1910 – La morsa – Epilogo in un atto

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L’atto unico è comunemente classificato nell’ambito della commedia borghese o collocato nel filone teatrale verista dì fine Ottocento. Ma va rilevato che tutto pirandelliano è il pregio del puntuale sviluppo psicologico dei personaggi, e pirandelliana è la monde che se ne deduce: al di là delle leggi sociali, Giulia, l’adultera, è intimamente più buona e umana dell’uomo che ha tradito.

FONTE nel 1897 uscirà una novella dal titolo «La paura» sullo stesso soggetto
STESURA novembre 1892 – Titolo originario: L’epilogo (“scene drammatiche”)
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 9 dicembre 1910 – Roma, Teatro Metastasio, Compagnia del «Teatro minimo» diretta da Nino Martoglio

Approfondimenti nel sito:
Sezione Novelle – La paura
Sezione Tematiche – Arnaldo Bruni – Modelli e interferenze nell‘esordio di Pirandello drammaturgo: «La morsa»
Sezione Video – La morsa – 1952. Amedeo Nazzari
Sezione Video – La morsa – 1970. Sergio Fantoni, Lea Massari, Silvano Tranquilli

««« Elenco delle opere in versione integrale
««« Introduzione al Teatro di Pirandello.

La morsa
Sergio Fantoni, Lea Massari. La morsa, 1970. Fotogramma RAI.

Premessa

È un atto unico. Se ne fa risalire la stesura al 1892; nel 1897 uscì una novella, La paura, sullo stesso soggetto.

        Col titolo La morsa, «epilogo in un atto», è presente nel XX volume di Maschere nude (Milano, 1926), dove comparve con All’uscita, e con gli atti unici Il dovere del medico e L’uomo dal fiore in bocca.

        È la storia di un adulterio il cui pregio principale è l’approfondimento psicologico dei sentimenti in contrasto dei tre protagonisti: l’appassionata e spontanea Giulia, il freddo e vendicativo marito Andrea, il pusillanime amante Antonio. Il timore d’essere stati scoperti turba profondamente Giulia e Antonio, con un crescendo alimentato con spietata consapevolezza dalla volontà di vendetta di Andrea, che stringe gradualmente i due in una morsa implacabile.

        La fredda crudeltà del marito, che non è nemmeno sfiorato dal dubbio di essere in qualche modo responsabile, con il suo comportamento poco affettuoso, del tradimento della moglie; l’incertezza e la viltà dell’amante, dolorosa rivelazione proprio in un momento di così grande difficoltà, rendono umanissima la figura di Giulia, vittima di entrambi.

        Nel dialogo decisivo il marito sembra voler crudelmente giocare con questa sua vittima: dapprima finge di non aver scoperto nulla, poi fa una serie ambigua di allusioni, mettendo a dura prova la resistenza psichica della moglie, in fine, all’improvviso, rivela di sapere tutto e l’aggredisce con espressioni perentorie e sferzanti che non le permettono di rispondere se non frammentariamente, atterrita e travolta com’è da tanta furia sprezzante. Il marito la caccia dì casa e le impedisce persino di vedere i figli prima d’andarsene. Quando lei disperata gli dice: «Uccidimi», Andrea le risponde «scrollando una spalla, con indifferenza»; «Ucciditi!». Giulia entra in una stanza: si sente un colpo dì pistola. Ad Antonio, appena sopraggiunto, che accorre, Andrea dice: «Tu l’hai uccisa». Questi i pochi fatti della trama che vive tutta nell’intensità drammatica dei dialoghi.

        L’atto unico è comunemente classificato nell’ambito della commedia borghese o collocato nel filone teatrale verista dì fine Ottocento. Ma va rilevato che tutto pirandelliano è il pregio del puntuale sviluppo psicologico dei personaggi, e pirandelliana è la monde che se ne deduce: al di là delle leggi sociali, Giulia, l’adultera, è intimamente più buona e umana dell’uomo che ha tradito.

La morsa
Epilogo in un atto – 1910

Personaggi

Andrea Fabbri
La signora Giulia
L’avvocato Antonio Serra
Anna, domestica

In un paese di provincia. Oggi.

        Una stanza in casa Fabbri. Uscio comune infondo. Uscio laterale a sinistra. Due finestre laterali a destra.

        Poco dopo alzata la tela, Giulia, che sta presso la finestra più infondo, con le spalle al pubblico, a guardar fuori, fa un atto di sorpresa e si ritrae; posa su un tavolinetto il lavoro a uncino che ha in mano e va a chiudere l’uscio a si­nistra, in fretta ma cauta, poi attende presso l’uscio comune.

        Entra Antonio Serra.

        GIULIA (buttandogli le braccia al collo, piano, contenta): Già qui?

        ANTONIO (schermendosi turbato): No, ti prego!

        GIULIA: Non sei solo? Dove hai lasciato Andrea?

        ANTONIO (sopra pensiero): Sono tornato prima: stanotte.

        GIULIA: Perché?

        ANTONIO (irritato della domanda): Con una scusa. Era vero per altro. Dovevo trovarmi qui di mattina, per affari.

        GIULIA: Non me n’hai detto nulla. Potevi avvisarmene.

        ANTONIO (la guarda e non risponde).

        GIULIA: Che è avvenuto?

        ANTONIO (a bassa voce, ma vibrata; quasi con rabbia): Che? Temo che Andrea sospetti di noi.

        GIULIA (restando, con sorpresa piena di spavento): Andrea? Come lo sai? Ti sei tradito?

        ANTONIO: No: tutti e due, se mai!

        GIULIA (c.s.): Qui?

        ANTONIO: Sì. Mentre scendeva… Andrea scendeva davanti a me, ti ricordi? con la valigia. Tu facevi lume dalla porta. E io nel passare… Dio, come s’è scioc­chi talvolta!

        GIULIA (c.s.): Ci ha visti?

        ANTONIO: M’è parso che si sia voltato, scendendo.

        GIULIA: Dio, Dio…, e sei venuto a dirmelo… Così?

        ANTONIO: Tu non ti sei accorta di nulla?

        GIULIA: Io no, di nulla! Ma dov’è Andrea? dov’è?

        ANTONIO: Dimmi: m’ero già messo a scendere, quando lui ti chiamò?

        GIULIA: E mi salutò! Fu dunque nello svoltare dal pianerottolo giù?

        ANTONIO: No, prima, prima.

        GIULIA: Ma se ci avesse visti…

        ANTONIO: Intravisti, se mai. Un attimo!

        GIULIA: E ti ha lasciato venir prima? Possibile? Sei ben sicuro che non è par­tito?

        ANTONIO: Sicurissimo, di questo, sicurissimo. E prima delle undici non c’è altra corsa dalla città. (Guarda l’orologio.) Sta per venire. Intanto in questa incertezza… sospesi così in un abisso… capisci?

        GIULIA: Zitto, zitto, per carità! Calma. Dimmi tutto. Che ha fatto? Voglio saper tutto.

        ANTONIO: Che vuoi che ti dica? In questo stato, le parole più aliene ti pajono allusioni: ogni sguardo, un accenno; ogni tono di voce un…

        GIULIA: Calma… Calma…

        ANTONIO: Sì, calma, calma, trovala! (Breve pausa. Si rimette un po’; quindi:) Qua, ti ricordi? prima di partire, discutevamo io e lui su la maledetta fac­cenda da sbrigare in città. Lui s’accalorava…

        GIULIA: Sì, ebbene?

        ANTONIO: Appena in istrada, Andrea non parlò più, andava a capo chino; lo guardai, era turbato, le ciglia aggrottate… «S’è accorto!» pensai. Tremavo. Ma a un tratto con aria semplice, naturale: «Triste, è vero?» – mi fa – «viag­giare di sera… lasciar di sera la casa…».

        GIULIA: Così?

        ANTONIO: Sì. Gli sembrava triste anche per chi resta. Poi, una frase… (sudai freddo!) «Licenziarsi a lume di candela, su una scala…».

        GIULIA: Ah questo… come lo disse?

        ANTONIO: Con la stessa voce: naturalmente: io non so… Lo faceva apposta! Mi parlò dei bambini che aveva lasciati a letto, addormentati; ma non con quella amorosità semplice che rassicura – e di te.

        GIULIA: Di me?

        ANTONIO: Sì, ma mi guardava.

        GIULIA: Che disse?

        ANTONIO: Che tu ami tanto i tuoi bambini.

        GIULIA: Niente altro?

        ANTONIO: In treno, ripigliò il discorso, sulla lite da trattare. Mi domandò del­l’avvocato Gorri, se lo conoscevo. Ah, volle sapere tra l’altro se era ammo­gliato (rideva): Questo, per esempio, non c’entrava… O ero io che…

        GIULIA (pronta): Zitto!

        ANNA (s’affaccia all’uscio, comune infondo): Scusi, signora. Non debbo an­dare a ripigliare i bambini?

        GIULIA: Sì… Ma aspetta ancora…

        ANNA: Non ritorna oggi il padrone? Le vetture sono già partite per la stazione.

        ANTONIO (guardando l’orologio): Sono già le undici, a momenti.

        GIULIA: Ah sì? Di già? (Ad Anna:) Aspetta ancora un po’… Te lo dirò io.

        ANNA (andando via): Sissignora. Intanto finisco d’apparecchiare. (Via.)

        ANTONIO: Sarà qui tra poco.

        GIULIA: E non sai dirmi nulla… non hai saputo accertarti di nulla…

        ANTONIO: Sì! Sa fingere bene, se veramente ha il sospetto.

        GIULIA: Lui? Lui, così violento?

        ANTONIO: Eppure! Che la mia diffidenza m’abbia reso insensato fino a tal segno? Possibile? Più volte, vedi, attraverso le sue parole, m’è parso di leg­gere qualcosa. Un momento dopo mi dicevo rinfrancandomi: «E la paura!». L’ho studiato, spiato tutti i momenti: come mi guardava, come mi parlava… Sai che non è solito di parlar molto… eppure, in questi tre giorni, avessi in­teso! Spesso però si chiudeva a lungo in un silenzio inquieto, ma ne usciva ogni volta ripigliando il discorso sul suo affare… «Era in pensiero per questo?» allora mi domandavo, «o per ben altro?» «Forse ora parla per dissimularmi il sospetto…» Una volta mi parve finanche che non avesse voluto stringermi la mano… Bada, si accorse che gliela porgevo! Si finse distratto; era un po’ strano veramente, il domani della nostra partenza. Fatti due passi mi richiamò. «S’è pentito!» pensai subito. E infatti disse: «Oh, scusa… Dimenticavo di sa­lutarti… Fa lo stesso!». Mi parlò altre volte di te, della casa, ma senz’alcuna intenzione apparente; così… Mi pareva tuttavia che evitasse di guardarmi in faccia. Spesso ripeteva qualche frase tre, quattro volte, senza senso comune… come se pensasse ad altro… E mentre parlava di cose aliene, a un tratto tro­vava modo d’entrare bruscamente a riparlarmi di te o dei bambini, e mi fa­ceva qualche interrogazione – ad arte? – chi sa! – sperava di sorprendermi? – rideva; ma con una gajezza brutta negli occhi…

        GIULIA: E tu?

        ANTONIO: Oh, io stavo sempre in guardia.

        GIULIA: Si sarà accorto della tua diffidenza!

        ANTONIO: Se sospettava di già!

        GIULIA: Si sarà confermato, nel sospetto. Poi, null’altro?

        ANTONIO: Sì… La prima notte, all’albergo (ha voluto prendere una sola stanza a due letti), eravamo coricati da un pezzo, s’accorse che non dormivo, cioè… s’accorse no: eravamo al bujo! Lo suppose. E bada; figurati, io non mi mo­vevo, lì di notte… nella stessa camera con lui, e col sospetto che egli sapesse… figurati! tenevo gli occhi sbarrati nel bujo, in attesa… chi sa! per difendermi… A un tratto, nel silenzio, sento proferire queste precise parole: «Tu non dormi».

        GIULIA: E tu?

        ANTONIO: Nulla. Non risposi. Finsi di dormire. Poco dopo, egli ripetè: «Tu non dormi». Io allora lo chiamai: «Hai parlato?», gli domandai. E lui: «Sì, volevo sapere se dormissi». Ma non interrogava dicendo: «Tu non dormi», proferiva la frase con certezza ch’io non dormivo, ch’io non potevo dormire, capisci? O almeno, m’è parso così.

        GIULIA: Nient’altro?

        ANTONIO: Nient’altro. Non ho chiuso occhio due notti.

        GIULIA: Poi, con te, sempre lo stesso?

        ANTONIO: Sì. Lo stesso.

        GIULIA: Tutte queste finzioni… lui! Se ci avesse visti…

        ANTONIO: Eppure s’è voltato, scendendo…

        GIULIA: Ma non si sarà accorto di nulla! Possibile?

        ANTONIO: Nel dubbio…

        GIULIA: Anche nel dubbio, tu non lo conosci! Dominarsi così, lui, da non la­sciar trapelar nulla. Che sai tu? Nulla! Ammetto pure che ci abbia visti, men­tre tu passavi e ti chinavi verso me… Se fosse nato in lui il minimo sospetto… che tu mi avessi baciata… ma sarebbe risalito… oh sì!… pensa, come sa­remmo rimasti! No, senti, no: non è possibile! Hai avuto paura, nient’altro! Andrea non ha ragione di sospettare di noi. M’hai trattata sempre familiar­mente davanti a lui.

        ANTONIO: Sì, ma il sospetto può nascere da un momento all’altro. Allora, capi­sci? mille altri fatti avvertiti appena, non tenuti in alcun conto, si colorano improvvisamente, ogni accenno indeterminato diventa una prova, e il dubbio, certezza: ecco il mio timore.

        GIULIA: Bisogna esser cauti…

        ANTONIO: Ora? Te l’ho sempre detto!

        GIULIA: Mi rinfacci adesso?

        ANTONIO: Non rinfaccio nulla. Non te l’ho detto mille volte? Bada… e tu…

        GIULIA: Sì… sì…

        ANTONIO: Non so che gusto ci sia, lasciarsi scoprire così… per nulla… per una imprudenza da nulla… come tre sere fa… Sei stata tu…

        GIULIA: Sempre io, sì…

        ANTONIO: Se non era per te…

        GIULIA: Sì… la paura.

        ANTONIO: Ma ti pare che ci sia da stare allegri, tu e io? tu specialmente! (Pausa. Passeggia per la stanza, poi fermandosi:) La paura! Credi che non pensi anche a te? La paura… Se pensi questo… (Pausa. Si rimette a passeggiare.) Ci fidavamo troppo, ecco! E adesso tutte le nostre imprudenze, tutte le nostre pazzie mi saltano agli occhi, e mi domando come ha fatto a non sospettare di nulla finora! E come no? Amarci qui… sotto gli occhi suoi, si può dire… traendo profitto di tutto, della minima occasione… anche se lui si allontanava un po’; ma anche lui presente, qui, coi gesti, con gli occhi… Pazzi!

        GIULIA (dopo una lunga pausa): Mi rimproveri adesso? E naturale. Ho ingannato un uomo che si fidava di me più che di se stesso… Sì, la colpa è mia, in­fatti, principalmente mia…

        ANTONIO (la guarda, fermandosi, poi rimettendosi a passeggiare, dice brusco): Non ho voluto dir questo.

        GIULIA: Ma sì, ma sì, lo so io! E guarda, puoi anche aggiungere che con lui ero fuggita da casa mia, e che lo spinsi io, quasi, a fuggire, io, perché l’amavo, e poi l’ho tradito con te! E giusto che ora tu mi condanni, giustissimo! (Ve­nendo a lui con febbre:) Ma io, senti, io ero fuggita con lui perché l’amavo, non per trovare qua tutta questa quiete… tutta questa agiatezza in una nuova casa. Avevo la mia; non sarei andata via con lui… Ma lui, si sa, doveva scu­sarsi davanti agli altri della leggerezza commessa, lui: uomo serio, posato… eh già! la follia era fatta, rimediarvi adesso! riparare, e subito! Come? Col darsi tutto al lavoro, col rifarmi una casa ricca, piena d’ozio… Così, ha lavo­rato come un facchino; non ha pensato che a lavorare, sempre, non deside­rando altro da me che la lode per la sua operosità, per la sua onestà… e la mia gratitudine anche! Già, perché sarei potuta capitar peggio. Era un uomo one­sto, lui, mi avrebbe rifatta ricca, lui, come prima, più di prima… A me, que­sto, a me che ogni sera lo aspettavo impaziente, felice del suo ritorno. Tor­nava a casa stanco, affranto, contento della sua giornata di lavoro, già in pen­siero delle fatiche del domani… Ebbene, alla fine, mi sono stancata anch’io di dover quasi trascinare quest’uomo ad amarmi per forza, a rispondere per forza al mio amore… La stima, la fiducia, l’amicizia del marito pajono insulti alla natura in certi momenti… E tu te ne sei approfittato, tu che ora mi rin­facci l’amore e il tradimento, ora che il pericolo è venuto, e hai paura, lo vedo, hai paura! Ma che perdi tu? Nulla! Mentre io… (Si copre il volto con le mani. )

        ANTONIO (dopo breve pausa): Consigli a me la calma… Ma se ho paura… – è per te… per i tuoi figli.

        GIULIA (fiera, pronta con un grido): No, tu non nominarli! (Poi, rompendo in lacrime:) Poveri innocenti!

        ANTONIO: Adesso piangi, me ne vado…

        GIULIA: Eh, ora sì! ora non hai più nulla da fare qua.

        ANTONIO (pronto, grave): Sei ingiusta! T’ho amata, come tu m’hai amato – lo sai! – T’ho consigliato prudenza… Ho fatto male? Più per te che per me. Sì, perché io, nel caso, non perderei nulla – l’hai detto tu. (Breve pausa, poi, pi­giando su le parole:) Non t’ho mai rimproverato, né rinfacciato niente: non ne ho il diritto… (Si passa una mano sugli occhi, poi, cambiando tono di voce e atteggiamento:) Su, su… rimettiti… Andrea non saprà nulla… tu lo credi… e sarà così… Anche a me ora par difficile che si sia potuto dominare fino a tanto. Non si sarà accorto di nulla… E così… Su, su… nulla è finito… Noi sa­remo…

        GIULIA: No, no, non è più possibile! Come vorresti più ormai… No, è meglio, è meglio finirla.

        ANTONIO: Come credi.

        GIULIA: Ecco il tuo amore.

        ANTONIO: Vuoi farmi impazzire?

        GIULIA: No, è meglio veramente finirla, e fin d’ora; qualunque cosa sia per ac­cadere. Tra noi tutto è finito. Senti, e sarebbe anche meglio, che lui sapesse ogni cosa.

        ANTONIO: Sei pazza?

        GIULIA: Meglio, meglio, sì! Che vita è più la mia? Te l’immagini? Non ho più diritto d’amar nessuno, io! Neanche i miei figli! Se mi chino a dar loro un bacio, mi pare che l’ombra della mia colpa macchi le loro fronti immacolate! No… no… Mi torrebbe di mezzo? Lo farei io, se non lo facesse lui.

        ANTONIO: Adesso non ragioni più!

        GIULIA: Davvero! L’ho sempre detto. Il troppo… è troppo… Non mi resta più nulla, ormai! (Facendo forza a se stessa per rimettersi:) Ah! Va’, va’, adesso: che lui non ti trovi qua.

        ANTONIO: Debbo andare? lasciarti? Ero venuto apposta… Non è meglio che io…?

        GIULIA: No, qua non deve trovarti. Torna però, quando lui verrà. E necessario. Torna presto, e, calmo, indifferente, non così… Parlami, davanti a lui, rivol­giti spesso a me. Io ti seconderò.

        ANTONIO! Sì, SÌ.

        GIULIA: Presto. E se mai…

        ANTONIO: Se mai?

        GIULIA: Nulla! Tanto…

        ANTONIO: Che cosa?

        GIULIA: Nulla, nulla… Ti dico addio.

        ANTONIO: Giulia!

        GIULIA: Va’ via!

        ANTONIO: A tra poco! (Antonio, via per la comune.)

        GIULIA (resta in mezzo alla stanza, con gli occhi fissi biecamente in un pen­siero truce; poi alza il capo con un sospiro di stanchezza desolata, e si preme forte le mani su la faccia; ma non riesce a scacciar via il pensiero dominante; va un po’ inquieta per la stanza, si ferma davanti a uno specchio a bilico in fondo, presso l’uscio comune; è distratta dalla sua figura riflessa dallo spec­chio e se ne allontana; allora viene a sedere presso il tavolino – a destra, sul davanti – e vi si piega con la testa nascosta tra le braccia – sta un po’ così, quindi alza il capo e sta a pensare): Non avrebbe risalito la scala? con una scusa… Mi avrebbe trovata lì… dietro la finestra… a guardare. (Pausa.) Se non fu la paura… Ha tanta paura! (Scuote la testa, atteggiando il viso di sprezzo e nausea,  – altra pausa – si alza, va ancora per la stanza, ritorna presso il tavolino, è indecisa, alla fine batte fortemente due volte il campa­nello.)

        ANNA (entra per la comune): Ha sonato?

        GIULIA (ancora in pensiero): Sì, bisogna che tutto sia pronto, mi raccomando, Anna.

        ANNA: È tutto pronto, signora.

        GIULIA (c.s. dopo una pausa): La tavola?

        ANNA: Apparecchiata.

        GIULIA: La camera del signore?

        ANNA: In ordine… tutto…

        GIULIA: Senti. Va’ pei bambini.

        ANNA: Subito! (Fa per andare.)

        GIULIA: Anna!

        ANNA: Comanda altro?

        GIULIA (indecisa; poi, dopo aver pensato un po’): Lasciali stare ancora. Ci an­drai quando il padrone sarà arrivato.

        ANNA: Sarà meglio. Faccia conto che è qui. Anzi, se vuole che scenda giù ad aspettare le carrozze di ritorno dalla stazione, per portar su la valigia…

        GIULIA: No… aspetta, aspetta…

        ANNA: Sono così contenti i bambini, che oggi ritorni il babbo. Ha promesso di portar loro i regali: a Carluccio un cavallino alto così… Ma Ninetto lo vuole lui. Litigavano stamani, andando dalla nonna. «Papà vuole più bene a me che a te!», diceva Carluccio: «Sì, e a me la mamma!», rispondeva Ninetto.

        GIULIA: Caro!

        ANNA: Spiccica appena le parole!

        GIULIA: Va’ a ripigliarli!

        ANNA (ascoltando): Aspetti… le carrozze… (S’affaccia alla finestra.) Tornano le carrozze… Scendo giù al portone?

        GIULIA: Sì… sì… va’…

        ANNA (via).

        GIULIA (in preda a una grande inquietudine va per la stanza, si ferma, tende l’orecchio, si reca presso il tavolino, toglie in mano quasi macchinalmente il lavoro a uncino e dice): Lo saprò subito. (Tende di nuovo l’orecchio, poi si rimette a lavorare febbrilmente, ma quasi senza saperlo, s’arresta a un tratto, ascolta. )

        ANNA (dall’interno): Ecco il padrone! (Entrando con una valigia che deporrà

        su una seggiola presso l’uscio comune:) Il padrone!

        GIULIA (si alza col lavoro in mano ostentando indifferenza, e si avvia verso l’uscio).

        ANDREA (entra).

        GIULIA (tendendogli la mano): T’aspettavo. (Ad Anna:) Va’ per i bambini.

        ANNA (esitando): Il padrone ha detto…

        ANDREA: Sono dalla mamma? Lasciali stare. Voglio disfare prima la valigia. Così troveranno i regalucci.

        GIULIA: Come vuoi.

        ANNA (via).

        ANDREA: Sono così stanco… Ho mal di capo.

        GIULIA: Avrai tenuti aperti gli sportelli in vettura?

        ANDREA: No, tutto chiuso. Ma… il rumore… non ho potuto chiudere occhio.

        GIULIA: Eravate in molti?

        ANDREA: Sì, in molti.

        GIULIA: Il mio guancialetto di piume?

        ANDREA: Oh guarda! Non c’è? L’avrò lasciato in treno! Senza dubbio… Pec­cato! Che vuoi farci? Basta… Sei stata bene? I bambini?

        GIULIA (rimettendosi al lavoro): Bene tutti.

        ANDREA: E… m’aspettavi, hai detto? Te l’avrà detto Serra.

        GIULIA: Sì, è passato di qui poco fa. Tu non m’hai scritto neppure una volta.

        ANDREA: E vero, ma per tre giorni… Serra è tornato jersera…

        GIULIA: Me l’ha detto; verrà a trovarti.

        ANDREA: Ah, verrà? Bene… Hai fatto bene a mandare i bambini dalla mamma. Lei ci tiene. Tu non sei stata da lei?

        GIULIA: No, sai che ci vado solo con te.

        ANDREA: Sì, ma ormai…

        GIULIA (per cambiar discorso): Il tuo affare?

        ANDREA: Serra non te n’ha parlato?

        GIULIA: Sì, m’ha accennato… ma s’è trattenuto così poco…

        ANDREA: Oh, l’affare pare bene avviato… almeno… Però il nostro signor Anto­nio m’ha lasciato in asso, là… Oh… sai! l’avvocato Gorri m’ha parlato di lui, facendone un mondo di elogi! Sì, sì. Ha ingegno, ha ingegno, quel tipo lì… Ha condotto l’affare come meglio non si poteva… Ah, per questo, come me­glio… (S’interrompe e attacca con altro tono:) e se riesce tutto come dico io, come dovrebbe, del resto… indovina che penso? Detto fatto, liquiderei qua ogni cosa, guarda! senza pensarci due volte… pst! e via! Ah, non voglio più grattacapi, niente più lavoro! Fagotto, e via! in città! Che ne dici? Andremo a stabilirci in città. Che ne dici?

        GIULIA: In città?

        ANDREA: Toh, guarda! le dispiace…

        GIULIA: No.

        ANDREA: Ah! In città, in città! Voglio un po’ anch’io far la vita del signore, adesso! Godermela!

        GIULIA: Com’hai presa questa risoluzione?

        ANDREA: Risoluzione ancora no… Se mi riesce… Ma senti, oh! qua non rimarrò di certo. Ah, sono stufo! Dopo quello che m’hanno fatto! E poi, va’ la, anche per te.

        GIULIA: Oh, per me lo sai, dovunque…

        ANDREA: Eh via adesso! Avresti qualche distrazione che la campagna non può darti… Ne hai bisogno anche tu. Non foss’altro, l’aria della città… il rumore. Poi, qua, c’è mia madre, e tu con lei…

        GIULIA: Non sarà per questo, spero, che vuoi andar via.

        ANDREA: No, non dico per questo.

        GIULIA: Sai bene, che è lei, tua madre, che non ha per me…

        ANDREA: Lo so, lo so, e sarebbe infatti anche questa una ragione. Ma ce ne sono altre. (Breve pausa.) Sai, in città ho incontrato due volte i tuoi fratelli e tutt’e due le volte…

        GIULIA: Che hanno fatto?

        ANDREA: A me? Niente! Che vuoi che mi facciano? Vorrei vedere che per giunta… Niente. Ma, al solito, hanno fatto le viste di non conoscermi… Eh, già! (Canterellando:) È inutile! non la mandano giù! – Che superbia! Ma anche la rabbia, adesso. Sì, perché ora io non sono più lo spiantato di una volta, capisci? Così, è mancata loro la soddisfazione di vederti afflitta, pentita d’aver lasciata la loro casa per venire con me… Non la mandano giù! E io, guarda, vado a stabilirmi in città, per loro! Così godranno! Per loro! Anche Serra se ne verrebbe volentieri, credo… Che fa qui?

        GIULIA: I suoi affari…

        ANDREA: Sì. Grandi affari! Si trattano in città… Se qua non c’è nessuno; una mandra di bestie, andando via noi! Oh, a proposito: bisognerà pensare adesso a ricompensarlo. Favori glien’ho fatti, parecchi, ma questo non conta.

        GIULIA: Per lui forse conteranno.

        ANDREA: Nient’affatto! Gli affari sono affari, i favori non c’entrano: si compra l’amicizia! Lo merita, del resto. Se sapessi che ragioni ha saputo trovare a so­stegno delle mie pretese: giuste, per altro! A momenti qua mi negano anche il merito d’aver fatto del bene al paese… Ma se la gratitudine… basta! Non dico di averlo arricchito – e me ne potrei vantare – ma il merito, se non altro, d’a­verlo liberato dalla peste, dalla malaria… Neppure questo?

        GIULIA: Non capiscono.

        ANDREA: Eh già! Quando si tratta di restar grati a qualcuno, non si capisce mai. – M’avevano ceduto una palude, tu lo sai, com’era, lo sai, quando siamo ve­nuti qua, lo ricorderai… scappati dalla città… Non produceva che un po’ di càrice acerba, che finanche le pecore rifiutavano. Vi rischio su tutta la mia sostanza, cioè la tua, a essiccarla, a concimarla, a bonificarla; la rendo il campo più ubertoso della contrada, e va bene! Scade il contratto d’affitto e non solo m’oppugnano le pretese sui benefizii; ma anche l’onore d’aver fatto risorgere il comune… «Vi siete arricchito!» Grazie! Chi s’è cimentato? Per giunta, guarda, dovevamo impoverirci per loro… Eh via! Poi, il danaro era tuo.

        GIULIA: Che vai a pensare adesso?

        ANDREA: No, era tuo. E se mi son fatto ricco, il merito è tuo.

        GIULIA: Io non ho lavorato.

        ANDREA: Ho lavorato io, questo sì, e coraggio ne ho avuto. Passando, in treno, guardavo. – Ammiravano tutti adesso l’opera mia. Allora mi davan del matto. Una palude! Sì, per voi. Per me, la California! Era stata la mia idea fissa fin da quando ero ragazzo. Pensare che prima qua si moriva come le mosche di malaria. C’era giusto il vecchio Mantegna, con noi, in vettura, lo conosci? Gli sono morte due figlie. Lo raccontava, piangendo. Anche la moglie gli morì di malaria.

        GIULIA (sempre lavorando): Non stava più con lui.

        ANDREA: Eh sfido! Volevi che stessero ancora insieme, dopo che… (Ride.) Ma lui la piangeva più delle figlie. E tutti noi, naturalmente, ridevamo. – S’è mezzo rimbecillito, ormai, poveretto! In paese lo canzonano per questo. Sai che lo bastonarono?

        GIULIA: Davvero?

        ANDREA: Eh sì! Non ora… L’amante della moglie lo bastonò. – Ce lo raccon­tava lui stesso, in treno, tutto per filo e per segno, tranquillamente. – Imma­gina le nostre risate. – «E mettetevi un po’ nei panni miei!» diceva. Poi s’è rivolto ai signor Sportini (c’era anche lui! vicino a me… quello del dazio, sai?) «Ah signor Francesco» diceva, «lei solo qua mi può compatire!» Quel che successe! Per fortuna, c’era con noi un giovanotto di questi, sai?, ultima moda… pieno di mondo… Non mi ascolti?

        GIULIA: Sì volevo domandarti…

        ANDREA: D’andar di là? E pronto? Adesso andiamo. Dunque senti: questo gio­vanotto prende la parola: «Sorprendere», dice. «Dio mio! Roba preistorica… Che sugo c’è? Il signore qua si è fatto bastonare. Il solito viaggio improv­viso… la solita corsa sbagliata… mezzucci da mariti vecchi che vogliono dare a vedere d’aver perduto l’orario della ferrovia, mentre han perduto invece la testa… Non c’è psi-co-lo-gia! Mi spiego: avete il sospetto, e volete la prova? E che bisogno c’è del fatto? E per di più ridicolo. Disturbare due persone, che se ne stanno insieme così felicemente…» – Spiritoso, non ti pare? – «Se io», diceva, «avessi moglie, Dio me ne scampi! e sospettassi di lei» (aveva l’aria di canzonar Mantegna) «io farei le viste di non accorgermi affatto di nulla. Non cercherei prove, non la disturberei prematuramente. Farei soltanto in modo – e qui sta l’abilità! – che lei, tutta lei, divenisse, davanti a me, una prova vivente, la più lampante, fino al momento opportuno.» E interessante… (S’accosta più a lei, con la sedia.) Senti ciò che diceva. – «Venuto questo momento, mi rivolgerei a mia moglie, la inviterei a sedere, e poi, come se nulla fosse, così a discorso, le racconterei con bella maniera una storiella di questi amori… interessanti, ma “cittadina”, mi spiego? e che s’aggirasse in­torno alla colpa di lei, stringendola in cerchi più sottili, sempre più sottili… finché, a un certo punto(prende dal cestino del lavoro uno specchietto a mano e lo mette davanti alla moglie), là, le si mette sotto il naso uno spec­chietto a mano, e le si domanda con bel garbo: “Mia cara, perché impallidite così?”.» (Si mette a ridere con certa stranezza.) Ah, ah, ah… è graziosissimo!… «Vedete bene, vedete bene che so tutto…»

        GIULIA (scarta con la mano lo specchietto, sorridendo a fior di labbra, e si alza affettando indifferenza): Sciocchezze!

        ANDREA (strano): T’ho annojata, di’ la verità? Non t’interessa?

        GIULIA: Che vuoi mi interessi… la moglie del Mantegna? (Fa per andarsene.)

        ANDREA (c.s.): E allora Serra…

        GIULIA (sì volge appena, pallidissima, a guardarlo di su la spalla).

        ANDREA (dominandosi, cangiando tono): Sì, gli dirò: senti, caro, con te, non so veramente come regolarmi… Senza cerimonie… siamo amici… dunque, dimmi, dimmi quel che debbo darti e te lo darò. – Eh eh eh… come ti pare?

        GIULIA: Fa’ come credi.

        ANDREA: Soltanto, sai?, ho paura, che dicendogli così…

        GIULIA: Rifiuti?

        ANDREA (alzandosi, con un sospiro): Eh, la coscienza, mia cara, ha curiosi pu­dori! Avendomi rubato l’onore, rifiuterà il danaro.

        GIULIA: Che dici?

        ANDREA (accigliandosi, ma contenendosi ancora, e quasi ridendo): Non è la verità?

        GIULIA: Sei pazzo?

        ANDREA: Non è vero? Guarda! Lo nega.

        GIULIA: Sei pazzo?

        ANDREA: Io sono pazzo? Ah, non è vero?

        GIULIA: Credi di farmi paura? Come puoi dirlo? Chi ti dà il diritto d’insultarmi così?

        ANDREA (afferrandola): Io t’insulto? Se tremi!

        GIULIA: Non è vero! Che prove…

        ANDREA: Prove! Diritto! Sono uno sciocco? un pazzo? E tu innocente… una vittima. Ma se ho veduto: io, io, capisci? Io, con questi occhi, mi sono ac­corto…

        GIULIA: Non è vero! Sei pazzo.

        ANDREA: Ah sì? Tanto sciocco? Ho veduto, ti dico, con questi occhi, e hai il coraggio di negare? Spudorata! Se hai tremato, alle mie parole… come lui… come lui… là… tre giorni l’ho torturato! è scappato alla fine… non ne ha po­tuto più… È venuto a dirtelo, è vero? è venuto a dirtelo? Io, l’ho lasciato venir prima! Perché non sei andata via con lui? Nega, negalo ancora, se puoi!

        GIULIA: Andrea… Andrea…

        ANDREA: Non neghi più, lo vedi?

        GIULIA: Per pietà!

        ANDREA: Pietà?

        GIULIA: Uccidimi! fa’ di me quel che vuoi…

        ANDREA (afferrandola di nuovo, furibondo): Lo meriteresti, infame! Lo merite­resti! sì, sì… non so chi mi trattenga… Ma no, guarda, (la lascia) non voglio sporcarmi le mani… pe’ miei figli! non voglio sporcarmele! Non hai pensato a loro? Neanche a loro! Vile! Vile! (La riafferra e spingendola violentemente verso la comune:) Va’ via, via! fuori di casa mia! via! subito! via!

        GIULIA (con disperazione): Dove vuoi che vada?

        ANDREA: Lo domandi a me? Dal tuo amante! Hai tradito anche i tuoi fratelli, per venire con me, per fuggire con me… con me! Se ora ti chiudono la porta in faccia, fanno bene… Va’ dal tuo amante… Ti darò tutto, tutto… Ci andrai col tuo danaro! Credi che voglia tenermi il tuo danaro? M’insozzerebbe le mani, ora! Comincerò daccapo, pe’ miei figli! Va’ via!

        GIULIA: Andrea, uccidimi piuttosto! non parlarmi così! Ti chiedo perdono, per loro; ti prometto che non ardirò più di guardarti in faccia… Per loro…

        ANDREA: No.

        GIULIA: Lasciami in casa per loro…

        ANDREA: No!

        GIULIA: Sarò la tua schiava!

        ANDREA: No!

        GIULIA: Te ne scongiuro…

        ANDREA: No, no, no. Non li vedrai più.

        GIULIA: Fa’ di me quel che vuoi…

        ANDREA: No!

        GIULIA: Ma sono pur miei!

        ANDREA: Ci pensi ora? Ora? Ci pensa ora!

        GIULIA: Sono stata pazza…

        ANDREA: Anch’io!

        GIULIA: Sono stata pazza; la mia colpa non ha scusa, lo so! Io non accuso che me… Ma fu un momento di pazzia, credimi. Ti amavo, sì! Mi sono sentita trascurata da te… Non accuso nessuno, me soltanto… Lo so, lo so… ero fug­gita con te… Ma, vedi che ti amavo?

        ANDREA: Per tradirmi! Di’ che fui il primo che ti venne davanti: avresti fattolo stesso con tutti.

        GIULIA: No! Ma io non voglio scusarmi…

        ANDREA: Va’ via dunque!

        GIULIA: Aspetta! Non so più che debba dirti… Sono colpevole verso di te, verso i miei figli… sì… sì… è vero… ma se per te non posso fare più nulla, la­sciami almeno espiare per i miei figli la colpa che ho verso di loro… A que­sto non puoi negarti… Non puoi strapparmi a loro…

        ANDREA: Ah, ti strappo io? – Ma via! Vuoi che mi confonda a raccogliere le tue parole? Non li vedrai più!

        GIULIA: No! No! Andrea! te lo chiedo per l’ultima volta, te ne scongiuro, guarda… così… (Gli s’inginocchia davanti.)

        ANDREA (violento): No! ti ho detto no! Basta! Non voglio più sentirti, non vo­glio più vederti. I figli sono miei unicamente, e restano con me… Tu, via!

        GIULIA: E allora, tanto… uccidimi!

        ANDREA (scrollando una spalla, con indifferenza): Ucciditi. (Va presso la fine­stra a guardar fuori.)

        GIULIA (rimane come schiacciata da una condanna; lentamente reclina il capo, gli occhi le si riempiono di lagrime, quindi scoppia in singhiozzi).

        ANDREA (si volge un po’ a guardarla, poi si rimette a guardar fuori senza muoversi).

        GIULIA (finisce a poco a poco di piangere, breve pausa, quindi si alza, palli­dissima, e, col petto rotto a tratti da singhiozzi, sì avvicina al marito): Allora senti…

        ANDREA (si volge novamente a guardarla).

        GIULIA (scoppia di nuovo in pianto).

        ANDREA (voltandole le spalle): Scene!

        GIULIA: No! Senti. Se non debbo più vederli… neanche per un’ultima volta… ora… Te ne supplico! te ne supplico!

        ANDREA: No, no, ti ho detto no!

        GIULIA: Un’ultima volta… il tempo di dar loro un bacio… di stringermeli tra le braccia… e poi basta!

        ANDREA: No!

        GIULIA: Ah, come sei crudele! Ebbene… e allora… promettimi almeno che… quando verranno… e poi in seguito mai… mai non dirai loro… male di me… promettimelo! – Non sappiano mai nulla… E quando…

        ANDREA (con voce strana, volgendosi a Giulia e invitandola col gesto): Vieni… vieni… qua… qua…

        GIULIA (esitante, atterrita): Perché? (Poi durandosi:) Ah! Sono loro!

        ANDREA (l’afferra e la spinge a guardar fuori): No, no… guarda… guarda… là… lo vedi?

        GIULIA (aggrappandosi a lui): Andrea! Andrea! Per pietà!

        ANDREA (respingendola verso l’uscio a destra): Va’ di là! Per chi temi?

        GIULIA (c.s.): Te ne scongiuro, Andrea!

        ANDREA (c.s.): Di là! Di là! Temi per lui?

        GIULIA (c.s.): No! no! è un vigliacco…

        ANDREA (c.s.) Aspettalo di là… è come te!

        GIULIA (con le spalle all’uscio): No! No!… Addio, Andrea! Addio. (Gli dà un rapido bacio in faccia e sì precipita dentro, richiudendo l’uscio.)

        ANDREA (resta perplesso, smarrito, dietro l’uscio, con le mani sulla faccia.) Entra nel frattempo Antonio Serra; il quale, vedendo Andrea in quell’atteg­giamento, si tratterrà esitante sulla soglia. Si ode dall’interno un colpo di ri­voltella.

        ANTONIO (dà un grido).

        ANDREA (volgendosi di scatto): Tu l’hai uccisa!

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