe, ohe, rispettiamo la toga!

             D’ANDREA: Ma andate là, non scherziamo! siamo in camera caritatis. Ragazzo, giocavo coi miei compagni «al tribunale». Uno faceva da imputato; uno, da presidente; poi, altri da giudici, da avvocati… Ci avrete giocato anche voi. Vi assicuro, che eravamo più serii allora!

             PRIMO GIUDICE: Eh, altro!

             SECONDO GIUDICE: Finiva sempre a legnate!

             TERZO GIUDICE (mostrando una vecchia cicatrice alla fronte): Ecco qua: cica­trice d’una pietrata che mi tirò un avvocato difensore mentre fungevo da regio procuratore!

             D’ANDREA: Tutto il bello era nella toga con cui ci paravamo. Nella toga era la grandezza, e dentro di essa noi eravamo bambini. Ora è al contrario: noi, grandi, e la toga, il giuoco di quand’eravamo bambini. Ci vuole un gran co­raggio a prenderla sul serio! Ecco qua, signori miei, (prende dalla scrivania il fascicolo del processo Chiàrchiaro) io debbo istruire questo processo. Niente di più iniquo di questo processo. Iniquo, perché include la più spietata ingiustizia contro alla quale un poveri uomo tenta disperatamente di ribellarsi, senza nessuna probabilità di scampo. C’è una vittima qua, che non può pren­dersela con nessuno! Ha voluto, in questo processo, prendersela con due, coi primi due che gli sono capitati sotto mano, e – sissignori – la giustizia deve dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, l’ini­quità di cui questo pover’uomo è vittima.

             PRIMO GIUDICE: Ma che processo è?

             D’ANDREA: Quello intentato da Rosario Chiàrchiaro. Subito, al nome i tre Giudici, come già Marranca, danno un balzo indietro, facendo scongiuri, atti di spavento, e gridando:

             TUTTI E TRE: Per la Madonna Santissima! – Tocca ferro! – Ti vuoi star zitto?

             D’ANDREA: Ecco, vedete? E dovreste proprio voi rendere giustizia a questo po­ver’uomo!

             PRIMO GIUDICE: Ma che giustizia! È un pazzo!

             D’ANDREA: Un disgraziato!

             SECONDO GIUDICE: Sarà magari un disgraziato! ma scusa, è pure un pazzo! Ha sporto querela per diffamazione, contro il figlio del sindaco, nientemeno, e anche –

             D’ANDREA: – contro l’assessore Fazio –

             TERZO GIUDICE: – per diffamazione?

             PRIMO GIUDICE: – già, capisci? perché, dice, li sorprese nell’atto che facevano gli scongiuri al suo passaggio.

             SECONDO GIUDICE: Ma che diffamazione se in tutto il paese, da almeno due anni, è diffusissima la sua fama di jettatore?

             D’ANDREA: E innumerevoli testimonii possono venire in tribunale a giurare che in tante e tante occasioni ha dato segno di conoscere questa sua fama, ribel­landosi con proteste violente!

             PRIMO GIUDICE: Ah, vedi? Lo dici tu stesso!

             SECONDO GIUDICE: Come condannare, in coscienza, il figliuolo del sindaco e l’assessore Fazio quali diffamatori per aver fatto, vedendolo passare, il gesto che da tempo sogliono fare apertamente tutti?

             D’ANDREA: E primi fra tutti vojaltri?

             TUTTI E TRE: Ma certo! – È terribile, sai? – Dio ne liberi e scampi!

             D’ANDREA: E poi vi fate meraviglia, amici miei, che io mi porti qua il cardel­lino… Eppure, me lo porto – voi lo sapete – perché sono rimasto solo da un anno. Era di mia madre quel cardellino; e per me è il ricordo vivo di lei: non me ne so staccare. Gli parlo, imitando, così, col fischio, il suo verso, e lui mi risponde. Io non so che gli dico; ma lui, se mi risponde, è segno che coglie qualche senso nei suoni che gli faccio. Tale e quale come noi, amici miei, quando crediamo che la natura ci parli con la poesia dei suoi fiori, o con le stelle del cielo, mentre la natura forse non sa neppure che noi esistiamo.

             PRIMO GIUDICE: Seguita, seguita, mio caro, con codesta filosofia, e vedrai come finirai contento! Si sente picchiare alla comune, e, poco dopo, Marranca sporge il capo.

             MARRANCA: Permesso?

             D’ANDREA: Avanti, Marranca.

             MARRANCA: Lui in casa non c’era, signor cavaliere. Ho lasciato detto a una delle figliuole che, appena arriva, lo mandino qua. È venuta intanto con me la minore delle figliuole: Rosinella. Se Vossignoria vuol riceverla…

             D’ANDREA: Ma no: io voglio parlare con lui!

             MARRANCA: Dice che vuol rivolgerle non so che preghiera, signor cavaliere. È tutta impaurita.

             PRIMO GIUDICE: Noi ce n’andiamo. A rivederci, D’Andrea! Scambio di saluti: e i tre Giudici vanno via.

             D’ANDREA: Fate passare.

             MARRANCA: Subito, signor cavaliere. (Via, anche lui.)

             Rosinella, sui sedici anni, poveramente vestita, ma con una certa decenza, sporge il capo dalla comune, mostrando appena il volto dallo scialle nero di lana.

             ROSINELLA: Permesso?

             D’ANDREA: Avanti, avanti.

             ROSINELLA: Serva di Vossignoria. Ah, Gesù mio, signor giudice, Vossignoria ha fatto chiamare mio padre? Che cosa è stato, signor giudice? Perché? Non abbiamo più sangue nelle vene, dallo spavento!

             D’ANDREA: Calmatevi! Di che vi spaventate?

             ROSINELLA: E che noi, Eccellenza, non abbiamo avuto mai da fare con la giu­stizia!

             D’ANDREA: Vi fa tanto terrore, la giustizia?

             ROSINELLA: Sissignore. Le dico, non abbiamo più sangue nelle vene! La mala gente, Eccellenza, ha da fare con la giustizia. Noi siamo quattro poveri di­sgraziati. E se anche la giustizia ora si mette contro di noi…

             D’ANDREA: Ma no. Chi ve l’ha detto? State tranquilla. La giustizia non si mette contro di voi.

             ROSINELLA: E perché allora Vossignoria ha fatto chiamare mio padre?

             D’ANDREA: Perché vostro padre vuol mettersi lui contro la giustizia.

             ROSINELLA: Mio padre? Che dice!

             D’ANDREA: Non vi spaventate. Vedete che sorrido… Ma come? Non sapete che vostro padre s’è querelato contro il figlio del sindaco e l’assessore Fazio?

             ROSINELLA: Mio padre? Nossignore! Non ne sappiamo nulla! Mio padre s’è querelato?

             D’ANDREA: Ecco qua gli atti!

             ROSINELLA: Dio mio! Dio mio! Non gli dia retta, signor giudice! È come im­pazzito mio padre: da più d’un mese! Non lavora più da un anno, capisce? perché l’hanno cacciato via, l’hanno gettato in mezzo a una strada; fustigato da tutti, sfuggito da tutto il paese come un appestato! Ah, s’è querelato? Con­tro il figlio del sindaco s’è querelato? È pazzo! È pazzo! Questa guerra in­fame che gli fanno tutti, con questa fama che gli hanno fatto, l’ha levato di cervello! Per carità, signor giudice: gliela faccia ritirare codesta querela! gliela faccia ritirare!

             D’ANDREA: Ma sì, carina! Voglio proprio questo. E l’ho fatto chiamare per questo. Spero che ci riuscirò. Ma voi sapete: è molto più facile fare il male che il bene.

             ROSINELLA: Come, Eccellenza! Per Vossignoria?

             D’ANDREA: Anche per me. Perché il male, carina, si può fare a tutti e da tutti; il bene, solo a coloro che ne hanno bisogno.

             ROSINELLA: E lei crede che mio padre non ne abbia bisogno?

             D’ANDREA: Lo credo, lo credo. Ma è che questo bisogno d’aver fatto il bene, figliuola, rende spesso così nemici gli animi di coloro che si vorrebbero bene­ficare, che il beneficio diventa difficilissimo. Capite?

             ROSINELLA: Nossignore, non capisco. Ma faccia di tutto Vossignoria! Per nojaltri non c’è più bene, non c’è più pace, in questo paese.

             D’ANDREA: E non potreste andar via da questo paese?

             ROSINELLA: Dove? Ah, Vossignoria non lo sa com’è! Ce la portiamo appresso, la fama, dovunque andiamo. Non si leva più, neppure col coltello. Ah se ve­desse mio padre, come s’è ridotto! S’è fatto crescere la barba, una barbaccia, che pare un gufo… e s’è tagliato e cucito da sé un certo abito, Eccellenza, che quando se lo metterà, farà spaventare la gente, fuggire i cani finanche!

             D’ANDREA: E perché?

             ROSINELLA: Se lo sa lui perché! È come impazzito, le dico! Gliela faccia, gliela faccia ritirare la querela, per carità! Si sente di nuovo picchiare alla comune.

             D’ANDREA: Chi è? Avanti.

             MARRANCA (tutto tremante): Eccolo, signor cavaliere! Che… che debbo fare?

             ROSINELLA: Mio padre? (Balza in piedi.) Dio! Dio! Non mi faccia trovare qua, Eccellenza, per carità!

             D’ANDREA: Perché? Che cos’è? Vi mangia, se vi trova qua?

             ROSINELLA: Nossignore. Ma non vuole che usciamo di casa. Dove mi na­scondo?

             D’ANDREA: Ecco. Non temete. (Apre l’usciolino nascosto nella parete di de­stra.) Andate via di qua; poi girate per il corridojo e troverete l’uscita.

             ROSINELLA: Sissignore, grazie. Mi raccomando a Vossignoria! Serva sua. (Via ranca ranca per l’usciolino a destra. D’Andrea lo richiude.)

             D’ANDREA: Introducetelo.

             MARRANCA (tenendo aperto quanto più può la comune per tenersi discosto): Avanti, avanti… introducetevi…

             E come Chiàrchiaro entra, va via di furia. Rosario Chiàrchiaro s’è combi­nata una faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S’è lasciato cre­scere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’è insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto d’un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano col manico di corno. Entra a passo di marcia funebre, battendo a terra la canna a ogni passo, e si para davanti al giudice.

             D’ANDREA (con uno scatto violento d’irritazione, buttando via le carte del pro­cesso): Ma fatemi il piacere! Che storie son queste! Vergognatevi!

             CHIÀRCHIARO (senza scomporsi minimamente allo scatto del giudice, digrigna i denti gialli e dice sottovoce): Lei dunque non ci crede?

             D’ANDREA: V’ho detto di farmi il piacere! Non facciamo scherzi, via, caro Chiàrchiaro! – Sedete, sedete qua! (Gli s’accosta e fa per posargli una mano sulla spalla.)

             CHIÀRCHIARO (subito, tirandosi indietro e fremendo): Non mi s’accosti! Se ne guardi bene! Vuol perdere la vista degli occhi?

             D’ANDREA (lo guarda freddamente, poi dice): Seguitate… Quando sarete co­modo… – Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia: se­dete.

             CHIÀRCHIARO (prende la seggiola, siede, guarda il giudice, poi si mette a far rotolare con le mani su le gambe la canna d’India come un matterello e ten­tenna a lungo il capo. Alla fine mastica): Per il mio bene… Per il mio bene, lei dice… Ha il coraggio di dire per il mio bene! E lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo che non crede alla jettatura?

             D’ANDREA (sedendo anche lui): Volete che vi dica che ci credo? Vi dirò che ci credo! Va bene?

             CHIÀRCHIARO (recisamente, col tono di chi non ammette scherzi): Nossignore! Lei ci ha da credere sul serio, sul se-ri-o! Non solo, ma deve dimostrarlo istruendo il processo.

             D’ANDREA: Ah, vedete: questo sarà un po’ difficile.

             CHIÀRCHIARO (alzandosi e facendo per avviarsi): E allora me ne vado.

             D’ANDREA: Eh, via! Sedete! V’ho detto di non fare storie!

             CHIÀRCHIARO: Io, storie? Non mi cimenti; o ne farà una tale esperienza… – Si tocchi, si tocchi!

             D’ANDREA: Ma io non mi tocco niente.

             CHIÀRCHIARO: Si tocchi, le dico! Sono terribile, sa?

             D’ANDREA (severo): Basta, Chiàrchiaro! Non mi seccate. Sedete e vediamo d’intenderci. Vi ho fatto chiamare per dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto.

             CHIÀRCHIARO: Signor giudice, io sono con le spalle al muro dentro un vicolo cieco. Di che porto, di che via mi parla?

             D’ANDREA: Di questa per cui vi vedo incamminato e di quella là della querela che avete sporto. Già l’una e l’altra, scusate, sono tra loro così. (Infronta gl’indici delle due mani per significare che le due vie gli sembrano in con­trasto. )

             CHIÀRCHIARO: Nossignore. Pare a lei, signor giudice.

             D’ANDREA: Come no? Là nel processo, accusate come diffamatori due, perché vi credono jettatore; e ora qua vi presentate a me, parato così, in vesti di jettatore, e pretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura.

             CHIÀRCHIARO: Sissignore. Perfettamente.

             D’ANDREA: E non pare anche a voi che ci sia contraddizione?

             CHIÀRCHIARO: Mi pare, signor giudice, un’altra cosa. Che lei non capisce niente!

             D’ANDREA: Dite, dite, caro Chiàrchiaro! Forse è una sacrosanta verità, questa che mi dite. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.

             CHIÀRCHIARO: La servo subito. Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche toccare con mano che lei è un mio nemico.

             D’ANDREA: Io?

             CHIÀRCHIARO: Lei, lei, sissignore. Mi dica un po’: sa o non sa che il figlio del sindaco ha chiesto il patrocinio dell’avvocato Lorecchio?

             D’ANDREA: Lo SO.

             CHIÀRCHIARO: E lo sa che io – io, Rosario Chiàrchiaro – io stesso sono andato dall’avvocato Lorecchio a dargli sottomano tutte le prove del fatto: cioè, che non solo io mi ero accorto da più di un anno che tutti, vedendomi passare, fa­cevano le corna e altri scongiuri più o meno puliti; ma anche le prove, signor giudice, prove documentate, testimonianze irrepetibili, sa? ir-re-pe-ti-bi-li di tutti i fatti spaventosi, su cui è edificata incrollabilmente, in-crolla-bilmente, la mia fama di jettatore?

             D’ANDREA: Voi? Come? Voi siete andato a dar le prove all’avvocato avversa­rio?

             CHIÀRCHIARO: A Lorecchio. Sissignore.

             D’ANDREA (più imbalordito che mai): Eh… Vi confesso che capisco anche meno di prima.

             CHIÀRCHIARO: Meno? Lei non capisce niente!

             D’ANDREA: Scusate… Siete andato a portare codeste prove contro di voi stesso all’avvocato avversario; perché? Per rendere più sicura l’assoluzione di quei due? E perché allora vi siete querelato?

             CHIÀRCHIARO: Ma in questa domanda appunto è la prova, signor giudice, che lei non capisce niente! Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficiale della mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signor giudice!

             D’ANDREA (facendo per abbracciarlo, commosso): Ah, povero Chiàrchiaro, po­vero Chiàrchiaro mio, ora capisco! Bel capitale, povero Chiàrchiaro! E che te ne fai?

             CHIÀRCHIARO: Che me ne faccio? Come, che me ne faccio? Lei, caro signore, per esercitare codesta professione di giudice – anche così male come la eser­cita – mi dica un po’, non ha dovuto prendere la laurea?

             D’ANDREA: Eh sì, la laurea…

             CHIÀRCHIARO: E dunque! Voglio anch’io la mia patente. La patente di jettatore. Con tanto di bollo. Bollo legale. Jettatore patentato dal regio tribunale.

             D’ANDREA: E poi? Che te ne farai?

             CHIÀRCHIARO: Che me ne farò? Ma dunque è proprio deficiente lei? Me lo met­terò come titolo nei biglietti da visita! Ah, le par poco? La patente! Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. M’hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada, perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglie paralitica, da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei le vede, signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno: belline tutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie mie, capisce? E lo sa di che campiamo adesso tutt’e quattro? Del pane che si leva di bocca il mio figliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fare ancora a lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per me? Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore!

             D’ANDREA: Ma che ci guadagnerete?

             CHIÀRCHIARO: Che ci guadagnerò? Ora glielo spiego. Intanto, mi vede: mi sono combinato con questo vestito. Faccio spavento! Questa barba… questi oc­chiali… Appena lei mi fa ottenere la patente, entro in campo! Lei dice, come? Me lo domanda – ripeto – perché è mio nemico!

             D’ANDREA: Io? Ma vi pare?

             CHIÀRCHIARO: Sissignore, lei! Perché s’ostina a non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono! Questa è la mia for­tuna! Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi pre­senti. Non ci sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano, per non avermi accanto e per farmene andar via! Mi metterò a ronzare come un moscone attorno a tutte le fabbriche; andrò a im­postarmi ora davanti a una bottega, ora davanti a un’altra. La c’è un giojelliere? – Davanti alla vetrina di quel giojelliere: mi pianto lì, (eseguisce) mi metto a squadrare la gente così, (eseguisce) e chi vuole che entri più a com­prare in quella bottega una gioja, o a guardare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!

             D’ANDREA: La tassa dell’ignoranza!

             CHIÀRCHIARO: Dell’ignoranza? Ma no, caro lei! La tassa della salute! Perché ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo, signor giudice, d’avere qua, in questi occhi, la potenza di far crollare dalle fondamenta un’intera città! – Si tocchi! Si tocchi, perdio! Non vede? Lei è rimasto come una statua di sale! (D’Andrea, compreso di profonda pietà, è rimasto veramente come balordo a mirarlo.) Si alzi, via! E

             si metta a istruire questo processo che farà epoca, in modo che i due imputati siano assolti per inesistenza di reato; questo vorrà dire per me il riconosci­mento ufficiale della mia professione di jettatore!

             D’ANDREA (alzandosi): La patente?

             CHIÀRCHIARO (impostandosi grottescamente e battendo la canna): La patente, sissignore!

             Non ha finito di dire cosi, che la vetrata della finestra si apre pian piano, come mossa dal vento, urta contro il quadricello e la gabbia, e li fa cadere con fracasso.

             D’ANDREA (con un grido, accorrendo): Ah, Dio! Il cardellino! Il cardellino! Ah, Dio! È morto… è morto… L’unico ricordo di mia madre… Morto… morto…

             Alle grida, si spalanca la comune e accorrono i tre Giudici e Marranca, che subito si trattengono allibiti alla vista di Chiàrchiaro.

             TUTTI: Che è stato? Che è stato?

             D’ANDREA: Il vento… la vetrata… il cardellino…

             CHIÀRCHIARO (con un grido di trionfo): Ma che vento! Che vetrata! Sono stato io! Non voleva crederci e glien’ho dato la prova! Io! lo! E come è morto quel cardellino, (subito, gli atti di terrore degli astanti, che si scostano da lui:) così, a uno a uno, morirete tutti!

             TUTTI (protestando, imprecando, supplicando in coro): Per l’anima vostra! Ti caschi la lingua! Dio, ajutaci! Sono un padre di famiglia!

             CHIÀRCHIARO (imperioso, protendendo una mano): E allora qua, subito – pagate la tassa! – Tutti! i

             TRE GIUDICI (facendo atto di cavar danari dalla tasca): Sì, subito. Ecco qua! Purché ve n’andiate! Per carità di Dio!

             CHIÀRCHIARO (esultante,  rivolgendosi al giudice D’Andrea,  sempre con la mano protesa): Ha visto? E non ho ancora la patente! Istruisca il processo! Sono ricco! Sono ricco!

Tela

‘N Sicilianu – ‘A patenti
Em Portugues – A patente

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