La nuova colonia – Personaggi, Prologo

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Premessa
Personaggi, Prologo
Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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La nuova colonia – Prologo
Associazione Culturale SpazioTeatro, La nuova Colonia, 2008

Personaggi

La Spera
Mita
La Dia
Marella
Sidora
Nela
Currao
Crocco
Tobba
Padron Nocio
Dorò
Papìa
Fillicò
Burrania Quanterba
Trentuno
Ciminudù
Osso-di-Seppia
Il Riccio
Nuccio d’Alagna
Bacchi-Bacchi
Filaccione
Pallotta
Giovane contadino
Marinaj
Pescatori
Uomini della ciurma
Guardie di dogana
Due donne

(a Marta Abba)

1928
La nuova colonia

Prologo

        La taverna di Nuccio d’Alagna nella calata del porto d’una città marinara del Mezzogiorno.

        La parete di fondo è divisa in due partì che formano in mezzo un breve an­golo. Nella parte sinistra, che rientra in quest’angolo, è inserita un’alta e stinta scaffalatura con polverose bottiglie di liquori, d’ogni colore, allineate sui palchetti. Davanti alla scaffalatura, un banco di méscita, di quelli all’an­tica, con la buchetta in mezzo per le monete. In questo banco, da un lato, Vacquajo, con attorno bottiglie, bicchieri, bicchierini; dall’altro lato, un fornelletto a spirito, con una vecchia cuccuma da caffè, di rame e il manico d’osso: e, attorno, rozze tazze di terraglia, scheggiate. L’altra parte della pa­rete di fondo, più sporgente, è quasi tutta presa da una sudicia vetrata scom­partita da bacchette di ferro, la quale comincia a poco più d’un metro dal suolo e va su fin quasi al soffitto. Da questa vetrata si scorge appena la ca­lata del porto, al lume d’un fanale acceso lì davanti.

        Nella parete di destra è la comune, con la soglia illuminata dal lampioncino che, appeso sotto l’insegna esteriormente, non sì vede.

        Nella parete di sinistra, un usciolino all’angolo immette dal banco di méscita in cucina. Più avanti, nella sala, è un altro usciolo chiuso da cui si scende nel riposto.

        Tavole e tavolini con panche e sedie davanti e intorno, lungo le pareti e nel mezzo.

        La taverna è illuminata scarsamente da lampade che pendono dal soffitto: filo e padella. Ed è sporca e lugubre. Fuori il mare è agitato da un vento furioso.

        Al levarsi della tela, il vecchio tavernaio Nuccio d’Alagna, storto e magro, con la barba a collana, s’aggira con uno strofinaccio tra i tavolini, pulisce e rassetta le seggiole. Porta in capo un rìgido berretto di panno turchino, con larga visiera di cuoio; e, sulle spalle, un vecchio scialle grigio peloso, con un resto di pèneri pendenti lungo gli orli. Seduto al primo dei tavolini presso la parete di sinistra, sul davanti, il vecchio pescatore Tobba, sui sessant’anni, ha finito di cenare e ora fuma a pipa, sonnolento. Ha in capo una lunga e piatta berretta marinaresca, a forma di lingua, di color rosso, ma sporca e ingiallita, volta all’indietro e pendente sulla nuca; gli occhi bolsi e acquosi; la barba corta ma folta e schiumosa; appesa alle spalle, la decrepita giacca senza più colore, tutta toppe vecchie e toppe nuove, vivaci; invece del panciotto, una fascia rossa stinta rigirata attorno alla vita; i calzoni bianchi di tela, un po’ rimboccati sulle gambe cotte dal sole; e i piedi scalzi. Poco dopo, entra dalla comune senza scostarsene Padron Nodo, con sdegnosa superbia. E un vecchio stangone dalle spalle alte, ferrigno e adunco, accigliato, con occhi adi­rati. Veste da ricco padrone di paranze un abito di velluto turchino, dalla giacca a vita e i calzoni a campana; una fascia di seta celeste (non lucida), invece del panciotto, gli cinge la vita; porta in capo un grosso berretto di pelo, a barca; è senza baffi, con le basette allungate fino agli angoli della bocca.

        PADRON NOCIO (chiamando dalla soglia): Oh – (un fischio, breve) – cannuccia di pipa!

        NUCCIO (voltandosi al fischio e riparandosi con una mano gli occhi dalla luce): Chi è? – Ah, voi, padron Nocio? (Accorre premuroso.)

        PADRON NOCIO (prima che Nuccio s’accosti): Sta in là, che puzzi. (Ma poi, ac­costandosi lui, guardandolo un po’ e sbattendogli un dito sulla punta del naso, leggermente, di qua e di là:) Bel naso di civetta!

        NUCCIO (tirando indietro il capo e riparandosi il naso con una mano): Lascia­temelo stare, che mi serve.

        PADRON NOCIO: Se vuoi che séguiti a servirti – (consiglio sano vai più della mano) – bada che mio figlio Dorò non si sporchi più le scarpe entrando in questa tua tana –

        NUCCIO (tentando d’interromperlo, per scusarsi): – ma io –

        PADRON NOCIO (seguitando, ma rivolto a Tobba): – di ladri e vagabondi!

        TOBBA (senza scomporsi): Dite a me, padron Nocio?

        PADRON NOCIO: Dico a chi m’intende.

        TOBBA: E allora non a me.

        NUCCIO (tentando di riprendere): E come potrei io – ?

        PADRON NOCIO (scartandolo col braccio): – levati! – (A Tobba;) No: proprio a te, anzi, se vuoi saperlo!

        TOBBA: Oh bella! E che v’ho rubato io?

        PADRON NOCIO: Tu non devi guastare la testa a mio figlio –

        TOBBA: – io? –

        PADRON NOCIO: – tu, sì, parlandogli della tua isola, che Dio la sprofondi per sempre!

        TOBBA (come se s’aspettasse altro): Ah, l’isola. – (Sorride.) – Il paradiso degli uomini cattivi.

        PADRON NOCIO (a Nuccio): Ne parla, come se non ci fosse stato vent’anni a do­micilio coatto!

        TOBBA: Ladro e vagabondo. Già. Ma per ladro – (si toglie la giacca dalle spalle e la mostra) – guardate: più toppe qua, che piaghe sulle carni di Cristo –

        PADRON NOCIO: – va’ là, che le toppe, voi poveri, le portate –

        TOBBA (levandosi): – allegre, sì, come fossero bandiere! – E per vagabondo, mi dispiace, ma ho da ricordarmi ancora d’un giorno, uno solo, mandato da Dio sulla terra, ch’io non abbia lavorato.

        PADRON NOCIO: Bel lavoro, il contrabbando!

        TOBBA: Non ne ho mai profittato per me.

        PADRON NOCIO: Ma hai dato agli altri il mezzo di far male.

        TOBBA (tornando a sedere): Male, bene: potete impacciarvene vojaltri, di co­deste cose.

        PADRON NOCIO: Tu, no? Ma se sei tu, anzi, più in colpa di tutti! Tu. Perché ru­bare vorrebbe ognuno, – (voltandosi a Nuccio) – eh, cannuccia di pipa? – con le mani degli altri.

        NUCCIO: Verità sacrosanta (se non la dite per me).

        TOBBA: Lui, infatti, con le sue, non ha mai rubato. Positivo. – Per me, padron Nocio, lavoro comandato. Questo o un altro. Non ho mai voluto saper altro. – Caricare, scaricare. – Pagato un po’ di più per il rischio.

        PADRON NOCIO: Ah, lo senti il rischio? Dunque sai ch’è male quello che fai?

        TOBBA (correggendo, triste): Che facevo, se mai. Ora sono vecchio e non me lo lasciano più fare. – Male per me, padron Nocio, se mi prendevano. E mi presero, difatti. Sei volte. Alla sesta, mi mandarono all’isola. Seguitai a lavo­rare anche lì. Ma lì almeno, tutti bollati. Non come qua, metà sì e metà no; e schifati da quelli che non hanno il bollo.

        PADRON NOCIO: E tu tornatene all’isola, allora, se per te è meglio là.

        TOBBA: Magari potessi! Non si può, lo sapete. Sgomberata dopo l’ultimo ter­remoto, per ordine superiore.

        PADRON NOCIO: Già. Dicono – (anche di recente i miei uomini me l’hanno detto) – che s’abbassa sempre più.

        TOBBA: La sentenza è data: scomparirà dalle acque, un giorno o l’altro. Quando ci portarono via, noi pochi scampati – (sarà stata immaginazione) – guardando mentre ci allontanavamo, il monte, ch’era alto, ci sembrò come schiacciato. Lo vedo ancora, com’era, nel cielo. Pareva che respirasse. Le coste, tutte felpate. E nelle radure, il duro ignudo della roccia, a toccarlo, scottava ancora di sole, quando ci andavo dopo il lavoro, già quasi a bujo. E quelle casette su in cima, appena s’allargava la notte, erano le prime a lavarsi d’alba le facciate; come noi, con l’acqua, la nostra maschera. E altro che que­sto puzzo ardente qua d’acquaccia nera nella nostra cala! Intorno, tutt’un tremolìo d’acque così turchine che il cielo pareva bianco.

        PADRON NOCIO (a Nuccio): Così me l’incanta, capisci?

        TOBBA: Io non l’ho mai cercato, vostro figlio. Viene lui a cercarmi.

        PADRON NOCIO: E tu, quando viene, caccialo via, per ordine mio.

        TOBBA: Mi vuole bene perché voi non me ne volete.

        PADRON NOCIO: Io non ti voglio né bene né male. Voglio che mio figlio non pratichi con te.

        TOBBA: I santi – ricordatevi, padron Nocio – si fanno di legno cattivo.

        PADRON NOCIO: Io t’ho avvisato. (Faper andare.)

        NUCCIO: Non volete bere? Ho un vino che, solo ad annusarlo, stordisce.

        PADRON NOCIO: Grazie, caro. Non ne bevo del tuo vino. Ho mia figlia qua da­vanti la porta. – (A Tobba:) Hai avuto il coraggio di farmi dire da Dorò di comperarmi quella tua carcassa che fa acqua da tutte le parti e prenderti con me sulle paranze.

        TOBBA: Fareste un’opera di carità.

        PADRON NOCIO: E che vorresti che ne facessi di quel colabrodo?

        TOBBA: Con poco potrebbe tenere il largo, se voi la riparaste.

        PADRON NOCIO: E te chi ti ripara?

        TOBBA: Sono vecchio, ma sono di buon osso.

        A questo punto, dalla comune entra Mita, gridando, spaventata. Non ha an­cora vent’anni. Florida, bionda come una spiga, con le trecce legate strette a crocchia sulla nuca. Ha una sottana nera di lana, lunga fino alla noce del piede, molto ampia e tutta a piegoline, rigonfia sui fianchi; un giubbetto di velluto viola, squadrato sul petto sopra una stoffa gialla a brusche d’oro. Porta in capo una «mantellina» di panno nero, che le scende rotonda sulle spalle fino alla vita. Da sotto, quando va per via, ne tiene i due lembi con ambo le mani a pugno chiuso, incrociando le braccia sul petto, fin quasi a nascondere il volto. Scoprendo il capo, terrà la mantellina sulle spalle con la sola parte superiore abbassata e volta indietro come un cappuccetto, che mostrerà allora la fodera azzurra, di seta.

        MITA (con le braccia levate, come a riparo del volto): Ah papà! Ajuto! Ajuto!

        PADRON NOCIO (subito, voltandosi): Che stato? Che t’hanno fatto? (S’avventa fuori della comune.)

        NUCCIO: Qualche malcreato?

        MITA: No, una donnaccia! una donnaccia!

        Rientra Padron Nodo, trascinando a strattoni dentro la taverna La Spera. E costei una donnaccia da trivio dagli occhi foschi e disperati che le lampeg­giano da un volto così imbellettato che sembra una maschera. In contrasto col volto così imbellettato sono le gale vecchie e scolorite del suo abito strappato, largamente aperto sul seno ancora formosissimo. Vecchio e strap­pato è anche il grosso «manto» scuro, sotto al quale per via è solita nascon­dersi, per scoprirsi ogni tanto a qualche passante notturno, là per la calata del porto, e darsi a vedere per quella che è.

        PADRON NOCIO: Che hai fatto a mia figlia, schifosa? Che le hai detto?

        NUCCIO: Ah, è La Spera! Da dietro il banco di méscita, non visto, Dorò alzerà il capo a spiare.

        LA SPERA (a Padron Nocio che non la lascia): Nulla, nulla! Lo può dire lei stessa.

        PADRON NOCIO: Come nulla, se è corsa qua spaventata?

        MITA: È vero: nulla: m’ha fatto paura come mi s’è accostata.

        PADRON NOCIO: Accostata? Tu, a mia figlia?

        LA SPERA: No, lasciatemi! (Si libera le mani con uno strappo violento, e lo guarda, fiera, mentre Padron Nocio fa l’atto di darle un pugno sul capo.)

        PADRON NOCIO: Con un pugno ti fracasso!

        LA SPERA: Non m’ero accostata a lei. M’ero accostata, guardando così (si pone le mani attorno agli occhi) alla vetrata là, per vedere –

        NUCCIO (interrompendola, rivolto a Padron Nocio): Lasciatela perdere, padron Nocio: so chi viene a cercare qua dentro.

        TOBBA: Il padre del suo bambino.

        PADRON NOCIO (a Mita): Andiamo via. Non avrei dovuto lasciarti fuori. (Ed esce con Mita, borbottando:) Maledetto chi mette il piede in certi posti! (Via con Mita. )

        NUCCIO (a La Spera): E via anche tu, subito! Sai che qua, sola, non devi en­trare.

        LA SPERA: Non sono mica entrata da me. M’hanno trascinata.

        NUCCIO (spingendola fuori): Se cerchi d’appioppargli il figlio che t’è nato, te lo puoi scordare! – Via, via! Fuori di qui, senza tante storie. Salta fuori dal banco di méscita Dorò. Svelto ragazzo di circa quattordici anni, precocemente cresciuto, porta già i calzoni lunghi a campana dei mari­na] e, invece della giacca, un maglione di lana col collo rimboccato, turchino; in capo, un berretto all’inglese, anch’esso turchino, tagliato a barca, con due fettuccìne dietro, di seta nera, pendenti.

        DORÒ: No! Vecchiaccio vigliacco, non la scacciare così!

        NUCCIO (voltandosi con gli altri, maravigliato): Oh guarda! Proprio lui!

        TOBBA: E di dove è entrato?

        NUCCIO: Dalla cucina! Ah, ma caccio via anche te, sai! (E gli va incontro, mi­naccioso.)

        DORÒ (parandoglìsi di fronte): Provati!

        NUCCIO (afferrandolo per un braccio): Tu devi andartene! E stato qua tuo padre –

        DORÒ: – l’ho visto –

        NUCCIO: – a proibirmi –

        DORÒ: – l’ho sentito –

        NUCCIO: – ah, eri nascosto lì? –

        DORÒ: – lì: e non me ne vado.

        NUCCIO: Tu te n’andrai com’è vero Dio! E puoi pure andare a dire a tuo padre che t’ho cacciato io.

        DORÒ (battendo una mano sulla tasca dei calzoni e facendo sonare i soldi): Pago mezzo litro a Tobba.

        TOBBA (subito): Ah no, grazie, caro!

        DORÒ (seguitando): E lei (indica La Spera e subito si confonde): …lei è come se fosse con me.

        NUCCIO: Ma sentitelo! con lui! Puzza ancora di latte!

        DORÒ: Dico perché fuori non si bagni: non senti che s’è messo a piovere?

        LA SPERA (che è stata sull’uscio a guardar fuori, si volta con ineffabile tene­rezza verso il giovinetto; poi dice a Nuccio): Me ne vado.

        NUCCIO: E ti ripeto ch’è inutile che torni a cercarlo qua, il tuo galantuomo. (A Tobba:) Si fa portare in caìcco, capisci? lo pago, e loro se ne vanno in bar­chetta di notte, come due sposini; e per dare ascolto alle sue chiacchiere, lui, su tre colpi, me ne fallisce due. Ah, ma mi ascolterà stasera, appena viene. Neanche un tozzo di pane gli darò da mangiare.

        LA SPERA (gli s’appressa; gli prende una mano): Guarda: (fa l’atto di sputargli su quella mano) – puh! – ci sputo per lui – sul tuo pane.

        NUCCIO: Ah, ci sputi?

        LA SPERA: Sì; e su tutto quello che dici. D’ora in poi, chi vuol parlare con me – fuori ! – dove non sono mai stata.

        NUCCIO: Farnetichi? o sei ubriaca?

        LA SPERA (con occhi invagati, come se si vedesse sul mare, di notte, in barca): Dove le parole – tu non sai com’è – le dici – le ascolti – ti diventano nuove. (Voltandosi a guardare Dorò:) Come in bocca a quel ragazzo lì. (Scoppia a ridere: scuote le mani davanti alla testa come a cacciar via quelle parole, e se ne va dicendo:) Sono ubriaca! sono ubriaca! (Via.)

        NUCCIO: Va’ a bagnarti, va’: l’acqua tempera il vino.

        TOBBA: Avrà i suoi diavoli anche lei.

        DORÒ: E io – piove – e non me ne vado.

        NUCCIO: Tu te n’andrai, perché non voglio aver da dire con tuo padre, io: lo vuoi capire?

        DORÒ (a Tobba, come se non avesse inteso): Ma di’ un po’ – com’è che l’isola, dicono, scomparirà un giorno dalle acque?

        NUCCIO: E dalli con l’isola!

        DORÒ: Non m’hai tu detto che la terra ha soperchiato le acque per volontà di Dio?

        TOBBA: Quando sarai per mare, t’ho detto, e l’avrai cattivo com’è cattivo que­sta sera, se sai che a petto della terra il mare è tanto, tanto più grande che non gli costerebbe nulla soperchiarla lui, la terra, e farne un boccone; tu devi pen­sare che, se non lo fa, questa è volontà di Dio –

        DORÒ: – sì – perché sulla terra –

        TOBBA: – c’è il coraggio dell’uomo che è più grande del mare.

        DORÒ: E se il mare adesso fa un boccone dell’isola?

        TOBBA: Eh, devi pensare che non c’è solo il coraggio. Dio, con esso, ti concede di vincere il mare. Ma l’uomo è anche cattivo, caro mio. E allora Dio, se pure ti stai sulla cima della più alta montagna, te la fa inghiottire dal mare come niente.

        Entrano dalla comune, a frotta, rumorosamente, come se, correndo per ripa­rarsi dalla pioggia, l’uno avesse sopraggiunto l’altro davanti la porta, con le giacche levate a riparo della testa, o con qualche grande ombrellaccio verde o rosso, Crocco, Fillicò, Quanterba, Trentuno, Papìa, Filaccione, il Riccio, Bacchi-Bacchi, Burrania, Osso-di-Seppia, Ciminudù: marinai contrabbandieri che spingono dentro di nuovo La Spera. Entreranno prima Fillicò, Quanterba e Trentuno, e si butteranno a occupare un tavolino; poi Crocco e Papìa che, tirando dentro La Spera, cercheranno di costringerla a sedere con loro a un altro tavolino; poi Filaccione, il Riccio e Bacchi-Bacchi, che occuperanno un terzo tavolino; poi Burrania e Osso-di-Seppia, che s’appar­teranno in un quarto tavolino e traendo di tasca un vecchio e sudicio mazzo di carte si metteranno a giocare; infine Ciminudù che s’appresserà al tavo­lino di Tobba, restando in piedi.

        FILLICÒ: Mannaggia! Tutto bagnato!

        CROCCO (a La Spera): E vieni dentro! Ti bagni la crocchia!

        PAPÍA: Ti si stinge la maschera!

        LA SPERA: Lasciatemi! Fatevi gli affari vostri!

        QUANTERBA (a Trentuno che ride forte): Che ridi? Siedi, bestione!

        PAPÍA (a La Spera, tirandola per un braccio): No, qua con noi!

        LA SPERA (svincolandosi): Con voi non voglio aver da fare. (Va al tavolino di Tobba e di Dorò.)

        CROCCO (a Papia): Lasciala perdere!

        FILACCIONE: Qua mezzo litro: pago fuori conto!

        IL RICCIO: Oh, biada alle bestie! Che ci hai preparato?

        BACCHI-BACCHI: E lo domandi? Il solito macco!

        DORÒ (a La Spera): Tutta bagnata!

        LA SPERA: Non è niente.

        BURRANIA (a Nuccio): Mezzo anche qua, oh!

        OSSO-DI-SEPPIA: Rosso, fuori conto.

        Intanto Nuccio d’Alagna avrà portato a Quanterba, a Fillicò e a Trentuno le scodelle di minestra; altre ne porterà a Filaccione, al Riccio, a Bacchi-Bac­chi e a Papìa.

        QUANTERBA: Bella sbroscia! O come non ti fai coscienza di darci a ingollare questa robaccia qua?

        NUCCIO: Robaccia? Mangia, che ti leccherai anche il piatto, quando avrai finito. (A Ciminudù rimasto con l’ombrello verde aperto:) E chiudi codesto om­brello!

        CIMINUDÙ (a Tobba): No. Mi sento un canonico sotto il baldacchino. Non mi date posto? (Chiude l’ombrello.)

        TOBBA: Siedi, siedi.

        CIMINUDÙ: Eh, caro Tobba: il rosario? santo; ma sgranane pure i chicchi quanto vuoi, se poi non ti dai ajuto da te!

        CROCCO (a Papìa): Vedrai che Currao non ci starà.

        PAPÍA: L’ho visto alla spiaggia dietro a certi pescatori che con questo mare hanno avuto il coraggio di gettare il tartanone.

        FILACCIONE (a Nuccio): Oh! e il mio mezzo litro?

        NUCCIO: Pagare avanti, pagare avanti: se no, io mi distraggo.

        QUANTERBA (ridendo con gli altri e additandolo): Lui, si distrae!

        BURRANIA (a Nuccio): E pòrtalo anche qua: rosso: tu che ti distrai. Entrano dalla comune, per ripararsi dalla pioggia, tre campagnoli: un uomo e due donne: l’uomo è giovane, col cappotto d’albagio a cappuccio, il ber­retto a calza di cotone nero, due cerchietti d’oro agli orecchi, gli scarponi imbullettati; le donne, una vecchia e l’altra giovane, con le «mantelline» in capo. Sono come sperduti. Seggono a un tavolino sul davanti, presso a quello di Tobba. Si guardano attorno e sorridono ingenuamente a chi si sporge o alza il capo a osservarli.

        CIMINUDÙ (a Tobba e a La Spera): O oh, passeri nuovi! Guardate.

        TOBBA: Calati dalle montagne.

        OSSO-DI-SEPPIA (a Burrania): Oh, che fai? Quattro e cinque nove, e prendi col fante?

        LA SPERA (a Dorò, indicando i contadini): Alzati e va’ a dire che se ne vadano: questo non è posto per loro.

        CIMINUDÙ (trattenendo Dorò che s’è alzato): Che fai? Siedi. Lasciali stare. Intanto, Nuccio d’Alagna si sarà appressato al tavolino dei nuovi arrivati per domandar loro che cosa vogliono da mangiare. Anche Crocco si sarà alz.ato per tentare qualche malestro.

        LA SPERA (a Dorò): No, va’, va’: guarda là Crocco che se ne vuole profittare!

        NUCCIO (ai contadini): Cotto? Vino? Peperoni salati?

        IL GIOVANE: Che c’è di cotto?

        NUCCIO: Minestra di fave.

        CROCCO: Buona, compare. Prendetela, che vi piacerà.

        TOBBA: Ecco qua Currao.

        Entra difatti dalla comune Currao, con uno scialle scuro violaceo sorretto a tettuccio sul capo con ambo le mani per ripararsi dalla pioggia. Poco dopo entrato, se lo lascia cadere sulle spalle. Ha trent’otto anni; corpo gagliardo e agile; aria torva e sprezzante. Veste di nero, con berretto di pelo, maglione da marinajo, calzoni a campana e fascia di seta alla vita. Entrando, scorge La Spera che gli fa cenno di badare a Crocco, e si ferma a guardarlo e a guardare il giovane contadino allocco e le due donne.

        NUCCIO (a Crocco): Che t’immischi tu?

        CROCCO: Volevo sapere se è sbarcato adesso, o se –

        CURRAO (strattandolo per un braccio): E non ti vergogni?

        CROCCO: Oh, tu? Chi t’ha chiamato?

        NUCCIO: Ohi, dico…

        IL GIOVANE (alzandosi): Per chi mi prendete?

        CURRAO: Per un latterino tra i granchi, compare!

        CROCCO: Granchio? Io lo voglio servire!

        PAPÍA (accostandosi): Sbarca o s’imbarca? Pronta la barca!

        TRENTUNO (c.s., alla giovane): Ci siamo qua anche noi, comaruccia!

        CURRAO (al giovane): Andate, andate via! (Agli altri:) E voi levatevi d’attorno!

        NUCCIO (a Currao): O oh! Chi t’ha fatto padrone in casa mia? (Ai contadini;) Sedete, sedete.

        IL GIOVANE: No, vi ringrazio. (Alle donne:) Andiamo via! (Ed esce con esse per la comune.)

        NUCCIO: Ah, mi mandi via gli avventori?

        CROCCO: Si vuole far santo con Tobba, non l’hai ancora capito?

        CURRAO (a Crocco): T’ho detto e ripetuto che il ladro di terra, io, non l’ho fatto mai, e non voglio che lo faccia nessuno di quanti siamo qua segnati.

        CROCCO: O se no, che fai? Vai a far la denunzia per farci arrestare?

        CURRAO (attanagliandogli un braccio): Bada: tu rubi, e altri qua dei tuoi, più schifosi di te, hanno rubato; e sono stato messo dentro io, e Quanterba con me, e questo (indica Ciminudù) e quel vecchio là (indica Tobba) noi, capisci? e tu no, mentre séguiti a rubare. Dunque la spia, qua, non la faccio io: la farai tu!

        CROCCO (svincolando il braccio): Io? Provamelo!

        CURRAO (subito): La prova è questa.

        CROCCO: Hanno messo dentro anche me, non so quante volte.

        PAPÍA: Anche me! anche me!

        CURRAO: Meno però di tutti noi; e poi subito, rilasciati.

        QUANTERBA: E vero! è vero!

        CIMINUDÙ: Qua dev’esserci una spia!

        TRENTUNO: Un traditore!

        FILLICÒ: Viene da mettersi a gridare come pazzi per le vie!

        OSSO-DI-SEPPIA: Non se ne può più!

        CURRAO: Te ne stai a guardare due ragazzi che giocano sulla spiaggia; o seduto sulla banchina del molo, le barche: vengono, t’agguantano per il petto, ti at­tanagliano i polsi: – «Dentro!» – E non ne sai nemmeno il perché. – Un furto? una rissa? – Tu sei stato all’isola? e dunque, dentro! Tanto per cominciare e far vedere che fanno qualche cosa. (A Crocco, andandogli davanti al petto, fremente, ma contenendosi:) Tu mi provochi stasera, e io te lo dico.

        CROCCO: Ti provoco? Mi provochi tu!

        CURRAO: M’hai detto spia!

        CROCCO: Perché non vuoi più starci!

        CURRAO: Ah, per questo? No caro: tu devi aver saputo qualche cosa!

        CROCCO: Io? che cosa?

        CURRAO: Che m’hanno chiamato. Messo alle strette, a farmi confessare ciò che non avevo fatto, a farmi dire ciò che non sapevo –

        FILACCIONE: – hai fatto la spia? –

        CURRAO: – ho avuto una volta la debolezza –

        TOBBA (con stupore): – come, tu?

        PAPÍA: – ah sì? –

        CROCCO: – lo confessa! –

        CURRAO: Che credete? Dico la debolezza d’avvilirmi davanti a loro, di met­termi a piangere, di rabbia, per l’esasperazione di non essere creduto –

        PAPÍA: – e hai parlato? –

        CURRAO: – ho supplicato mi dessero ajuto, mi procacciassero da vivere – one­sto…Scoppiano tutti a ridere sguajatamente, meno Tobba, La Spera e Dorò.

        FILACCIONE: T’hanno rimesso in libertà –

        PAPÍA: – proponendoti un guadagno facile e sicuro: «Confidente». (Altra ri­sata. )

        CURRAO: Ah, ne ridete?

        QUANTERBA: L’hanno proposto anche a me!

        TRENTUNO: E anche a me!

        FILLICÒ: Anche a me!

        CURRAO: Che l’abbiano proposto a voi, e che lui (indica Crocco) o un altro più carogna di lui abbia accettato, me l’immagino; ma che abbiano potuto pro­porlo a me…

        CROCCO: Tu devi essere malato. Nuova sghignazzata generale, troncata subito, perché:

        CURRAO (con scatto da belva agguanta per il petto Crocco): Oh, bada che io mi t’attacco alla gola e te la mangio con un morso!

        Quanterba, Papìa, Trentuno, Filaccione e Nuccio d Alagna s’affrettano a se­pararli.

        QUANTERBA: Eh via!

        PAPÍA: Non fare il cane!

        TRENTUNO: Finitela!

        NUCCIO: Oh, fuori, fuori di qui!

        CROCCO (trattenuto, mentre lo trascinano fuori): Tu me la paghi!

        CURRAO: Quando vuoi! quando vuoi!

        PAPÍA: O che è più onorato fare il ladro di mare che quello di terra?

        QUANTERBA: A terra rubi sempre a qualcuno; a mare non rubi a nessuno.

        OSSO-DI-SEPPIA: Come, a nessuno?

        QUANTERBA: A chi rubi? Merce comprata e venduta. La dogana, rubi, se mai!

        NUCCIO: O insomma, finiamola, v’ho detto! (A Currao:) E tu, se sei venuto per mangiare, guarda, caro: quella è la porta. Va’, va’ a fare il galantuomo fuori di qui!

        FILACCIONE: Così torneremo a ridere tutti !

        NUCCIO: Io non ti do nulla!

        CURRAO: Tu non mi dai nulla, perché io non voglio nulla, stasera; se no, ti farei vedere se mi dai o non mi dai. Tutta la roba ch’hai laggiù (indica l’usciolo a sinistra) nel riposto –

        TRENTUNO: – tanta che spancia da tutte le parti.

        CURRAO: – è nostra, non tua!

        NUCCIO: Ah, roba vostra?

        CURRAO: Nostra, sì!

        QUANTERBA E ALTRI: Nostra! Nostra!

        CURRAO: Procacciata da noi, col rischio nostro!

        FILACCIONE: Per una manciata di soldi –

        OSSO-DI-SEPPIA: E un boccone di pane che ci fa veleno!

        NUCCIO: Ecco qua le chiavi: prendetevela, se è vostra: voglio vedervi!

        LA SPERA (a Currao, balzando in piedi e cavando un pugno di soldi dalla tasca): No! Vieni qua! Non dargliela vinta, perdio! (Posando risolutamente quel pugno di soldi sulla tavola:) Qua: mangia!

        Dopo un momento di silenzio, mentre tutti stanno sospesi a guardare ciò che farà e dirà Currao,

        TRENTUNO (in tono basso): O oh!

        PAPÍA: Ma guarda!

        CURRAO (che si sarà appressato intanto lentamente, minaccioso, a La Spera, alzando ora una mano per schiaffeggiarla): Del tuo danaro –

        LA SPERA (subito, prendendogli il braccio levato): – che ha il mio danaro? Non

        è più sporco né più pulito di quello che passa per le tue mani!

        CURRAO: Me le insozzo io da me, le mie mani, senza bisogno della sporcizia tua!

        LA SPERA: E non mangi con quella che ti viene di qua? Buttati in faccia la mia, e mangia!

        Entrano a questo punto due Pescatori con una cesta di pesci.

        PRIMO PESCATORE: Dov’è Currao?

        PAPÍA: Oh, quelli del tartanone!

        OSSO-DI-SEPPIA: L’avete scampata bella!

        FILLICÒ (indicando, al primo Pescatore): Eccolo là, Currao.

        SECONDO PESCATORE (a Currao, porgendogli la cesta): Ecco a voi per l’ajuto che ci avete prestato.

        QUANTERBA: Oh guarda!

        FILACCIONE: Che ajuto?

        CURRAO: Grazie: non voglio nulla!

        OSSO-DI-SEPPIA: Che triglie oh, guardate!

        TRENTUNO: Non aveva da mangiare, e…

        CIMINUDÙ: Quando si dice la divina provvidenza!

        PRIMO PESCATORE: Ma è stato lui per noi la provvidenza: col mare grosso, se lui non ci dava una mano, questa sera il tartanone non lo tiravamo a terra dav­vero!

        CURRAO (seccato, per tagliar corto): Mi date anche la cesta?

        SECONDO PESCATORE: La cesta, no, scusate.

        CURRAO: E allora andate: non voglio nulla.

        TRENTUNO: Vorresti mangiarti la cesta?

        PRIMO PESCATORE: Sono più di tre chili di triglie!

        CURRAO: Non le voglio! Se mi date la cesta, sì.

        SECONDO PESCATORE: Ne farete una cartata…

        CURRAO: Voglio la cesta! Con questo bel manico… Guarda, Tobba: tu lo prendi di qua, io di qua; e ce n’andiamo a venderle per la calata: «Le triglie fresche, pescate or orààà!»

        Imiterà il bando, quasi cantato, dei pescivendoli meridionali.  Quanterba,

        Ciminudù, Trentuno, Filaccione, Osso-di-Seppia, il Riccio e Bacchi-Bacchi applaudono gridando:

        «Bene! Bravo! Benissimo!»

        FILACCIONE (ai Pescatori): Regalategliela! Tanto, è vecchia.

        PRIMO PESCATORE: E prendetevi anche la cesta!

        SECONDO PESCATORE: E con buona fortuna!

        CURRAO: Su, Tobba! (ai Pescatori:) Oh, a quanto, per tenerci sul giusto?

        PRIMO PESCATORE: Triglie vive vive, che saltano ancora! Le abbiamo vendute al­l’ingrosso, noi. Voi, al minuto, potrete di più. Vedete un po’ voi…

        TOBBA (a Currao): Vai, vai: per quello che ci costano!

        SECONDO PESCATORE: Vi pare poco una buona azione?

        TOBBA: Diventerebbe cattiva, se la facessimo pagare cara agli altri.

        CURRAO: Su su, non dar retta! Andiamo a fare i galantuomini. Ridete tutti! (E afferrando la cesta per il manico, comincia il bando:) «Le triglie fresche…

        TOBBA (terminando il bando): – pescate or orààà!»

        Escono Tobba e Currao, reggendo la cesta l’uno da una parte e l’altro dal-l’altra, tra le risate di tutti.

        CIMINUDÙ: È poi da vedere se ci si guadagna di più!

        LA SPERA: Per quanto ci ha guadagnato lui a non farlo! Non ha da mangiare…

        NUCCIO: E proprio tu lo dici? Se non stèsse a ciondolarsi con te tutto il giorno –

        TRENTUNO: – sì, guadagnerebbe assai! Si vede da come siamo ricchi noi tutti! – Ehi, Quanterba, come dorme lui? (Indica Nuccio.)

        QUANTERBA: A pancia all’aria.

        TRENTUNO: Perché?

        QUANTERBA: Perché mangia troppo.

        TRENTUNO: Quanto mangio io?

        QUANTERBA: Eh, poco tu.

        TRENTUNO: E come dormo allora?

        QUANTERBA: Di taglio.

        TRENTUNO: Vedete la differenza?

        Viene dalla calata del porto un vocìo confuso, che presto cresce, avvicinan­dosi.

        PAPÍA (correndo a guardare dalla vetrata infondo): Oh, gridano!

        FILACCIONE (accorrendo anche lui): Che sarà accaduto?

        OSSO-DI-SEPPIA (c.s.): S’azzuffano! s’azzuffano!

        BURRANIA: Chi s’azzuffa?

        FILLICÒ: Corro a vedere! (Via di corsa per la comune.)

        PAPÍA: La voce di Crocco! (E corre fuori anche lui.)

        FILACCIONE: Si vedono le guardie! Là, là, guardate!

        Tutti si alzano per guardare dalla vetrata; qualche altro esce per andare a vedere che cosa è accaduto. Intanto il clamore di fuori si sarà appressato: è quasi davanti la porta della taverna.

        FILLICÒ (rientrando in subbuglio): Hanno arrestato Currao!

        LA SPERA (con un grido, lanciandosi verso la porta, seguita da Dorò): No!

        FILLICÒ: Qua davanti! Eccoli! eccoli!

        Irrompono dalla porta Currao e Tobba, aggrovigliati con le guardie che li hanno arrestati; rientrano insieme Crocco, Papia e altri marina] del porto, vociando. Tra le grida dei marinai«Lasciateli! lasciateli!» si sentiranno quelle di Tobba che cerca di scusarsi, ma senza avvilimento: «Ma se vi dico che ce l’hanno regalate!» e quelle più forti di Currao, che si divincola fero­cemente: «No! no! Lasciatemi, per la Madonna! Non le ho rubate!».

        CROCCO: Sì, sì: le ha rubate! lui, lui! (indica Currao) con tutta la cesta!

        LA SPERA: Ah, cane!

        CROCCO: L’ho visto io! Le ha rubate! Or ora, qua!

        LA SPERA: Non è vero! Testimonii tutti, qua!

        CURRAO (riuscendo a svincolarsi e afferrando Crocco per il petto): Me le hai viste rubare, tu?

        TUTTI: Non è vero! non è vero!

        PRIMO PESCATORE: Ma che rubate! Gliele abbiamo regalate noi!

        SECONDO PESCATORE: Noi, sì! Per l’ajuto che ci prestò!

        PRIMO PESCATORE: Con tutta la cesta, noi due. Chi li accusa è un infame!

        TUTTI: Infame! infame!

        CURRAO: No! Non è lui l’infame! Lui è soltanto il vigliacco che se n’appro­fitta, per vendicarsi! (A Tobba:) Lo capisci che tu non puoi più onestamente metterti a vendere una cesta di pesci che t’hanno regalato? Non puoi! Ecco, vedi? Le hai rubate.

        PRIMO PESCATORE: Ma se non è vero!

        CURRAO: È vero! Noi non possiamo fare più altro! Patentati ladri, il nostro mestiere è rubare! (A Tobba:) Non hai rubato? Sei in contravvenzione! E dunque, dentro! (Alle guardie:) Portateci dentro!

        PRIMO PESCATORE (alle guardie): Scherza…

        SECONDO PESCATORE: Potete rilasciarli, sulla nostra parola! Siamo pronti a di­chiarare –

        PRIMO PESCATORE: – ch’è stato un regalo: ci ajutò a tirare a terra il tartanone.

        SECONDO PESCATORE: Gliel’abbiamo portata noi stessi, qua, questa cesta di pesci: sono tutti testimonii!

        TUTTI: E vero! è vero!

        PRIMO PESCATORE: Potete, potete andare. Se volete, veniamo con voi, a testimoniare. Le guardie se ne vanno, seguite dai due Pescatori.

        QUANTERBA (agguantando Crocco per il petto): E tu, schifo –

        CURRAO (subito, strappandolo indietro): – no! lascialo stare!

        LA SPERA: Schifo, sì, schifo – voi della vostra, io della mia vita! – Sono tutta un fremito, Dio! – Non vi sentite torcere dentro le viscere come una fune? – Che aspettate più? Andiamocene, andiamocene via, andiamocene lontano!

        TRENTUNO: Lontano? Dove te ne vorresti andare?

        LA SPERA: Non lo so! Quest’isola c’è?

        TRENTUNO: L’isola? Che isola?

        LA SPERA: Quella di cui parla Tobba come del paradiso.

        CIMINUDÙ: L’isola della Penitenza?

        LA SPERA: C’è davvero?

        FILACCIONE: C’era una volta…

        FILLICÒ: Chi sa se c’è più adesso!

        BURRANIA: Vorresti andare all’isola?

        OSSO-DI-SEPPIA: Chi t’ha condannata?

        LA SPERA: Chi? Tutti, qua. Non vedete? Da non lasciarci più respirare!

        CURRAO (soprappensiero): Tornare all’isola?

        LA SPERA: Sarà la liberazione!

        FILACCIONE: Sì! quando ti sprofonderà in mare!

        LA SPERA: E qua, dove sei? non sei sprofondato? Più a fondo di come sei qua, non potrai sprofondare! Ma sarà Dio almeno che t’avrà sprofondato! non gli uomini più cattivi di te! più cattivi, se non vogliono più lasciarti tornar a galla un momento a respirare, a respirare! Ah Dio, mi s’è messa qua questa smania (si preme con le due mani lo stomaco) di tirare un respiro dal fondo dei polmoni!

        CURRAO (di nuovo, guardando tutti): Tornare all’isola…

        TRENTUNO: Ma come? condannandoci da noi?

        TOBBA: Non sarà più condanna, se ce la diamo da noi.

        QUANTERBA: Ma come ci andremmo? Oh, non diventiamo pazzi!

        LA SPERA: Tobba ha la barca!

        TRENTUNO: Quella? Ah sì! Proprio la barca per portarci a quell’isola!

        LA SPERA: Perché?

        QUANTERBA: Perché ti colerà a fondo anche prima dell’isola!

        LA SPERA: Si vedrà! Sarà la prova! A fondo, o resuscitati!

        OSSO-DI-SEPPIA: Grazie! Falla tu codesta prova!

        FILLICÒ: E poi, ammesso che ci arrivi, ti pare che ti ci lasceranno stare? Ver­ranno con l’ordine di sgombrare e ti riporteranno via!

        TOBBA: Questo è possibile.

        LA SPERA: Ma glielo grideremo in faccia!

        CIMINUDÙ: Che gridi? Non vedi come t’ascoltano?

        CURRAO: La legge è sorda.

        LA SPERA: Che ci lascino stare a nostro rischio e ventura! Non vi avevano prima condannato a starci? Ve ne portarono via, perché ci potevate morire. Se ora accettate questo rischio, perché lo preferite alla vita a cui vi condannano qua? se gridate loro in faccia che per voi è meglio quella morte che questa vita?

        TOBBA: Non vale, per gli altri, la condanna che ti dai da te. Non pare più condanna, perché hai negato la soddisfazione che ti fosse inflitta. Ti man­dano dove non vorresti andare; e allora sì è condanna; ma se ci vai da te, perché vuoi andarci, non è più condanna, è il tuo piacere.

        LA SPERA: Va bene, sì – e dirlo! dirlo forte! – sì: il nostro piacere: non fare più la vita che abbiamo fatto! Perché ci dev’essere negato? Se nessuno qua vuole più ajutarci, darci modo di farne una migliore? Andiamo a cercarne noi il modo là, anche a costo di morire. Perché ce lo dovrebbero negare? C’è terra da lavorare; il mare; Tobba ha le reti. Vi servirò io tutti.

        PAPÍA (con un ghigno, fregandosi le mani): Ah sì? Benone, allora!

        LA SPERA: Come intendi, porco? Basta del mio mestiere! Lo faccio per questo! Servirvi, farvi da mangiare, badare alle vostre robe, curarvi se siete amma­lati, e lavorare, lavorare anch’io con voi: vita nuova, vita nuova, e nostra, fatta da noi !

        QUANTERBA: Io ci sto!

        TRENTUNO: Ci sto anch’io!

        CURRAO (a Tobba): Tu dai la barca?

        TOBBA: Pronto!

        FILLICÒ: Ci stiamo tutti?

        OSSO-DI-SEPPIA: Tutti! tutti!

        CURRAO: Adagio: chi vuole lavorare! chi s’impegna di starci! Ognuno, come deve. Non per andare a cambiar aria!

        QUANTERBA: A lavorare! a lavorare!

        PAPÍA: Dite sul serio? Lavorare? Con che? Con le mani?

        TOBBA: Con la voglia, se l’hai. Chi l’ha, non ha bisogno d’altro.

        TRENTUNO: Giusto! Trova e si serve di tutto!

        FILACCIONE: Ma qua c’è Nuccio d’Alagna! Anche quanto ci ha lì nel banco è tutto nostro!

        NUCCIO: Anche il danaro?

        FILACCIONE: Non per rubartelo! Per comperare zappe e vanghe, reti, nasse!

        PAPÍA: E l’aratro, te lo tireranno Burrania e Bacchi-Bacchi?

        FILLICÒ: Tu sei padrone di non venire!

        PAPÍA: No! Che! Ci sto anch’io! Ho sete anch’io di vita nuova!

        BURRANIA (a Papìa, minaccioso): Tu hai inteso dire bue, a me?

        CURRAO: Finiamola con le liti!

        TRENTUNO (a Burrania): Hai moglie? No. Dunque, non t’ha detto bue per le corna.

        Rientra torvo, dalla comune, Crocco. Subito Currao va a prenderlo per una mano e lo tira avanti.

        CURRAO: Ritorni in punto! Vieni, vieni avanti! (Gli presenta una guancia:) Eccoti qua: forza, dai ! (E poiché Crocco esita, stordito, prendendogli l’altra mano:) No, no, dai: (si colpisce con la mano di Crocco) così! E ora qua! (Gli presenta l’altra guancia.)

        CROCCO: Ma perché?

        QUANTERBA: Si va tutti all’isola!

        FILLICÒ e

        TRENTUNO: All’isola! all’isola!

        BURRANIA: Con la barca di Tobba!

        OSSO-DI-SEPPIA: O a fondo o resuscitati!

        BACCHI-BACCHI: Una pensata de La Spera!

        IL RICCIO (ironico): Tutti fratelli! – Dai! dai!

        LA SPERA (a Tobba, a Dorò e a Ciminudù, mentre gli altri seguitano a rag­guagliare Crocco): Ora lasciatemi andare.

        TOBBA: Dove te ne scappi?

        LA SPERA: Vado a prendere il mio bambino.

        CIMINUDÙ: Ma no, che fai? Non l’hai a bàlia?

        LA SPERA: Vuoi che lo lasci qua? Lo porto via con me! (Via di corsa per la comune.)

        CURRAO (agguantando Nuccio per il petto): Tu, gufo, non farai la spia!

        NUCCIO: Io? M’ammazzarono un figlio; so chi è stato; non ho parlato. Mi but­tarono una figlia alla perdizione; so chi è stato; non ho parlato. – Volete an­dare davvero?

        CURRAO: Sì, domani notte!

        TRENTUNO: Tutti quanti!

        CURRAO: Chi fino a domani non se ne sarà pentito!

        NUCCIO: Con la barca di Tobba?

        CURRAO: Con la barca di Tobba!

        NUCCIO: All’isola?

        TUTTI: All’isola! all’isola!

        NUCCIO: Vi darò io le provviste per i primi giorni, e da comprarvi le zappe e le reti !

        Entra a questo punto il delegato Pallotta seguito da due guardie travestite. I «bravo!» e gli«evviva!» a Nuccio d’Alagna per la sua offerta cessano d’un tratto e tutti ammutoliscono.

        PALLOTTA (a Nuccio): Ancora aperto a quest’ora?

        NUCCIO: Stavo per chiudere.

        PALLOTTA: Bada che questa è la seconda volta. Alla terza, tu chiudi e non ria­pri più. Via tutti subito! Via!

        TRENTUNO: Ma non siamo ancora in contravvenzione.

        PALLOTTA: Zitto tu, e fila! – Via, via tutti! (A Tobba, mentre gli altri s’av­viano per uscire:) Tu vuoi proprio confonderti qua con questi altri!

        TOBBA: Dentato per quest’incastro, signor delegato…

        PALLOTTA: Dentato dice… Se non hai più denti!

        TOBBA: E difatti non macino più!

        Rientra esultante, come impazzita da una gioja sovrumana, La Spera, col bambino al seno, gridando e ridendo, convulsa:

        LA SPERA: Oh Dio, che cosa… che cosa… oh Dio, oh Dio che cosa!

        TRE DEGLI ASTANTI: – Che ha? – Che dice? – Che t’è avvenuto?

        CURRAO: Il bambino?

        LA SPERA: No! Io! io! – Posso allattarlo – Io! io!

        CURRAO: Tu, allattarlo? Che dici?

        LA SPERA: Miracolo! Miracolo!

        ALTRI DEGLI ASTANTI: – Com’è? – È impazzita?

        LA SPERA: No! Non so io stessa come sia! Non ci so credere io stessa!

        CURRAO: Ma che t’è avvenuto? Parla!

        LA SPERA: Un miracolo, un miracolo, ti dico! Posso allattare il mio bambino! io! io! (E se lo stringe di più al seno, quasi a ripararlo.)

        CURRAO: Tu, da te? E come? Dopo cinque mesi?

        LA SPERA: Non lo so! Dissi a lui (indica Tobba) che andavo a prenderlo dalla bàlia; lo dissi così, come se mi movesse da dentro non so che cosa… un calore, un ardore che mi dava alla testa e mi calava al petto… Corsi come una pazza, un fuoco, una fiamma… e correndo – qua, al vicolo accanto – la prima porta – salendo la scala, caddi, ruzzolai, non avvertii nessun dolore; toccan­domi, avevo il petto tutto bagnato: m’è sgorgato il latte, da sé, da sé, all’im­provviso, per la mia creatura! per la mia creatura! (Fa l’atto di nuovo di ripa­rarla e di ripararsi con lei.)

        CIMINUDÙ (quasi allibito): Questo è davvero miracolo!

        TUTTI (prima piano, poi, man mano crescendo): Miracolo! miracolo! miracolo! miracolo!

        TOBBA (scoprendosi, e in tono solenne d’ammonimento): Il segno di Dio, per tutti noi: che ci guiderà Lui! – Ora sì, si deve partire. Questa notte stessa. – Inginocchiamoci! Tutti si scoprono e s’inginocchiano.

Tela

1928 – La nuova colonia – Mito con Prologo e tre atti
Premessa
Personaggi, Prologo
Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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