Legge Giuseppe Tizza.
«La casa era a terreno e prendeva luce soltanto dalla porta. Tutta quella folla di curiosi, assiepata lì davanti, addensava l’ombra già cupa e toglieva il respiro. Ma né padron Nino Mo, né la moglie gravida avevano fiato di ribellarsi.»
Prime pubblicazioni: Rassegna contemporanea, novembre 1910, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912
La morta e la viva
Voce di Giuseppe Tizza
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La tartana, che padron Nino Mo dal nome della prima moglie aveva chiamata «Filippa», entrava nel piccolo molo di Porto Empedocle tra il fiammeggiar d’uno di quei magnifici tramonti del Mediterraneo che fanno tremolare e palpitare l’infinita distesa delle acque come in un delirio di luci e di colori. Razzano i vetri delle case variopinte; brilla la marna dell’altipiano a cui il grosso borgo è addossato; risplende come oro lo zolfo accatastato su la lunga spiaggia; e solo contrasta l’ombra dell’antico castello a mare, quadrato e fosco, in capo al molo.
Virando per imboccare la via tra le due scogliere che, quasi braccia protettrici, chiudono in mezzo il piccolo Molo Vecchio, sede della capitaneria, la ciurma s’era accorta che tutta la banchina, dal castello alla bianca torretta del faro, era gremita di popolo, che gridava e agitava in aria berretti e fazzoletti.
Né padron Nino né alcuno della ciurma poteva mai supporre che tutto quel popolo fosse adunato lì per l’arrivo della «Filippa», quantunque proprio a loro paressero rivolti le grida e quel continuo furioso sventolio di fazzoletti e di berretti. Supposero che qualche flottiglia di torpediniere si fosse ormeggiata nel piccolo molo e che ora stesse per levar le ancore salutata festosamente dalla popolazione, per cui era una gran novità la vista d’una regia nave da guerra.
Padron Nino Mo per prudenza diede ordine s’allentasse subito la vela, si calasse anzi addirittura, in attesa della barca che doveva rimorchiare la «Filippa» all’ormeggio nel molo.
Calata la vela, mentre la tartana non più spinta seguitava a filare lentamente, rompendo appena le acque che, lì chiuse entro le due scogliere, parevano d’un lago di madreperla, i tre mozzi, incuriositi, s’arrampicarono come scojattoli uno alle sartie, uno all’albero fino al calcese, uno all’antenna.
Ed ecco, à gran furia di remi, la barca che doveva rimorchiarli, seguita da tant’altri calchi neri, che per poco non affondavano dalla troppa gente che vi era salita e che vi stava in piedi, gridando e accennando scompostamente con le braccia.
Dunque proprio per loro? tanto popolo? tutto quel fermento? e perché? Forse una falsa notizia di naufragio?
E la ciurma si tendeva dalla prua, curiosa, ansiosa verso quelle barche accorrenti, per cogliere il senso di quelle grida. Ma distintamente si coglieva soltanto il nome della tartana:
– «Filippa! Filippa!».
Padron Nino Mo se ne stava in disparte, lui solo senza curiosità, col berretto di pelo calcato fin su gli occhi, dei quali teneva sempre chiuso il manco. Quando lo apriva, era strabo. A un certo punto si tolse di bocca la pipetta di radica, sputò e, passandosi il dorso della mano sugl’ispidi peli dei baffetti di rame e della rada barbetta a punta, si voltò brusco al mozzo che s’era arrampicato sulle sartie, gli gridò che scendesse e andasse a poppa a sonare la campanella dell’«Angelus».
Aveva navigato tutta la vita, profondamente compreso dell’infinita potenza di Dio, da rispettare sempre, in tutte le vicende, con imperturbabile rassegnazione; e non poteva soffrire lo schiamazzo degli uomini.
Al suono della campanella di bordo si tolse la berretta e scoprì la pelle bianchissima del cranio velata d’una peluria rossigna vaporosa, quasi di un’ombra di capelli. Si segnò e stava per mettersi a recitare la preghiera, allorché la ciurma gli si precipitò addosso con visi furia risa gridi da matti:
– Zi’ Ni! Zi’ Ni! la gnà Filippa! vostra moglie! la gnà Filippa! viva! è tornata!
Padron Nino restò dapprima come perduto tra quelli che così lo assaltavano e cercò, spaventato, negli occhi degli altri quasi l’assicurazione che poteva credere a quella notizia senza impazzire. Il volto gli si scompose passando in un attimo dallo stupore all’incredulità, dall’angoscia rabbiosa alla gioja. Poi, feroce, quasi di fronte a una sopraffazione, scostò tutti, ne abbrancò uno per il petto e lo squassò con violenza, gridando: – Che dite? che dite? –. E con le braccia levate, quasi volesse parare una minaccia, s’avventò alla prua verso quelli delle barche che lo accolsero con un turbine di grida e pressanti inviti delle braccia; si trasse indietro, non reggendo alla conferma della nuova (o alla voglia di precipitarsi giù?) e si volse di nuovo verso la ciurma come per chiedere soccorso o essere trattenuto. Viva? come, viva? tornata? da dove? quando? Non potendo parlare, indicava la paratia, che ne tirassero subito l’alzaja, sì sì; e come il canapo fu preso a calare per il rimorchio, gridò: – Reggete! – lo afferrò con le due mani, scavalcò, e come una scimmia a forza di braccia scese lungo l’alzaja, si buttò tra i rimorchiatori che lo aspettavano con le braccia protese.
La ciurma della tartana restò delusa, in orgasmo, vedendo allontanare la barca con padron Nino e, per non perdere lo spettacolo, cominciò a gridare come indemoniata a quelli dell’altre barchette accorse, perché raccogliessero il canapo e rimorchiassero loro almeno la tartana al molo. Nessuno si voltò a dar retta a quelle grida. Tutti i calchi arrancarono dietro la barca del rimorchio, ove in gran confusione padron Nino Mo veniva intanto ragguagliato su quel miracoloso ritorno della moglie rediviva, che tre anni addietro, nel recarsi a Tunisi a visitare la madre moribonda, tutti ritenevano fosse perita nel naufragio del vaporetto insieme con gli altri passeggeri; – e invece, no, no, non era perita – un giorno e una notte era stata in acqua – affidata a una tavola – poi salvata, raccolta da un piroscafo russo che si recava in America – ma pazza – dal terrore – e due anni e otto mesi era stata pazza in America – a New York, in un manicomio – poi guarita aveva ottenuto il rimpatrio dal Consolato, e da tre giorni era in paese, arrivata da Genova.
Padron Nino Mo, a queste notizie che gli grandinavano da tutte le parti, stordito, batteva di continuo le palpebre su i piccoli occhi strabi; a tratti la palpebra manca gli restava chiusa, come tirata; e tutto il volto gli fremeva, convulso, quasi pinzato da spilli.
Il grido di uno dei calchi e le risa sguajate da cui questo grido fu accolto: – «Due mogli, zi’ Ni, allegramente!» – lo riscossero dallo sbalordimento e gli fecero guardare con rabbioso dispetto tutti quegli uomini, vermucci di terra ch’egli ogni volta vedeva sparire come niente, appena s’allontanava un po’ dalle coste nelle immensità del mare e del cielo: eccoli là, accorsi in folla al suo arrivo, assiepati là, impazienti e vociferanti nel molo, per godersi lo spettacolo d’un uomo che veniva a trovare a terra due mogli; spettacolo tanto più da ridere per essi, quanto più grave e doloroso era per lui l’impaccio. Perché quelle due mogli erano tra loro sorelle, due sorelle inseparabili, anzi tra loro quasi madre e figlia, avendo sempre la maggiore, Filippa, fatto da madre a Rosa, che anche lui, sposando, aveva dovuto accogliere in casa come una figliola; finché, scomparsa Filippa, dovendo seguitare a vivere insieme con lei e considerando che nessun’altra donna avrebbe potuto far meglio da madre al piccino che quella gli aveva lasciato ancor quasi in fasce, l’aveva sposata, onestamente. E ora? e ora? Filippa era venuta a trovare Rosa maritata con lui e incinta, incinta da quattro mesi! Ah, sì, c’era da ridere veramente: un uomo, così, tra due mogli, tra due sorelle, tra due madri. Eccole, eccole là su la banchina! ecco Filippa! eccola là! viva! con un braccio gli fa cenni, come per dargli coraggio; con l’altro, si regge sul petto Rosa, la povera incinta che trema tutta e piange e si strugge dalla pena e dalla vergogna, tra gli urli, le risa, i battimani, lo sventolio dei berretti di tutta quella folla in attesa.
Padron Nino Mo si scrollò tutto, rabbiosamente; desiderò che la barca sprofondasse e gli sparisse dagli occhi quello spettacolo crudele; pensò per un momento di saltare addosso ai rematori e costringerli a remare indietro, per ritornare alla tartana, per fuggirsene via lontano, lontano, per sempre; ma sentì in pari tempo di non poter ribellarsi a quella violenza orrenda che lo trascinava, degli uomini e del caso; avvertì come uno scoppio interno, un intronamento, per cui le orecchie presero a rombargli e gli s’offuscò la vista. Si ritrovò, poco dopo, tra le braccia sul petto della moglie rediviva, che lo superava di tutta la testa, donnone ossuto, dalla faccia nera e fiera, maschile nei gesti, nella voce, nel passo. Ma quand’essa, scioltolo dall’abbraccio, lì, davanti a tutto il popolo acclamante, lo spinse ad abbracciare anche Rosa, quella poveretta che apriva come due laghi di lagrime i grandi occhi chiari nel viso diafano, egli, alla vista di tanto squallore, di tanta disperazione, di tanta vergogna, si ribellò, si chinò con un singhiozzo nella gola a tòrsi in braccio il bambino di tre anni e s’avviò di furia, gridando:
– A casa! A casa!
Le due donne lo seguirono, e tutto il popolo si mosse dietro, avanti, intorno, schiamazzando. Filippa con un braccio su le spalle di Rosa, la teneva come sotto l’ala, la sorreggeva, la proteggeva, e si voltava a tener testa ai lazzi, ai motteggi, ai commenti della folla, e di tratto in tratto si chinava verso la sorella e le gridava:
– Non piangere, scioccona! Il pianto ti fa male! Su, su, dritta, buona! Che piangi? Se Dio ha voluto così… C’è rimedio a tutto! Su, zitta! A tutto, a tutto c’è rimedio! Dio ci ajuterà…
Lo gridava anche alla folla, e soggiungeva, rivolta a questo e a quello:
– Non abbiate paura! né scandalo, né guerra, né invidia, né gelosia! Quello che Dio vorrà! Siamo gente di Dio.
Giunti al Castello, che già le fiamme del crepuscolo s’erano offuscate e il cielo, prima di porpora, era divenuto quasi fumolento, molti della folla si sbandarono, imboccarono la larga strada del borgo già coi fanali accesi; ma i più vollero accompagnarli fino a casa, dietro al Castello, alle «Balate», dove quella strada svolta e s’allunga ancora con poche casupole di marinai su un’altra insenatura di spiaggia morta. Qua tutti s’arrestarono davanti all’uscio di padron Nino Mo ad aspettare che cosa quei tre, ora, decidessero di fare. Quasi fosse un problema, quello, da risolvere così, su due piedi!
La casa era a terreno e prendeva luce soltanto dalla porta. Tutta quella folla di curiosi, assiepata lì davanti, addensava l’ombra già cupa e toglieva il respiro. Ma né padron Nino Mo, né la moglie gravida avevano fiato di ribellarsi: l’oppressione di quella folla era per essi l’oppressione stessa delle anime loro, lì presente e tangibile; e non pensavano che, almeno quella, si potesse rimuovere. Ci pensò Filippa, dopo avere acceso il lume sulla tavola già apparecchiata in mezzo alla stanza per la cena: si fece alla porta, gridò:
– Signori miei, ancora? che volete? Avete veduto, avete riso; non vi basta? Lasciateci pensare adesso agli affari nostri! Casa, ne avete?
Così investita, la gente si ritrasse parte di qua, parte di là dalla porta, lanciando gli ultimi lazzi; ma pur molti rimasero a spiare da lontano, nell’ombra della spiaggia.
La curiosità era tanto più viva, in quanto che a tutti eran noti l’onestà fino allo scrupolo, il timore di Dio, gli esemplari costumi di padron Nino Mo e di quelle due sorelle.
Ed ecco, ne davano una prova quella sera stessa, lasciando aperta per tutta la notte la porta della loro casupola. Nell’ombra di quella triste spiaggia morta, che protendeva qua e là nell’acqua stracca, crassa, quasi oleosa, certi gruppi di scogli neri, corrosi dalle maree, certi lastroni viscidi, algosi, ritti, abbattuti, tra cui qualche rara ondata si cacciava sbattendo, rimbalzando e subito s’ingorgava con profondi risucchi, per tutta la notte da quella porta si projettò il giallo riverbero del lume. E quelli che s’attardarono a spiare dall’ombra, passando ora l’uno ora l’altro davanti alla porta e gettando un rapido sguardo obliquo nell’interno della casupola, poterono veder dapprima i tre, seduti a tavola col piccino, a cenare; poi, le due donne, inginocchiate a terra, curve su le seggiole, e padron Nino, seduto, con la fronte su un pugno appoggiato a uno spigolo della tavola già sparecchiata, intenti a recitare il rosario; in fine, il piccino solo, il figlio della prima moglie, coricato sul letto matrimoniale in fondo alla camera, e la seconda moglie, la gravida, seduta a pie del letto, vestita, col capo appoggiato alle materasse, con gli occhi chiusi; mentre gli altri due, padron Nino e la gnà Filippa, conversavano tra loro a bassa voce, pacatamente, ai due capi della tavola; finché non vennero a sedere su l’uscio, a seguitare la conversazione in un mormorio sommesso, a cui pareva rispondesse il lento elieve sciabordio delle acque sulla spiaggia, sotto le stelle, nel bujo della notte già alta.
Il giorno appresso, padron Nino e la gnà Filippa, senza dar confidenza a nessuno, andarono in cerca d’una cameretta d’affitto; la trovarono quasi in capo al paese, nella via che conduce al cimitero, aereo su l’altipiano, con la campagna dietro e il mare davanti. Vi fecero trasportare un lettuccio, un tavolino, due seggiole, e quando fu la sera vi accompagnarono Rosa, la seconda moglie, col piccino; le fecero chiudere subito la porta, e tutt’e due insieme, taciturni, se ne ritornarono alla casa delle « Balate».
Si levò allora per tutto il paese un coro di commiserazioni per quella poveretta così sacrificata, messa così da parte, senz’altro, buttata fuori, sola, in quello stato! ma pensate, in quello stato! con che cuore? e che colpa aveva, la poveretta? Sì, così voleva la legge… ma che legge era quella? Legge turca! No, no, perdio, non era giusto! non era giusto!
E tanti e tanti il giorno appresso, risoluti, cercarono di far comprendere quell’acerba disapprovazione di tutto il paese a padron Nino uscito, più che mai cupo, a badare al nuovo carico della tartana per la prossima partenza.
Ma padron Nino, senza fermarsi, senza voltarsi, con la berretta a barca di pelo calcata fin su gli occhi, uno chiuso e l’altro no, e la pipetta di radica tra i denti, troncò in bocca a tutti domande e recriminazioni, scattando:
– Lasciatemi stare! Affari miei!
Né maggiore soddisfazione volle dare a coloro che egli chiamava «principali», commercianti, magazzinieri, sensali di noleggio. Soltanto, con questi, fu meno ispido e reciso.
– Ognuno con la sua coscienza, signore, – rispose. – Cose di famiglia, non c’entra nessuno. Dio solo, e basta.
E due giorni dopo, rimbarcandosi, neanche alla ciurma della sua tartana volle dir nulla.
Durante la sua assenza dal paese, però, le due sorelle tornarono insieme nella casa delle «Balate», e insieme, quiete, rassegnate e amorose, attesero alle faccende domestiche e al bambino. Alle vicine, a tutti i curiosi che venivano a interrogarle, per tutta risposta aprivano le braccia, alzavano gli occhi al cielo e con un mesto sorriso rispondevano:
– Come vuole Dio, comare.
– Come vuole Dio, compare.
Insieme tutt’e due, col piccino per mano, quando fu il giorno dell’arrivo della tartana, si recarono al molo. Questa volta, su la banchina, c’erano pochi curiosi. Padron Nino, saltando a terra, porse la mano all’una e all’altra, silenzioso, si chinò a baciare il bambino, se lo tolse in braccio e s’avviò avanti come l’altra volta, seguito dalle due donne. Se non che, giunti davanti alla porta, questa volta, nella casa delle «Balate» rimase con padron Nino Rosa, la seconda moglie; e Filippa col piccino se n’andò quietamente alla cameretta sulla via del cimitero.
E allora tutto il paese, che prima aveva tanto commiserato il sacrifizio della seconda moglie, vedendo ora che non c’era sacrifizio per nessuna delle due, s’indignò, s’irritò fieramente della pacata e semplice ragionevolezza di quella soluzione; e molti gridarono allo scandalo. Veramente, dapprima, tutti rimasero come storditi, poi scoppiarono in una gran risata. L’irritazione, l’indignazione sorsero dopo, e proprio perché tutti in fondo si videro costretti a riconoscere che, non essendoci stato inganno né colpa da nessuna parte, né da pretendere perciò la condanna o il sacrifizio dell’una o dell’altra moglie – mogli tutt’e due davanti a Dio e davanti alla legge – la risoluzione di quei tre poveretti fosse la migliore che si potesse prendere. Irritò sopratutto la pace-, l’accordo, la rassegnazione delle due sorelle divote, senz’ombra d’invidia né di gelosia tra loro. Comprendevano che Rosa, la sorella minore, non poteva aver gelosia dell’altra, a cui doveva tutto, a cui – senza volerlo, è vero – aveva preso il marito. Gelosia tutt’al più avrebbe potuto aver Filippa di lei; ma no, comprendevano che neanche Filippa poteva averne, sapendo che Rosa aveva agito senz’inganno e non aveva colpa. E dunque? C’era poi per tutt’e due la santità del matrimonio, inviolabile; la devozione per l’uomo che lavorava, per il padre. Egli era sempre in viaggio; sbarcava per due o tre giorni soltanto al mese; ebbene, poiché Dio aveva permesso il ritorno dell’una, poiché Dio aveva voluto così, una alla volta, in pace e senz’invidia, avrebbero atteso al loro uomo, che ritornava stanco dal mare.
Tutte buone ragioni, sì, e oneste e quiete; ma appunto perché così buone e quiete e oneste, irritarono.
E padron Nino Mo, il giorno dopo il suo secondo arrivo, fu chiamato dal pretore per sentirsi ammonire severamente che la bigamia non era permessa dalla legge.
Aveva parlato poco prima con un forense, padron Nino Mo, e si presentò al pretore al solito suo, serio placido e duro; gli rispose che, nel suo caso, non si poteva parlare di bigamia perché la prima moglie figurava ancora in atti e avrebbe seguitato a figurare sempre come morta, sicché dunque davanti alla legge egli non aveva che una sola moglie, la seconda.
– Sopra la legge degli uomini, poi, – concluse, – signor pretore, c’è quella di Dio, a cui mi sono sempre attenuto, obbediente.
L’imbroglio avvenne all’ufficio dello stato civile, ove d’allora in poi, puntuale, ogni cinque mesi, padron Nino Mo si recò a denunziare la nascita d’un figliuolo. – «Questo è della morta.» – «Questo è della viva.»
La prima volta, alla denunzia del figliuolo, di cui la seconda moglie era incinta all’arrivo di Filippa, non essendosi questa rifatta viva davanti alla legge, tutto andò liscio, e il figliuolo potè regolarmente essere registrato come legittimo. Ma come registrare il secondo, di lì a cinque mesi, nato da Filippa che figurava ancora come morta? O illegittimo il primo, nato dal matrimonio putativo, o illegittimo il secondo. Non c’era via di mezzo.
Padron Nino Mo si portò una mano alla nuca e si fece saltar sul naso la berretta; prese a grattarsi la testa; poi disse all’ufficiale di stato civile:
– E… scusi, non potrebbe registrarlo come legittimo, della seconda? L’ufficiale sgranò tanto d’occhi:
– Ma come? Della seconda? Se cinque mesi fa…
– Ha ragione, ha ragione, – troncò padron Nino, tornando a grattarsi la testa. – Come si rimedia allora?
– Come si rimedia? – sbuffò l’ufficiale. – Lo domandate a me, come si rimedia? Ma voi che siete, sultano? pascià? bey? che siete? Dovreste aver giudizio, perdio, e non venire a imbrogliarmi le carte, qua!
Padron Nino Mo si trasse un po’ indietro e s’appuntò gl’indici delle due mani sul petto:
– Io? – esclamò. – E che ci ho da fare io, se Dio permette così? Sentendo nominar Dio, l’ufficiale montò su tutte le furie.
– Dio… Dio… Dio… sempre Dio! Uno muore; è Dio! Non muore; è Dio! Nasce un figlio; è Dio! State con due mogli; è Dio! e finitela con questo Dio! Che il diavolo vi porti, venite a ogni nove mesi almeno; salvate la decenza, gabbate la legge; e ve li schiaffo tutti qua legittimi uno dopo l’altro!
Padron Nino Mo ascoltò impassibile la sfuriata. Poi disse:
– Non dipende da me. Lei faccia come crede. Io ho fatto l’obbligo Mio. Bacio le mani.
E tornò puntuale, ogni cinque mesi, a fare l’obbligo suo, sicurissimo che Dio gli comandava così.
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