La nuova colonia – Atto primo

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Premessa
Personaggi, Prologo

Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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La nuova colonia – Atto I
Associazione Culturale SpazioTeatro, La nuova Colonia, 2008

1928
La nuova colonia
Atto Primo

        La scena rappresenta l’interno d’una casa diroccata, a terreno. Solo il muro di destra è rimasto in piedi intero, con una finestra senza vetri. Quello di fondo è crollato e lascia scorgere un lembo verdissimo dell’isola, col mare lontano, sfolgorante di sole al tramonto. Il muro di sinistra è danneggiato solo in alto, verso il fondo, e il guasto è riparato provvisoriamente con un pezzo di vela dipinta. Un uscio in questa parete immette in un’altra stanza, dove abita La Spera col bambino. Sono ancora per terra, in fondo, le pietre crollate. E ammonticchiati lungo le pareti, e qua e là sparsi, oggetti e mobili vecchi, tratti dalla rovina delle case dell’isola; qualche armadio con lo spec­chio rotto; qualche divano di bella stoffa ora scolorita e strappata, con la borra dell’imbottitura che strabuzza dagli strappi; seggiole d’ogni foggia; qualche panca; stoviglie di cucina; tavolini ecc. ecc.

        Al levarsi della tela s’udrà un coro lontano dei nuovi coloni che ritornano dal lavoro.

        Sono in iscena Ciminudù, Crocco e Papìa.

        Ciminudù, messo a sedere su un paglione per terra, con le spalle appoggiate alla parete destra, ha sulle gambe e tirata fin sul petto una rozza coperta d’albagia e in capo un vecchio scialle grigio di lana. Cèreo, patito, come uno scampato a una malattia mortale. Crocco sta seduto in fondo su una pietra a guardar fuori. Papìa è sdraiato bocconi per terra in mezzo alla scena, pog­giato sui gomiti e con la testa tra le mani.

        PAPÍA (cessato il coro): Anche il coraggio di cantare…

        CROCCO: Quando t’è entrata in testa la pazzia… Pausa.

        PAPÍA (tra sé): Non mi par vero, non mi par vero che siamo qua. Me lo sto so­gnando.

        CROCCO: Case diroccate, terre abbandonate e mare. Pausa.

        PAPÍA: E questo spavento: di non potermi più svegliare e far udire a me stesso, vivo, la mia voce.

        CROCCO (dopo un’altra pausa): Ah sì, un bel verso, se seguita. (Pausa. Poi, voltandosi iroso, di scatto:) E finiscila!

        PAPÍA (restando): Io? Che faccio?

        CROCCO: Che stai a grattare?

        PAPÍA: Io? Non gratto nulla, io.

        CROCCO: Ah, sarà qualche grillo, qua, tra l’erba.

        Pausa.

        PAPÍA: Tutte le cose… uno stupore… e pare che il tempo si sia fermato.

        CROCCO: Vedi se è vita, questa, da potersi reggere! Altra pausa. Si mostrano nel fondo Quanterba e Trentuno.

        QUANTERBA: Come va il malato?

        CROCCO (indicando Ciminudù): Eccolo là: con lo scialle in capo, come le be­ghine quando esce la benedizione.

        TRENTUNO: Ehi, Ciminudù?

        PAPÍA: Toccalo, e senti se è vero…

        TRENTUNO (stordito): Chi?

        PAPÍA: Lui. Se è vero che è lì…

        TRENTUNO: Sei impazzito? – (Poi, voltandosi a Ciminudù:) Come stai, Ciminudù?

        CIMINUDÙ: Né meglio, né peggio.

        QUANTERBA: E allora, allegramente! Quando non c’è di peggio il male è poco. – La Spera?

        CIMINUDÙ (indicando con una mossa del capo l’uscio dirimpetto): Di là, col suo bambino.

        TRENTUNO: Di’ un po’: quando viene a medicarti, a sentirne accosto accosto il calore… Se fossi malato io, guarirei subito, parola d’onore! Scoppia a ridere sguajatamente. Si sente lontana, dall’alto, la voce di Dorò che canta uno stornello marinaresco.

        CROCCO (alzandosi urtato, bofonchia quasi tra sé): Quando questo ragazzo canta e gli guardo la gola, una tentazione mi viene, una tentazione di sgoz­zarlo come un pècoro!

        TRENTUNO: Così non farebbe più il cane di guardia a La Spera.

        QUANTERBA: Siamo tutti i cani di guardia de La Spera, e dovremmo allora sgozzarci l’un l’altro, tutti quanti.

        PAPÍA: Sì, ma quando gli altri non ci sono, parte alla pesca e parte a zappare, lui è sempre qua accanto a lei.

        CROCCO: Se non ci fosse, sarebbe lo stesso. Hai potuto pensare di prenderla per forza di nascosto?

        PAPÍA: Tu no, forse?

        CROCCO: E va’ allora: è là! Pigliatela, se hai coraggio!

        TRENTUNO: Ecco, sì: dai, dai l’esempio!

        PAPÍA: Me lo dite per ridere…

        TRENTUNO: No: ti teniamo mano: va’ !

        QUANTERBA: È pure stata di tutti!

        CROCCO: Per quattro soldi; e nessuno prima la voleva, ora –

        QUANTERBA: – è diventata per tutti la regina!

        TRENTUNO: La regina e la santa!

        PAPÍA: Col suo bambino –

        CROCCO: – e il suo re!

        TRENTUNO: Vorresti essere tu, il re, di’ la verità?

        QUANTERBA: Questo gli cuoce!

        CROCCO: Re perché ha lei; e perché noi tutti, carogne, siamo qua a dipenderne come tanti cani spasimanti, che ci faccia la grazia anche di farsi vedere –

        QUANTERBA: – bella come s’è fatta, così tutta naturale –

        CROCCO: – e con l’aria di non essere niente e di servirci tutti. Ah, questa storia deve finire, deve finire!

        PAPÍA (con rabbia): O lei per tutti, o ciascuno qua deve avere la sua.

        TRENTUNO: Sì, fischia che vengono! Lei è qua perché c’è voluta venire. Vai a persuadere le altre ad adattarsi a vivere come stiamo vivendo noi!

        PAPÍA: Vuol dire che non è possibile neanche per noi seguitare a vivere così!

        QUANTERBA: Ah, come voi due, no di certo! Non so proprio che siate venuti a farci così, con l’anima spenta!

        CROCCO: Io, spenta? Voi che vi siete acconciati…

        QUANTERBA: Dico, per quest’impresa!

        TRENTUNO: Quando sta a noi, lavorando, mutare le condizioni!

        PAPÍA: Questo lo dice Currao!

        CROCCO: Eh, lui per sé l’ha già bell’e mutate! Pare invasato. Non tocca terra.

        PAPÍA: E quell’altro, Fillicò, l’avete veduto? Ci crede sul serio oh, che è del Consiglio. Tronfio come un tacchino.

        TRENTUNO: Mi fa ridere Tobba, intanto: «Non so come ci possano stare in città con quel po’ di cielo che si vede nello stretto dei vicoli, mentre qua – dice – te lo puoi bevere tutto fino a inebriarti, abbandonato fra l’erba al silenzio». – Gli basta il cielo, a lui, per parlare con Dio.Entra Dorò con una cartata di more in mano.

        DORÒ: Uh, radunanza qua?

        CROCCO: Hai colto le more per la regina?

        DORÒ: Ci hai da ridire?

        CROCCO: Tu entri come fossi il padrone

        DORÒ: Dovrei chiederne il permesso a te?

        CROCCO: A me, sì! (Con una manata da sotto in su gli butta all’aria la cartata di more.) E impara a rispondere!

        DORÒ (senza scomporsi, guardando prima in aria e poi in terra le more): Oh tanto, sai, erano cattive.

        QUANTERBA: Non lo trattare così, se sei davvero tanto pentito d’esser venuto: la liberazione ci verrà da lui, quando suo padre verrà a prenderselo con le pa­ranze –

        DORÒ: – non verrà –

        QUANTERBA: – portandosi appresso le guardie di dogana per farci sgomberare.

        DORÒ: Già lo sa mio padre, che sono qua.

        QUANTERBA: Ah lo sa?

        DORÒ: E mi ci lascia, ha detto, per punizione. L’ha detto a Tobba, quand’è an­dato a terra a parlare col delegato. (Contento, battendo le mani:) Si resta qua! si resta qua!

        QUANTERBA: Il delegato ha detto a Tobba…?

        DORÒ: Sì! sì! che ci lasciano stare qua!

        QUANTERBA: Non è possibile!

        TRENTUNO: Tobba ce l’avrebbe detto.

        DORÒ: Lo dirà forse stasera, alla seduta del primo tribunale. (A Crocco:) Capi­sci? il permesso d’entrare non l’ho chiesto a te, perché non è ancora deciso se dovevo chiederlo a te o a lui (indica Papia.) Lo deciderà stasera il tribunale.

        CROCCO (indicando i mobili e gli oggetti ammonticchiati a sinistra): Questa, intanto, è roba mia!

        PAPÍA (indicando, a sua volta, a destra): E questa è mia!

        CROCCO (minaccioso): Tu stasera la sgomberi, sai!

        PAPÍA: Si vedrà: o tu la tua, o io la mia.

        DORÒ: Bella testimonianza, da una parte e dall’altra, della vostra «vita nuova»! Appena sbarcati, come tante jene a frugare tra le macerie delle case diroc­cate!

        PAPÍA: Noi soli? Tutti.

        DORÒ: Eh, lo so: un bel principio!

        PAPÍA: Non avevamo nulla per ripararci, neppure per buttarci a dormire: ci siamo dati attorno.

        DORÒ: Ognuno col suo posto in mente da occupare –

        PAPÍA: – appunto: io, questo: e corsi subito a occuparlo per il primo.

        CROCCO: Ci avevo pensato prima io!

        PAPÍA: Provalo!

        CROCCO: Tant’è vero che, appena ti vidi, ti strappai fuori, gridandoti: «Vattene, qua è mio!».

        TRENTUNO: Sarà un bel fatto provare chi ci aveva pensato prima!

        CROCCO: Chi aveva più ragioni di pensarci!

        PAPÍA: Sta bene: tu dirai le tue; io le mie.

        QUANTERBA: E non sarebbe meglio che vi metteste insieme, come abbiamo fatto io e Trentuno?

        CROCCO: Insieme con lui? Non lo vorrei nemmeno per compagno di proces­sione!

        PAPÍA: E figurati io!

        TRENTUNO: È avvenuto anche a noi due lo stesso caso: d’aver pensato allo stesso posto da occupare. Invece di litigare, ci siamo messi insieme, d’ac­cordo.

        QUANTERBA: E abbiamo già finito d’accomodare la casa, e ci diamo tra noi ajuto e compagnia.

        CROCCO: Io ero stato qua all’isola prima di lui!

        PAPÍA: Che conta l’anzianità?

        CROCCO: Conta che ho conosciuto questo posto prima di te!

        PAPÍA: Ma non è diritto! Anche ammesso che tu avessi più ragioni di me, di pensarci; se poi non ci hai pensato e sono corso io, prima, a mettere qua il piede e a dire: «è mio»?

        CROCCO: Ah, bello il piede! E allora il primo sbarcato, posando il piede, poteva dire che tutta l’isola era sua; e gli altri, a mare? – Ti dico che tu sgombrerai stasera; con la ragione, se vale; o se no, con la forza.

        DORÒ: Lo dissi io che, venendo tu, sarebbe entrato il diavolo!

        CROCCO: Eh, caro, che vuoi? Zavorra. Ho fatto da contrappeso. Tu eri l’angelo!

        DORÒ: Dovresti fare come Burrania, tu, che se n’è scappato fin dal primo giorno a viver solo. Non puoi stare con nessuno!

        TRENTUNO: Già, Burrania; chi l’ha più visto?

        DORÒ: Io. Sono andato a vederlo da lontano, senza farmi scorgere. È sulla spiaggia, dall’altra parte. Pareva un pazzo! Parla col mare.

        QUANTERBA: Parla col mare?

        CROCCO: Meglio che parlare con voi!

        CIMINUDÙ: Un po’ di carità, santo Dio! A ogni parola che dite un po’ forte, mi sento spaccare la testa.

        CROCCO: L’ho avuta, mi pare, la carità, e séguito ad averla, tenendoti qua per­ché sei malato.

        PAPÍA: Ah, tu ce lo tieni?

        CROCCO: Io, sì. E lasciando di là La Spera perché ha il bambino.

        QUANTERBA: Oh guarda! Perché ha il bambino.

        TRENTUNO: Se non l’avesse, non ce la terresti?

        CROCCO: Faremo anche questo discorso, non dubitate. Entra a questo punto dall’uscio a sinistra La Spera. È come trasfigurata.

        PAPÍA (a La Spera): Sentilo, sentilo che ora parla di carità: lui!

        TRENTUNO: Che vi tiene qua per carità, dice –

        QUANTERBA: – lui (indica Ciminudù) perché è malato –

        TRENTUNO: – e te, perché hai di là il bambino!

        LA SPERA (con la più dolce e umile semplicità): Se crede davvero che qua sia suo…

        CROCCO (subito, aggressivo): E – non credo – è mio!

        LA SPERA (c.s.): Tanto meglio. Dunque, vera carità.

        PAPÍA: Parli come se non lo conoscessi !

        LA SPERA: Tutti, d’ora in poi, dovremmo parlarci così…

        PAPÍA (stupito e derisorio): Come se non ci conoscessimo?

        LA SPERA: Eh, se fosse vero che, venendo qua e cambiando vita, a uno a uno dovevamo diventare altri da quelli che eravamo…

        PAPÍA: Ma non vedi che è lui? che vuol darsi lui a conoscere per quello ch’è sempre stato?

        CROCCO: Un prepotente, è vero?

        PAPÍA: Sì; e un falso.

        CROCCO: Anche falso?

        PAPÍA: Falso, falso, sì: perché mentre stai facendo a me una soperchieria –

        CROCCO: – io? –

        PAPÍA: – tu, tu, sì – vuoi dare a intendere che fai la carità – a lei, e a quello lì. E anche il motivo di questa tua falsità ho indovinato, sai: dici che è tua carità per non riconoscere che sono stato io a proporre che loro due stessero qua fino a tanto che non si sarà deciso se dev’essere tua o mia questa casa e la terra.

        CROCCO: Tu? Tu l’hai proposto per paura che, senza di loro due, ma sai i salti che t’avrei fatto fare a quest’ora! Quanterba, Trentuno e Dorò ridono.

        PAPÍA: Sarà. E infatti, io non mi sto vantando di fare la carità a nessuno.

        CROCCO (a La Spera, con altro tono, come per sentirne il parere): Parla tu, parla tu! A ogni parola che mi dicono gli altri, mi sento drizzare qua dentro (si picchia il petto) una vipera! Parla!

        LA SPERA (dolente): E che vuoi che dica io?

        CROCCO: Che faresti, se fossi al mio posto?

        LA SPERA: Metterei a lui, così, una mano sul petto e gli direi: «Vuoi stare qua? Stacci!».

        CROCCO: Bella, sì! Per dargliela vinta!

        LA SPERA: Così parrebbe di vincere a me.

        CROCCO: Eh già! Perché a te non costa nulla.

        LA SPERA: Dicevo per te (lo so che a me non costa nulla): che mi parrebbe di vincere così, se fossi in te.

        CROCCO: Rinunziando al mio diritto?

        LA SPERA: Sì. E proprio se credi che il tuo diritto di stare qua sia più forte del suo.

        PAPÍA: Non è vero! Non lo crede!

        CROCCO: Lo credo!

        PAPÍA: Tu vuoi fare una prepotenza: l’hai detto!

        CROCCO: Cane! Me l’hai fatto dire tu! (Rivolgendosi a La Spera:) Quando ho visto che gli altri si mettevano di mezzo tra me e lui, e lui si rimetteva subito agli altri per farmi restar solo, capisci? – (A Papìa:) Perché ti sei rimesso agli altri tu?

        PAPÍA: Oh bella! Perché sono sicuro che mi daranno ragione.

        CROCCO: No! Per ingraziarteli, e averli dalla tua! Se ne fossi sicuro, come ne sono sicuro io, non avresti bisogno che te lo riconoscessero gli altri, il tuo di­ritto.

        LA SPERA: Già. Ma se tu glielo neghi, come lui lo nega a te? Bisogna pure ri­mettersi agli altri che vedano e decidano chi di voi due ha ragione.

        PAPÍA E GLI ALTRI: Ecco, ecco – benissimo! – È così chiaro!

        CROCCO: E chi lo dà agli altri codesto diritto di decidere?

        LA SPERA: La tua stessa ragione, se è giusta.

        CROCCO: Grazie. Lo so da me che è giusta. Non ho bisogno che me lo dicano gli altri.

        LA SPERA: No. Tu puoi sapere che è la tua ragione, e basta.

        QUANTERBA: Se sia giusta lo potranno vedere solamente gli altri.

        TRENTUNO: Ecco, sì – dopo averla pesata con quella di lui.

        PAPÍA: Parte in causa come me: non puoi giudicare.

        CROCCO: E gli altri sì, possono? pesando? e come pesano? Il peso della mia ra­gione è quello che le do io; e per me è tutto.

        LA SPERA: Già. Ma anche per lui, tutto. E allora?

        CROCCO: E allora, gli altri, o leveranno peso alla mia ragione per darlo a quella di lui, o a quella di lui per darlo alla mia. Ecco la giustizia che faranno!

        LA SPERA: Perché tu dici che la tua ragione è tutto. Non può essere. Se ci fossi tu solo! Tu, tutto; lui, tutto. Ti pare che possa stare? Nessuno di noi può esser tutto, se poi ci sono gli altri. Vedi? ho capito questo io. E ho capito anche, al­lora, che c’è un modo, sì, d’esser tutto per tutti; e sai qual è? quello di non essere più niente per noi. Ecco perché ti dicevo: méttigli una mano sul petto e digli: «Tu vuoi stare qua? e stacci!». – Stringi le mani per prendere, prendi poco, sempre; se le apri per dare e accogli tutti in te, prendi tutto, e la vita di tutti diventa la tua.

        Nella stanza s’è fatta un’ombra strana, violacea, mentre fuori, nel paesaggio infondo, incombe una cupa vampa di crepuscolo, sotto alla quale risalta più che mai, come smaltato, il verde fresco e nuovo dell’isola. Tra il rosso di quella vampa, entro al violaceo di quest’ombra vengono a diffondere un giallo riverbero due rozze lanterne di pescatori sorrette da Filaccione e dal Riccio, che precedono Currao, Tobba e Fillicò. Vengono dietro Bacchi-Bac­chi e Osso-di-Seppia.

        FILACCIONE: Passo al primo Tribunale!

        IL RICCIO: E al Consiglio dei Nuovi Coloni!

        TOBBA: Ma no: senza stare in parata, così alla buona…

        CURRAO (imperioso): No: in parata, anzi, in parata! Ora tu qua non sei più tu come tu: devi essere il Giudice!

        TRENTUNO: E mettetegli allora il tocco e la toga!

        CURRAO: L’avrà, se sapremo diventare ciò che dobbiamo essere!

        QUANTERBA (a Tobba): Oh! è vero che sei andato a parlamentare a terra perché ci lascino qua?

        CURRAO: È vero! è vero! E sentirete ora a quali condizioni!

        QUANTERBA: Siamo già sotto la dipendenza?

        CROCCO (con scherno): La colonia dei liberi coatti!

        TRENTUNO: Chi s’è assunta la responsabilità?

        CURRAO: Silenzio! V’ho detto che sentirete le condizioni! Per ora deve sedere il Tribunale!

        OSSO-DI-SEPPIA: Subito subito, tre sedie e un tavolino! (E si volta con Bacchi-Bacchi per prenderli dalle masserizie ammonticchiate a sinistra.)

        CROCCO (fosco, prevenendoli): Alto là! Nessuno s’attenti a toccare la mia roba!

        PAPÍA: Non importa! Lasciate, lasciate! Prendete di là! (indica a destra) Do io le sedie e il tavolino!

        CROCCO (a La Spera): Ecco, vedi com’è? Tu che dici la Giustizia…

        FILLICÒ: Temi che gliela daremo vinta perché ci avrà dato da sedere?

        CROCCO: No. (A La Spera:) Perché impari a tener conto anche della sorte. (A Osso-di-Seppia e Bacchi-Bacchi:) Potevate voltarvi a prendere le sedie dalla parte di lui (indica Papia:) avrei gridato io allora: «Prendetele qua da me», e dato io da sedere, e non lui. – Ma non c’è bisogno che segga il Tribunale. Ecco. (A La Spera:) Farò com’hai detto. (A Papìa:) Vieni qua.

        PAPÍA (incerto, appressandoglisi): Che vuoi?

        CROCCO: Vieni qua! (Passandogli le mani sul petto.) Vuoi stare qua? Stacci. Ti lascio tutto, e me ne vado.

        CURRAO: Dove te ne vai?

        CROCCO: Dove volete.

        PAPÍA: Mi lasci la terra e la casa?

        CROCCO: E anche la roba là. Tutto.

        FILLICÒ: Non vuoi più niente?

        CROCCO: Niente.

        PAPÍA: Ah, dunque t’arrendi?

        LA SPERA: Ma no! Non hai inteso? T’ha domandato se volevi stare qua e t’ha detto di starci. Lui se ne va. Non vuol niente.

        CROCCO: Sono di chi mi vuole. (A tanta inopinata remissività restano tutti in­certi e sospesi a guardarlo e a guardarsi tra loro. Crocco ha un lieve e amaro sorriso di sdegno e si rivolge a La Spera.) Vedi? Non mi vuole nes­suno.

        TOBBA: Perché nessuno crede che tu dia veramente per non aver nulla.

        CROCCO: Nulla. Come ve lo devo dire? Stabilite dove volete che vada e ci andrò; che cosa volete che faccia e la farò. Pronto a tutto, come saprò, il me­glio possibile. Chi vuole ajuto, glielo presterò. Riparare, accomodare. (A Papia:) Ecco: tirar su quel muro per te. Ó se mi volete alla terra, a zappare; o se mi volete alla pesca. Dovunque.

        CURRAO (avanzandosi e guardandolo fisso): Per arrivare a che cosa?

        CROCCO (sostenendo con viso fermo lo sguardo): Se me lo domandi, vuol dire che lo sai.

        CURRAO (pronto): Lo so. (Poi, con altro tono:) Ti pare facile?

        CROCCO: No. Facile è per te, mantenerti al tuo posto. Che ti costa? Hai lei (in­dica La Spera.) Sei il capo, e comandi.

        CURRAO: Io comando?

        CROCCO: Siamo qua tutti i tuoi servi!

        CURRAO: Chi di voi lo può dire? Sono stato io, finora, il servo di tutti. Il primo a dare, l’ultimo a ricevere.

        TRENTUNO: Quest’è vero!

        ALTRI: È vero! è vero!

        CURRAO: Siamo venuti qua per farci una vita nostra.

        CROCCO: Sì: ognuno la sua, senza sottostare a nessuno.

        CURRAO: E a chi sottostai tu?

        CROCCO: O non volevate far qua, or ora, il tribunale? Io ero venuto per non stare più sotto la legge –

        CURRAO (subito, pronto): – degli altri: sì. Perché tu e quanti siamo qua ce n’e­ravamo messi fuori, di quella legge; e sentivamo che ce ne veniva da fuori il comando, come un sopruso. Ma ora qua non c’è più la legge degli altri. C’è la tua.

        CROCCO: La mia?

        CURRAO: Quella che ti devi fare tu stesso.

        CROCCO: Io non me ne voglio fare nessuna.

        CURRAO: Te la devi fare per forza. Chiamala come vuoi, se non la vuoi chia­mar legge –

        TOBBA (con forza): – ma è legge! –

        CURRAO: – che valga per te e per tutti allo stesso modo: legge tua e nostra, che ce la comandiamo noi stessi, perché l’abbiamo riconosciuta giusta; come la necessità ce l’ha insegnata: del lavoro che dobbiamo fare, tutti, ciascuno il suo, per darci ajuto a vicenda: tu questo, io quello, secondo le forze e la ca­pacità. Non te l’impone nessuno. Tu stesso. Perché possa ricevere, in cambio di quello che dai.

        CROCCO: Non voglio più nulla io: ve l’ho detto.

        TOBBA: E allora vattene, come se n’è andato Burrania, a vivere da solo!

        FILLICÒ: Se vuoi stare con noi, devi volere d’accordo con noi.

        CURRAO: Credi di poter bastare a te stesso?

        CROCCO: Ma mi sai dire che sei tu da più di me?

        CURRAO: Niente, se tu riesci a fare quello che faccio io.

        CROCCO: Io sono più forte di te.

        CURRAO: Questo è ancora da vedere. Ma, ammesso, vorresti vincermi con la forza? Se hai torto, e io sono qua con tutti, e tutti sono con me, che ti vale es­sere più forte? Tutti uniti, ti vinciamo.

        CROCCO: Io dico da solo a solo.

        CURRAO: M’abbatti? Dovrai sempre temere la mia vendetta. Per essere sicuro, uccidermi.

        FILLICÒ: E allora ti vendicheremmo noi, uccidendo lui.

        TOBBA: Perché non possiamo ammettere che la nostra vita sia alla mercé di uno che ce la voglia togliere.

        LA SPERA: Tutto questo è giusto, non lo riconosci?

        CROCCO: No. Perché così è sempre la forza di tutti contro uno solo.

        CURRAO (a La Spera): Lascia che parli io. Io lo so cos’è. E che io ho te. È tutto qui. (A Crocco.) La vorresti tu, è vero? Come? Con la forza?

        CROCCO: Non dico questo.

        CURRAO: E che dici allora? Non hai parlato d’altra ragione fuori di questa, che sei il più forte.

        CROCCO: Io ho detto che per te è facile.

        CURRAO: Sì: perché ho lei, è vero? Ma io che l’ho, guarda che faccio; e dimmi se è facile. Lascio che badi a tutti, anche a te; tenga per tutti acceso il fuoco, anche per te; e curi là quel malato; so che non ripara, poverina, a servir tutti; le voglio bene; potrei pretendere che badasse a me solo.

        CROCCO: E che ne sai tu, se non farei anch’io lo stesso, se fosse mia?

        CURRAO: Tu? La daresti? Se intanto la vuoi togliere a me? Tu vuoi dare per avere. Tu vuoi il premio: lei. – E dice che non vuol nulla! Tutti, tranne La Spera, ridono di Crocco.

        OSSO-DI-SEPPIA (dileggiando): Pigliatela, se sei buono!

        IL RICCIO: Eccola là!

        FILACCIONE: Allunga la mano!

        TRENTUNO: Ci vuole così poco!

        LA SPERA (con altero sdegno): Finitela! Non posso sopportare che lo disprez­ziate!

        CURRAO: Tu lo difendi?

        LA SPERA: Difendo me, perché mi sento disprezzata anch’io, se tu lo vuoi per­suadere così: che io sia un premio da dare al più forte o a chi dà per avermi. Come se io per me stessa non potessi provar piacere a essere qua per tutti, come sono!

        CROCCO: E come se lui – devi dire – non desse anche per avere qualche cosa. (A Currao:) Sì! Tu lasci che lei badi qua a tutti per avere da noi rispetto e considerazione!

        LA SPERA (a Currao): D’un altro modo tu devi persuaderlo: che io posso essere di tutti, soltanto come sono ora, perché sono tua – di uno – di chi voglio io. Mentre com’ero prima di tutti, non ero di nessuno, neanche mia! A questo punto Bacchi-Bacchi che guarda dal fondo verso l’isola, si mette a gridare:

        BACCHI-BACCHI: O oh! Guardate! guardate! Chi corre laggiù! Guardate!

        OSSO-DI-SEPPIA: Burrania! Burrania che ritorna! Burrania!

        TRENTUNO: Sì sì, è lui! è lui!

        QUANTERBA: Corre come un dannato!

        FILLICÒ (a Crocco): Lo vedi? Se n’era andato perché la pensava come te; ec­colo che ritorna dopo nove giorni.

        PAPÍA: Eccolo! eccolo!

        FILACCIONE: Pare impazzito!

        DORÒ (agitando le braccia): Annaspa con le mani! Così! così!

        QUANTERBA, TRENTUNO, OSSO-DI-SEPPIA: Burrania! Burrania! Burrania! Si precipita dal fondo Burrania, sconvolto, sbiancato in viso, con occhi da pazzo.

        BURRANIA: Cala! l’isola! l’isola cala, cala nel mare.

        ALCUNI: – Che? – Ma no! – Come? – Che dici? – Cala? – L’isola? – Nel mare?

        BURRANIA: L’ho vista io! L’ho vista io! Sì. Cala! Cala!

        ALTRI: Ma no! – Che hai visto? – Sei pazzo?

        BURRANIA: L’ho vista calare, vi dico! Ho sentito, sentito, che cala! E un fragore, un fragore grande ho sentito, come se tutto il mare friggesse! Sì! sì!

        CURRAO: Ma dove? ma quando? Nessuno ha udito nulla!

        BURRANIA: Sì! Di là! E ho visto nero! E tremare, tremare tutto! Ma questa luce, guardate! (indica fuori) Questa luce!

        TOBBA: E il fuoco del tramonto!

        BURRANIA: No, no! Venite a vedere; affondiamo nel mare! Si sta ingojando l’i­sola il mare! Alla spiaggia! Alla spiaggia!

        Tutti – tranne La Spera e Crocco – presi dal panico, pur gridando: – Noo! Nooo! – escono all’aperto e s’allontanano verso la spiaggia tra rumori e voci confuse.

        CIMINUDÙ (levandosi, atterrito, e cercando di correre dietro gli altri): Non mi lasciate solo, ah Dio, non mi lasciate qua solo! (Fugge anche lui.)

        LA SPERA: Il mio bambino! il mio bambino!

        CROCCO: Ecco, te lo prendo io!

        LA SPERA: No, lascia! Vado io!

        CROCCO (trattenendola): Ma non senti che non si muove nulla? È il delirio di quel pazzo affamato! Vieni, vieni, sì, prendiamo il bambino! (E fa per intro­dursi con La Spera nella stanza accanto.)

        LA SPERA (subito trattenendosi): No: che vuoi tu?

        CROCCO (afferrandola): Te, voglio, te! Sì –

        LA SPERA (divincolandosi): – lasciami! –

        CROCCO: – devi essere mia! –

        LA SPERA: – lasciami, ti dico! –

        CROCCO: – no! mia! mia! –

        LA SPERA: – piuttosto morta, che tua! Bada che mi metto a gridare! –

        CROCCO: – Non mi scappi, no! A qualunque costo! Vieni! vieni qua dentro!

        LA SPERA: Non voglio! No! Lasciami! Non voglio!

        CROCCO: Ma perché no? Se t’ho avuta! t’ho avuta!

        LA SPERA: Lasciami, sai! Lasciami! Grido!

        Compare dal fondo Dorò che, dopo la prima sorpresa, si scaglia in difesa de La Spera.

        DORÒ: Ah, infame! Lasciala! lasciala!

        CROCCO (lasciando La Spera e rivoltandosi contro Dorò): Tu, cane! sempre tu! Ma ti levo io di mezzo! (Lo afferra alla gola.)

        LA SPERA (lanciandosi per trattenerlo): No! Non lo toccare! Non lo toccare!

        Viene, prossima, da fuori una grande risata tra grida scomposte, di beffa.

        Crocco lascia Dorò, freddato da queste grida nel suo furore; resta un attimo perplesso; poi guarda Dorò e La Spera e grida minaccioso:

        CROCCO: Aspettatemi! Aspettatemi! Mi rivedrete! (Scompare dal fondo.)

        LA SPERA (a Dorò, materna): Che t’ha fatto? che t’ha fatto?

        DORÒ: Nulla, nulla! Voglio vedere dove se ne scappa!

        LA SPERA (trattenendolo): No, sta’ qua; e non dir nulla, bada! (Si ricompone.)

        DORÒ: Pezzo da galera! Con la violenza! Quando si nasce cattivi!

        LA SPERA: Non si nasce cattivi, Dorò! È che non trova – si sforza e non trova più il modo d’esser buono con nessuno! E nessuno l’ajuta a farglielo trovare!

        (Piange. )

        DORÒ: Ma anche con te… non hai visto? – (Sorpreso:) Tu piangi?

        LA SPERA (asciugandosi gli occhi con le mani): Non hanno saputo parlargli…

        Rientrano, ancora ridendo e beffeggiando Burrania, Filaccione, Bacchi-Bacchi, Osso-di-Seppia, Quanterba, Currao, Tobba, Fillicò e il Riccio che so­stiene Ciminudù: tutti, insomma, tranne Trentuno.

        FILACCIONE: È la fame! è la fame!

        BACCHI-BACCHI: Tutta pazzia che gli era entrata nel capo!

        OSSO-DI-SEPPIA (sghignazzando): La vedeva calare! la vedeva calare!

        QUANTERBA: E di’, di’: anche la Luna calava?

        CURRAO (a La Spera): Dagli, dagli un po’ da mangiare!

        FILLICÒ: E stai qua con noi, che ti passerà tutto!

        TOBBA: L’isola non affonderà, finché ci staremo senza peccare.

        PAPÍA: Qua, allora, è stabilito oh: questa casa e la terra restano a me?

        CURRAO (guardandosi attorno): E dov’è Crocco?

        FILLICÒ: Era qua! Fuori, con noi, non è venuto.

        LA SPERA: Se n’è andato.

        QUANTERBA: Sì, l’ho visto io, che correva verso la spiaggia.

        LA SPERA: Non l’avete voluto; se n’è andato. Potevate approfittare del suo primo atto di remissione.

        CURRAO: Ma non hai capito perché lo faceva?

        FILLICÒ: L’abbiamo capito tutti così bene!

        LA SPERA: Per me, lo faceva. (A Currao:) Avresti dovuto dirgli –

        CURRAO (subito, seccato): – sì, va bene, quel che gli dicesti tu!

        LA SPERA: Lo lasciasti dire a me; e allora gli parve – com’era vero – ch’io lo dicessi, non più per lui, ma contro di te; e appena siete andati via tutti –

        CURRAO: – che ha fatto? –

        DORÒ: – niente! sono accorso io, a tempo! –

        CURRAO: – t’ha aggredito? Ah, perdio, dov’è?

        LA SPERA: Lascia!  È scappato.

        CURRAO: Tu séguiti a difenderlo?

        LA SPERA: No: a difendermi, se tu sei così. Anche da te – come mi sono difesa da lui. Non temere.

        QUANTERBA: Torna uno e se ne scappa un altro! Oh quest’è bella!

        FILACCIONE: Tornerà anche lui, state sicuri. Soli non si può stare.

        CURRAO: E ancora qua c’è tanto da fare! Siamo al primo principio; tutto di­pende da noi; pensate, pensate quant’è bello questo: che la nostra vita qua ce la facciamo noi, con niente, con quello che c’è; la facciamo sorgere noi, di pianta; e sarà, come saremo capaci di farcela. La terra è già tutta verde!

        BACCHI-BACCHI (con ironia non maligna): Sì sì, e l’aria è buona…

        PAPÍA: Senza vino –

        OSSO-DI-SEPPIA: – senza femmine –

        QUANTERBA: – alzarsi per tempo e andare a dormire all’ora delle galline –

        FILACCIONE: – quanto a salute, ne avremo da vendere!

        TOBBA: Ma non pensate a nulla! Cercate di fare! Date ascolto a me, che non ho pensato mai. – C’è la terra da zappare? zappate; da seminare? seminate; get­tare, tirare la rete? gettate, tirate! Fare, fare. Fare per fare, senza vedere nep­pure quello che fate, perché lo fate. E la giornata è passata (posando le mani sul petto a Quanterba) e non te ne sei accorto nemmeno. Stanco, ti butti a dormire; guardi le stelle e ti pare che dal cielo ti ridano, come se fossi un bambino.

        OSSO-DI-SEPPIA (con un rammarico che faccia ridere): Sì, ma un bicchiere di vino, per Cristo!

        BACCHI-BACCHI (c.s.): E quando una donna ti guarda…

        CURRAO: Ripianteremo le viti, appena si potrà! E sta a noi che qua ognuno possa anche avere la sua donna.

        Ciminudù, che sta un po’ dietro, a questo punto, si sente mancare; sbiancato in viso’come un cadavere, si piega sui ginocchi; sta per cadere; è sorretto.

        BURRANIA (sorreggendolo): Ciminudù! Ciminudù!

        IL RICCIO (sorreggendolo anche lui): Oh Dio, casca!

        ALCUNI (voltandosi): – Che è? che è? – Ciminudù? – Si sente male?

        LA SPERA (accorrendo): Subito adagiamolo – sostenetelo! – adagiamolo, ada­giamolo qua!

        DORÒ: Dio, come è pallido!

        ALTRI (sgomenti, a bassa voce): È morto! È morto!

        LA SPERA: No, no – il polso gli batte ancora –

        QUANTERBA (toccandogli la fronte): – è già freddo! –

        LA SPERA: Dorò, là (indica la sua stanza) – pezze – pezze calde – di lana – sul cuore – corri – il mio scialletto, il mio scialletto; è sul bambino.

        Dorò via di corsa. E intanto da fuori la voce di Trentuno.

        LA VOCE DI TRENTUNO: Oh oh! Ajuto! Ajuto! Correte! correte!

        ALCUNI: – Che cos’è? – Un’altra, adesso! – Trentuno? – Grida ajuto!

        LA SPERA: Zitti! Zitti!

        LA VOCE DI TRENTUNO (più vicina, affannata): La barca! La barca! Correte! Ajuto! ajuto!

        ALTRI: – La barca? – Ma che grida? –

        Agitazione in tutti.

        LA SPERA: Zitti! Questo poverino muore!

        TRENTUNO (sopravvenendo, sconvolto): Crocco ha staccato la barca! Ce l’ha rubata! Se n’è fuggito! Siamo perduti!

        CURRAO (accorrendo verso il fondo con altri): La barca?

        ALCUNI: Ah ladro infame! – Assassino! – E come si fa, ora? – Tagliati fuori!

        TRENTUNO: Eccolo là, guardate! Si vede là! dove batte la Luna!

        ALTRI: Sì, sì! – Eccolo là! – Issa la vela! – La vela nuova!

        PAPÍA: S’è vendicato!

        QUANTERBA: Non potremo più andare a terra!

        FILLICÒ: Non si doveva portarlo con noi! Tante volte l’ho detto!

        ALCUNI: Come si fa? – Come si fa? – Tagliati fuori!

        OSSO-DI-SEPPIA: Ora è il bello! Ora è il bello!

        CURRAO (ritornando con Trentuno verso Tobba che sta presso Ciminudù e non s’è mosso): La barca, senti, Tobba? la tua barca!

        TRENTUNO (vedendo ora Ciminudù per terra, e restando): Ma che cos’è? Oh! È morto?

        LA SPERA (china sul moribondo): No, no… (A Dorò che sopravviene con lo scialletto involto:) Da’ qua, da’ qua, subito, ecco, così, sul cuore… Scostatevi un poco, per carità…

        TRENTUNO (scostandosi con gli altri): Pare morto… Così, tutt’a un tratto… Ma com’è stato?

        QUANTERBA: Era corso fuori anche lui; ritornato, stava a sentire; gli si sono piegate le ginocchia.

        FILLICÒ: Quell’infame là! (Indica fuori, alludendo a Crocco.)

        TOBBA: Lasciatelo perdere!

        CURRAO: Ma come faremo senza più barca?

        TOBBA: Come? Ne faremo senza.

        FILLICÒ: Per te è tutto facile! Non si potrà più andare nemmeno a pescare!

        TOBBA: Si potrà, si potrà.

        QUANTERBA: Sì, e come?

        TOBBA (accennando al moribondo, perché tutti parlino piano): C’è funi, le­gname: faremo zàttere.

        FILLICÒ: Ma per le provviste? Qua non s’accostano navi!

        TOBBA: Provviste ancora ce n’è. Il pane non mancherà.

        CURRAO: Ma sì; forse meglio così: l’ajuto – solo dalle nostre braccia.

        TOBBA: E da Dio.

        LA SPERA (dopo un silenzio, alzando il capo a guardarli, dirà piano): È morto. Tutti si chineranno a guardare, scoprendosi; qualcuno s’inginocchierà.

Tela

1928 – La nuova colonia – Mito con Prologo e tre atti
Premessa
Personaggi, Prologo
Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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