Legge Gaetano Marino.
«Quando le scuole erano chiuse per le vacanze estive, la maestrina Boccarmè non sapeva che farsi della sua libertà. Avrebbe potuto viaggiare, coi risparmii di tanti anni; le bastava sognare così, guardando le navi ormeggiate nel Molo o in partenza.»
Prima pubblicazione: Il Marzocco, 31 dicembre 1899 e 7, 14, 21, 28 gennaio 1900 col titolo Salvazione, poi in Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902.
La maestrina Boccarmè
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Come, passando per un giardino e allungando distrattamente una mano, si bruca un tenero virgulto e se ne sparpagliano in aria le poche foglioline, l’unico fiore; così, passando attraverso la vita di Mirina Boccarmè, allora nel suo fiore, un uomo ne aveva fatto scempio per un vano capriccio momentaneo. Fuggita dalla città, se n’era andata in un paesello di mare del Mezzogiorno a far la maestrina.
Erano passati ormai tant’anni.
Appena terminata la scuola del pomeriggio, la maestrina Boccarmè soleva recarsi alla passeggiata del Molo, e là, seduta sulla spalletta della banchina, si distraeva guardando con gli altri oziosi le navi ormeggiate: tre alberi e brigantini, tartane e golette, ciascuna col suo nome a poppa: «L’Angiolina», «Colomba», «Fratelli Noghera», «Annunziatela», e il nome del porto d’iscrizione: Napoli, Castellammare di Stabia, Genova, Livorno, Amalfi: nomi, per lei che non conosceva nessuna di queste città marinare; ma che, a vederli scritti lì sulla poppa di quelle navi, diventavano ai suoi occhi cose vicine, presenti, d’un lontano ignoto che la faceva sospirare. E ora, ecco, arrivavano le paranze, una dopo l’altra, con le vele che garrivano allegre, doppiando la punta del Molo; ciascuna aveva già pronte e scelte in coperta le ceste della pesca, colme d’alga ancor viva. Tanti accorrevano allo scalo per comperare il pesce fresco per la cena; lei restava a guardar le navi, a interessarsi alla vita di bordo, per quel che ne poteva immaginare a guardarla così da fuori.
S’era abituata al cattivo odore che esalava dal grassume di quell’acqua chiusa, sulla cui ombra vitrea, tra nave e nave, si moveva appena qualche tremulo riflesso. Godeva nel vedere i marinaj di quelle navi al sicuro, adesso, là nel porto, senza pensare che a loro forse non pareva l’ora di ritornare a qualche altro porto. E sollevando con gli occhi tutta l’anima a guardare nell’ultima luce la punta degli alti alberi, i pennoni, il sartiame, provava in sé, con una gioja ebbra di freschezza e uno sgomento quasi di vertigine, l’ansia del tanto, tanto cielo, e tanto mare che quelle navi avevano corso, partendo da chi sa quali terre lontane.
Così fantasticando, talvolta, illusa dall’ombra che si teneva come sospesa in una lieve bruma illividita sul mare ancora chiaro, non s’accorgeva che a terra intanto, là sul Molo, s’era fatto bujo e che già tutti gli altri se n’erano andati, lasciandola sola a sentire più forte il cattivo odore dell’acqua nera sulla spiaggia, che alla calata del sole s’incrudiva.
La lanterna verde del Molo s’era già accesa in cima alla tozza torretta bianca; ma faceva da vicino un’lume così debole e vano, che pareva quasi impossibile si dovesse poi veder tanto vivo da lontano. Chi sa perché, guardandolo, la maestrina Boccarmè avvertiva una pena d’indefinito scoramento; e ritornava triste a casa.
Spesso però, la mattina dopo, nell’alba silenziosa, mentre qualche nave con tutte le vele spiegate che non riuscivano a pigliar vento salpava lentamente dal Molo rimorchiata da un vaporino, più d’un marinajo uscito a respirare per l’ultima volta la pace del porto che lasciava, del paesello ancora addormentato, s’era portata con sé un tratto l’immagine d’una povera donnina vestita di nero che, in quell’ora insolita, dal Molo deserto aveva assistito alla triste e lenta partenza.
Perché piaceva anche, alla maestrina Boccarmè, intenerirsi così, amaramente, allo spettacolo di quelle navi che all’alba lasciavano il porto, e s’indugiava lì a sognare con gli occhi alle vele che a mano a mano si gonfiavano al vento e si portavano via quei naviganti, lontano, sempre più lontano nella luminosa vastità del cielo e del mare, in cui a tratti gli alberi scintillavano come d’argento; finché la campana della scuola non la richiamava al dovere quotidiano.
Quando le scuole erano chiuse per le vacanze estive, la maestrina Boccarmè non sapeva che farsi della sua libertà. Avrebbe potuto viaggiare, coi risparmii di tanti anni; le bastava sognare così, guardando le navi ormeggiate nel Molo o in partenza.
Quell’estate, era accorsa molta gente al paesello per la stagione balneare. Una folla che non si camminava, nella passeggiata del Molo. Sfarzi di luce dei magnifici tramonti meridionali, gaj abiti di velo, ombrellini di seta, cappellini di paglia. Signorone mai viste! E le brave donnine del paese, tutte a bocca aperta e con tanto d’occhi ad ammirare. Solo la maestrina Boccarmè, niente: come se nulla fosse stato. Lì, sulla spalletta della banchina, seguitava a guardare i marinai che in qualche nave facevano il lavaggio della coperta, gettandosi allegramente l’acqua dei buglioli addosso, tra salti e corse pazze e gridi e risate.
Se non che, un giorno:
– Mirina!
– Lucilla!
– Tu qua? Sto a guardarti da mezz’ora: «è lei? non è lei?». Mirina mia, come mai?
E quella signorona, tra lo stupore rispettoso delle brave donnine del paese, abbracciò baciò ribaciò la maestrina Boccarmè con la maggiore effusione d’affetto che la soffocante strettura del busto le permise.
La maestrina Boccarmè, così colta all’improvviso, aprì appena appena le mani gracili e pallide a un gesto sconsolato e disse:
– È ormai tanto tempo!
L’angustia d’una rassegnazione, forse neanche più avvertita, le si disegnò, così dicendo, agli angoli degli occhi, appena contrasse la pelle del viso per accompagnare quel gesto delle mani con uno squallido sorriso.
– Tu, piuttosto, come mai qui? – soggiunse, quasi volesse, stornando da sé il discorso, stornare anche dalla sua persona tanto mutata, poveramente vestita, la crudele curiosità dell’amica.
E ci riuscì. Solo una sorpresa come quella di ritrovare dopo tant’anni e in quello stato un’antica compagna di collegio, poteva distrarre da sé per un momento la bella signora Valpieri. Richiamata ai suoi casi, non ebbe più né occhi né un pensiero per l’amica.
– Ah, se sapessi!
E indugiandosi in tanti inutili particolari, senza pensare che Mirina, ignorando luoghi, non conoscendo persone, non avrebbe potuto interessarsene né punto né poco, narrò la sua storia.
Storia dolorosissima, diceva; e sarà stata. Certo i guizzi di luce delle molte gemme che le adornavano le dita toglievano efficacia ai gesti con cui voleva rappresentare le terribili ambasce per le difficoltà nelle quali il marito l’aveva lasciata.
La maestrina Boccarmè, vedendosi guardata con considerazione dalle signore del paese per l’intimità che le dimostrava quella bella signora forestiera, voleva quasi quasi dare a credere a se stessa che realmente quell’intimità tra lei e la Valpieri ci fosse, pur ricordando bene che, nel collegio, non c’era mai stata, e che anzi lei, di umili natali ed entrata in quel collegio gratuitamente, più che per la freddezza sdegnosa delle compagne ricche aveva crudelmente sofferto per gli astii biliosi di questa Valpieri, la quale, appartenendo a una nobile famiglia decaduta, non aveva saputo tollerare in cuor suo di vedersi da quelle trattata male e messa a pari con lei.
Ora la Valpieri parlava, parlava, senz’alcun sospetto dell’impressione che gli occhi attenti d’una povera donnina provinciale ricevevano da certe curiose scoperte sul suo viso o nei suoi modi.
– E vedi? Quest’anno qui! – concluse. – Mi son dovuta contentare di venire per i bagni qui! Me li prescrivono i medici e non posso farne a meno. Figurati se ci sarei venuta, altrimenti! Ah che gente! Che paese, Mirina mia! Come fai a starci? E che colonia estiva! Non c’è uomini; tutte donne; tutte rispettabili madri di famiglia! Dio, Dio, mi sento mancare il fiato! Fortuna che ho trovato te! Ho preso in affitto due, non so come chiamarli, antri, tane, dove provo ribrezzo a mettere i piedi. Le annaffio tutti i giorni con l’acqua d’odore. Mi rovino. E tu che fai qui? Dove abiti? Mi fai veder la tua casa?
– La mia casa? – fece con un sorriso impacciato la maestrina Boccarmè. – Eh, io non ne ho. La casa della scuola. Un anditino, una cameretta (sì, bella ariosa) e una cucinetta, che mi ci posso appena rigirare.
– Me la farai vedere – ripeté l’altra, come se non avesse inteso. – Ah, già! perché tu fai qua la maestra. Già! Non me lo ricordavo più. Maestra elementare, è vero?
– Sono la direttrice, veramente. Ma insegno anche.
– Sì? Hai tanta pazienza?
– Bisogna averne.
– Oh brava; dunque ne avrai un po’ anche per me. Ah, io non ti lascio più, mia cara. Sarai l’ancora di salvezza di questa povera naufraga.
Si fermò un momento in mezzo alla via e aggiunse scotendo in aria le belle mani inanellate:
– Naufraga davvero, sai! Su, su, non pensiamo a malinconie, adesso. Andiamo a casa tua. Quante cose ho da dirti delle nostre compagne di collegio! Ah, ne sentirai di belle! Ma avrai anche tu certamente tante cose da raccontarmi.
– Io? – esclamò la maestrina Boccarmè. – E che vuoi che abbia da raccontarti io?
Avvezza ormai da tant’anni a vivere tutta chiusa in sé, appena una qualche domanda accennava di volerle entrar dentro, la sviava con una risposta evasiva. Pervenuta all’edificio della scuola, disse:
– Ecco, se vuoi entrare…
– Ah, – fece quella, alzando il capo a guardare la tabella sul portoncino. – Stai proprio dentro la scuola?
– Sì; e per entrare in camera mia, vedrai che si deve attraversare una classe: la iv.
– Ah, per questa son brava ancora, forse!
Ed entrando in quella classe, che maraviglie! Guarda! guarda! Le panche allineate, la cattedra, la lavagna, le carte geografiche alle pareti; e quel tanfo particolare della scuola! Volle sedere su una di quelle panche, e, poggiando i gomiti, con la testa tra le mani, sospirò:
– Se sapessi che impressione mi fa!
Varcata poi la soglia della cameretta di Mirina, altre maraviglie! Si mise a batter le mani: che nido di pace! beata solitudine! E, indicando il lettino di ferro, pulitino, con la sua brava coperta a «crocè» fatta in casa e il trasparente e la balza celeste, di mussolina rasata:
– Chi sa che sogni vi fai! Dolci, puri!
Ma disse che lei avrebbe pure avuto una gran paura a dormir sola in una cameretta così, con tutte quelle stanze vuote di là, delle classi.
– Ti chiuderai a chiave, m’immagino!
A un tratto, allungando il collo per vedere con l’ajuto dell’occhialetto un ritrattino ingiallito, appeso alla parete, e notando che l’amica, improvvisamente accesa in volto, stava ritta davanti alla scrivania come se volesse appunto nascondere quel ritratto, sorrise e la minacciò col dito furbescamente:
– Ah, mariolina! Anche tu? Lasciamelo vedere.
La scostò dolcemente, ma subito, intravedendo quel ritratto, cacciò un grido. La maestrina Boccarmè si voltò di scatto, impallidendo, e tutt’e due per un istante si guardarono odiosamente negli occhi.
– Mio cugino. Lo conosci?
– Giorgio Novi, tuo cugino?
E la Valpieri si nascose la faccia tra le mani.
– Lo conosci? – insistette la maestrina Boccarmè, con quell’istinto aggressivo, quasi ridicolo, delle bestioline innocue.
Ma la Valpieri, scoprendo la faccia ora tutta alterata, senza neppur curarsi di risponderle, cominciò a smaniare, torcendosi le mani:
– Ah Dio mio, Dio mio! E così! Di’, ne hai notizie, tu?
– Che vuoi dire?
– E così; senza dubbio! Ho ragione, credi, d’essere superstiziosa. Ma perché lo tieni lì, tu, quel vecchio ritratto? Lo hai amato, di’ la verità? Eh, lo vedo, poverina. Fu forse tuo fidanzato?
– Sì, – rispose la maestrina Boccarmè, con un filo di voce.
– E lo tieni ancora lì? – insistette crudelmente l’altra. – Ma ringrazia Dio, figliuola mia, d’essertene liberata!
Si premette forte le tempie con le mani, strizzando gli occhi e gemendo: – Dio, Dio, Dio! Anche qui in effigie mi perseguita!
– Ma egli ha moglie, figliuoli – disse, quasi trasecolata, la maestrina Boccarmè.
La Valpieri la guardò con un’aria di commiserazione derisoria:
– Già, per te, c’è la moglie. E tu glielo fai così, solitariamente, con quel ritrattino, il tradimento, ho capito! Ma io te ne parlo appunto perché c’è la moglie, e non vorrei essere incolpata domani più di quanto mi merito.
– Tu? da chi?
– Ma da vojaltri! Non è tuo parente? Ti prego di credere che non si è affatto rovinato per me, come vanno dicendo. È una calunnia.
– Rovinato?
– Ma sì, ma sì: negozi andati a male, spese pazze! Non per me, sta’ bene attenta! Io fui tratta in inganno, vigliaccamente. E ora, se egli ha commesso, come temo, qualche pazzia, guarda, me ne lavo le mani, me ne lavo le mani!
– Ah, dunque tu?
– Fui tratta in inganno, ti dico; e ora per giunta mi si calunnia. Viltà sopra viltà. Eppure, vedi che ti dico, gli avrei perdonato, se non mi perseguitasse da quattro mesi come un canaccio arrabbiato. Che vuole da me? Lo compatisco: è impazzito; allo sbaraglio. Ma sono rimasta anch’io Dio sa come, e proprio non posso, non posso venirgli in ajuto. Dio volesse, ci fosse qualcuno che volesse ajutar me!
La maestrina Boccarmè si sentiva soffocare, tra lo stupore e l’angoscia che quelle notizie le cagionavano e il ribrezzo che le incuteva quella svergognata, la quale, senz’alcun ritegno, aveva osato accostarsi a lei davanti a tutti, là sul Molo, e qua, ora, penetrare nella sua intimità per insudiciarle quell’antico verecondo segreto, ch’era stato lo strazio della sua giovinezza ed era adesso, nel ricordo, il conforto e quasi l’orgoglio unico della sua vita.
La Valpieri intanto, interpretando lo sdegno che spirava dagli occhi di lei, non per sé, ma per il Novi, rincarò la dose delle ingiurie contro l’assente, seguitando a dipingersi come una vittima. Disse che il Novi, forse, avrebbe potuto ancora salvarsi, se fosse riuscito a trovare la cauzione che bisognava versare per un modesto impiego: poco: dodici o quindici mila lire. Ma dove trovarle?
– S’ammazzerà, me l’ha scritto! Ora puoi figurarti perché m’ha fatto tanta impressione la vista là del suo ritratto. Oh, lo dà a tutte, sai, codesto vecchio ritratto. L’ha dato anche a me. Altrimenti, non l’avrei certo riconosciuto. Non ha più capelli, puoi immaginarti! Ma pensa, pensa intanto alla sua disgraziata famiglia!
– La famiglia? – proruppe a questo punto la maestrina Boccarmè, tutt’accesa di sdegno. – Avresti dovuto pensarci prima, mi sembra!
– M’accusi anche tu? E non t’ho detto che egli…
– Sì; ma dopo? Quando sapesti che aveva moglie, figliuoli?
– Eh, troppo tardi, carina! – esclamò la Valpieri, con un gesto sguajato. – Vedo che tu ti riscaldi. Troppo tardi. Capisco che voialtri… Oh Dio, se avessi potuto sospettare che tu… E curioso che il Novi, mai una parola di te, sai? E io sono proprio venuta a cacciarmi…
S’interruppe: guardò la maestrina Boccarmè e scoppiò in una stridula risata.
– Vattene! – le gridò allora la maestrina, fremente, indicandole l’uscio.
– Eh no, via, – fece la Valpieri, ricomponendosi. – Mi scacci davvero?
– Sì! Vattene! Vattene! – ripeté la maestrina Boccarmè, pestando un piede, già con le lagrime agli occhi. – Non posso più vederti in casa mia!
– Me ne vado, me ne vado da me, – disse la Valpieri alzandosi senza fretta. – Si calmi, si calmi, signora Direttrice!
Prima d’infilar l’uscio si voltò e aggiunse:
– Buoni sospiri e tanti baci al ritrattino! E scomparve, ripetendo la stridula risata.
La maestrina Boccarmè, appena sola, strappò quel ritrattino dalla parete e lo scagliò con tanta rabbia sulla scrivania, che il vetro della modesta cornicetta di rame si ruppe. Poi, andò a buttarsi sul letto e, affondando il volto sul guanciale, si mise a piangere.
Non tanto per l’onta, no; pianse per la miseria del suo cuore scoperta, derisa e quasi sfregiata; pianse per vergogna di quel che aveva fatto, di quel ritrattino che aveva appeso lì alla parete da tanti anni.
Ma non aveva avuto mai, mai un momento di bene fin dalla fanciullezza; aveva già perduto, non pur la speranza, ma perfino il desiderio d’averne nel tempo che ancora le avanzava; e allora, quasi mendicando un ricordo di vita, era ritornata ai giorni del suo maggior tormento, ai soli giorni in cui pure, per poco, aveva sentito veramente di vivere: e aveva cercato quel ritrattino, gli aveva comperato quella cornicetta da pochi soldi, e non perché lo vedessero gli altri lo aveva appeso lì alla parete, ma per sé, per sé unicamente, quasi per far vedere a se stessa che, mentre forse tant’altre maestrine come lei dicevano senz’esser vero, d’avere avuto anch’esse in gioventù il loro romanzetto sentimentale, lei – eccolo là – lo aveva avuto davvero: c’era stato davvero – eccolo là – un uomo nella sua vita.
Come ne aveva riso quella svergognata! Era quasi niente, sì; un povero ritrattino ingiallito; uno dei soliti romanzetti, che, appunto perché soliti, non commuovono più nessuno; come se l’esser soliti debba poi impedire di soffrirne a chi li abbia vissuti.
Inesperienza, stupidaggine, da bambina chiusa fin dall’infanzia, prima in un orfanotrofio, poi in un collegio. Ne era uscita da pochi giorni con la patente di maestra, e stava ora nell’attesa angosciosa di un posticino nelle scuole elementari di qualche paesello, privandosi di tutto per pagar la pigione di quello sgabuzzino in città e mantenersi in quell’attesa con le poche centinaja di lire vinte in un concorso di pedagogia, nell’ultimo anno di collegio. Che provvidenza per lei quel concorso! Ma che sgomento, anche, nel vedersi così sola e libera, lei vissuta sempre nella clausura! E s’era trovata una mattina, inaspettatamente, così sola lì con un giovanotto che subito s’era messo a parlarle con la massima confidenza, dandole del voi e chiamandola «cara cuginetta». E per forza, fin dalla prima volta, aveva preteso ch’ella non stesse a quel modo col mento sul petto e non tormentasse con quelle brutte unghie da scolaretta diligente le trine della manica; su su, e che lo guardasse negli occhi, così, come guarda chi non ha nulla da temere! Per miracolo non s’era messa a piangere, quella prima volta; e con qual fervore aveva poi pregato la Madonna che non glielo facesse più rivedere. Ma era ritornato il giorno dopo con un involtino di paste e un mazzolino di fiori, per invitarla ad andare a casa sua: la madre voleva conoscere la nipotina, la figliuola della cara sorella morta da tanti anni. Era andata; e quella zia, squadrandola da capo a piedi, s’era mostrata dolente di non poterla accogliere in casa perché c’era Giorgio – e qui consigli di prudenza – una lunga predica, che ella, interpretando (com’era facile) il sospetto che moveva la zia a parlare, aveva ascoltato col volto avvampato dalla vergogna. Due giorni dopo, Giorgio era tornato a visitarla; e allora lei, tutta impacciata, balbettando, s’era sforzata di fargli intendere che non doveva più venire. Ma egli aveva accolto con un sorriso la timida preghiera, e il giorno appresso, rieccolo. Questa volta però gli aveva parlato seriamente: o smetteva, o si sarebbe recata a dirlo alla zia. Come prima della preghiera, aveva riso adesso della minaccia: «Andasse pure, anzi tanto meglio! Così avrebbe avuto il pretesto di confessare alla madre che egli la amava». Ridendo le dicono gli uomini, queste cose, che a lei in quel punto avevano cagionato tanta angoscia e acceso nel sangue tanto fuoco! Quel giorno stesso aveva cambiato alloggio, senza lasciar traccia di sé. E ricordava le ambasce nella nuova abitazione, in quei quindici giorni che passarono prima che egli la scoprisse; l’incerto timore, forse più di se stessa che di lui, se il non doverlo più rivedere le rendeva spinosa di tante smanie la solitudine. Non sapeva più vedersi in quella nuova cameretta, pur tanto più decente della prima; si recava ogni giorno al collegio a trovare la direttrice che le aveva promesso per il prossimo autunno il posticino. E una sera, appena rientrata, aveva sentito picchiare alla porta e una voce affannata che la scongiurava d’aprire. Quanto, quanto tempo non lo aveva tenuto lì, dietro la porta, tremando di qua e scongiurandolo a sua volta d’andarsene, di lasciarla in pace, di parlar piano, per carità, che i vicini non udissero: era una pazzia, un’infamia, comprometterla a quel modo; via, via! che voleva da lei?
A un tratto, poiché egli non smetteva d’insistere e non se ne sarebbe andato, una risoluzione: s’era rimesso il cappellino, aveva aperto la porta: – Eccomi! Usciamo insieme. Vieni, vieni –. E qui tutti i ricordi s’accendevano; il cuore già intirizzito s’infocava ancora alla fiamma di quella sera, che tante lagrime versate poi non eran bastate a spegnere. Proprio tra le fiamme le era parso di camminare, sola con lui, a braccetto con lui, per le vie della città. E in mezzo al tramenio, al fragore di quelle vie, distinte le parole ch’egli le sussurrava all’orecchio, premendole il braccio col braccio. Già la chiamava sposina; e così sempre, a braccetto, sarebbero andati nella vita. Bisognava ora vincere l’opposizione della madre.
Ritornando verso casa, già tardi, gli aveva strappato la promessa, anzi il giuramento, che la avrebbe accompagnata soltanto fino alla porta; ma il giuramento era a prezzo d’un bacio. No! e come mai? per istrada? Ma egli disse che non aveva inteso fino all’uscio di strada, ma su, fino in cima alla scala: lì il bacio; e poi, sì, l’avrebbe lasciata prima che lei aprisse la porta: lo aveva giurato. Se non che, dopo il primo bacio, mentre già sola nella cameretta, stordita e tremante di felicità, tentava di spuntarsi il cappellino, ecco di nuovo, attraverso la porta, pian piano, la voce di lui che gliene chiedeva un altro, un altro solo, un altro solo e poi basta: se ne sarebbe andato davvero. E lei, vinta alla fine, dopo aver detto tante volte di no, di no, vinta e costretta dall’imprudenza, dalla petulanza di lui, aveva riaperto la porta.
Fin qui aveva sempre ricordato la maestrina Boccarmè: tutto il bene.
Come precipitando dalla sommità d’una montagna un torrente trascina con sé le pietre che poi nei mesi asciutti ne segnano il corso, così lei, precipitando dalla sua felicità, ora che negli occhi le lagrime le si erano inaridite, andava da venti anni sui sassi della via che il precipizio le aveva segnata; andava, e i piedi più non le dolevano; andava, e gli occhi stanchi della grigia aridità del greto s’erano rivolti a contemplare la sommità da cui era caduta. Il cordoglio s’era sciolto, la disperazione s’era composta in un intenso muto rimpianto del bene perduto; e questo rimpianto a poco a poco, nella squallida desolazione, era divenuto un bene per se stesso, l’unico bene.
Dopo quella notte, egli era scomparso; ella lo aveva atteso parecchi giorni; poi s’era recata dalla madre di lui, la quale, senza volere intendere tutto il male che il figlio aveva fatto, se l’era tenuta qualche tempo con sé; venuta la nomina di maestra la aveva avviata al suo destino.
Vent’anni! Quante navi aveva veduto arrivare nel vecchio molo di quel paesello; quante ne aveva vedute ripartire!
Vestita sempre di nero, dolce, paziente e affettuosa con le bambine della scuola, non solo per il ricordo di quanto aveva sofferto a causa della durezza di certe insegnanti, ma anche perché, femminucce, le considerava destinate più a soffrire che a godere; con quella combinazione della casa nella stessa scuola, se n’era vissuta appartata da tutti, compensandosi in segreto, con l’immaginazione e con le letture, di tutte le angustie e le mortificazioni che la timidezza le aveva fatto patire. E a poco a poco aveva preso gusto sempre più a un certo amaro senso della vita che la inteneriva fino alle lagrime talvolta per cose da nulla: se una farfalletta, per esempio, le entrava in camera, di sera, mentre stava a correggere i compiti di scuola, e, dopo aver girato un pezzo attorno al lume, veniva là, sul tavolinetto sotto la finestra, davanti al quale lei stava seduta, a posarlesi lieve lieve sulla mano, come se la notte gliel’avesse mandata per darle un po’ di compagnia.
Tra poco avrebbe avuto quarantanni; e forse sì, il viso le si era un po’ sciupato; ma l’anima no; per questo bisogno che aveva di fantasticare in silenzio, di vedere come avvolta nel lontano azzurro d’una favola, lei piccola piccola, tra tutto quel cielo e quel mare, la propria vita.
Guai se non lo avesse sentito più questo bisogno! Tutte le cose, dentro e attorno, avrebbero perduto ogni senso per lei e ogni valore; e meglio morire allora!
S’alzò dal letto. S’era tutta spettinata, e aveva gli occhi rossi e gonfi dal pianto. S’appressò all’unico specchio della cameretta, lì in un angolo, a bilico nel modestissimo lavabo di ferro smaltato. Si lavò gli occhi, che le bruciavano: prese il pettine per rifarsi i capelli.
Negli anni del collegio, per modestia, ma anche perché le compagne ricche non dicessero che volesse darsi arie da «signorina» per far dimenticare d’esservi stata accolta per carità, aveva tenuto sempre i capelli come all’orfanotrofio, tutti tirati indietro, lisci lisci, senza un nastro, senza un fiocco e annodati stretti alla nuca. E così la aveva vista lui, la prima volta, appena uscita di collegio; e che beffe! come per «le brutte unghie da scolaretta diligente». Gliel’aveva poi insegnata lui quella pettinatura che, dopo tant’anni, ella usava ancora; una pettinatura un po’ goffa, passata da tanto tempo di moda.
Si sciolse i capelli, senza toccare la scriminatura in mezzo, e lasciò cader le due bande in cui li teneva divisi; prese per la punta prima l’una e poi l’altra banda e con lievi colpettini di pettine in su cominciò ad aggrovigliolarsele per modo che ai due lati della fronte, sulle tempie e fin sugli orecchi, le si gonfiassero boffici e ricce. Sì: così pettinati, i suoi capelli parevano tanti; certo però le incorniciavano male il viso smagrito, già un po’ troppo affossato nelle guance; ma così erano piaciuti a lui, e non avrebbe saputo pettinarseli altrimenti.
Con quegli occhi ancora gonfi dal pianto e senza quel brio di luce che spesso glieli rendeva arguti e vivaci, si vide come finora non s’era veduta mai; con un infinito avvilimento di pena per quell’immagine con cui per tanto tempo s’era ostinata a rappresentarsi a se stessa. S’accorse che per gli altri non era, non poteva più essere così. E come, allora? Si smarrì; e nuove lagrime, più brucianti delle prime, le sgorgarono dagli occhi. No! no! Doveva essere ancora così! Ancora, passando per le viuzze alte del paesello, popolate d’innumerevoli bambini strillanti, nudi o con la sola carnicina sudicia e sbrendolata addosso, ancora voleva esser guardata con amorosa ammirazione da tutte quelle umili mamme delle sue scolarette, che sedevano lì davanti alle porte delle loro casupole e la invitavano, cedendo subito la seggiola, a sedere un po’ con loro.
– Oh, guarda! La signora Direttrice!
– Venga qua! Segga qua, signora Direttrice!
Volevano sapere come facesse a incantare le loro bambine con certi discorsi ch’esse non sapevano riferire, ma che dovevano esser belli, sulle api, sulle formichette, sui fiori: cose che non parevano vere. E lei, a quelle loro maraviglie, sorrideva e rispondeva che lei stessa non avrebbe più saputo ripetere ciò che aveva potuto dire in iscuola per un caso imprevisto, d’un’ape entrata in classe, d’un geranio che improvvisamente s’era acceso nel sole sul davanzale della finestra.
Povera lì, tra povere, aveva in sé questa ricchezza che godeva di darsi alle care animucce delle sue scolarette («figlioline mie» come le chiamava); questa facoltà di commuoversi di tutto, di riconoscere in un sentimento suo, vivo, la gioja d’una fogliolina nuova che si moveva all’aria la prima volta, la tristezza della sua cucinetta quando, dopo cena, s’era spenta, e a veder lo squallore della cenere rimasta nei fornelli, ogni sera le sembrava che si fosse spenta per sempre; quel senso di nuovo, per cui, se un uccellino cantava, sapeva sì che quell’uccellino ripeteva il verso di tutti gli altri della sua famiglia, ma sentiva ch’esso era uno, lui, di cui udiva il verso per la prima volta, formato lì, ora, su quella fronda d’albero o su quella gronda di tetto, per una cosa d’ora, nuova nella vita di quell’uccellino.
S’era salvata così dalla disperazione.
E ancora, purtroppo, allorché i suoi doveri di maestra erano compiuti, e finite per la giornata le altre cose da fare, se per un momento la stanchezza la vinceva e vedeva d’un tratto precipitar nel vuoto la sua vita, ancora non era riuscita a liberarsi da certe torbide smanie che l’assalivano e le oscuravano Io spirito; ed erano pensieri cattivi, e sogni anche più cattivi, la notte. Aver potuto scoprire in sé, nei silenzii infiniti della sua anima, un brulichio così vivo di sentimenti, non come una ricchezza propriamente sua, ma del mondo come ella lo avrebbe dato a godere a una creaturina sua; ed esser rimasta nell’angoscia di quella solitudine, così staccata per sempre da ogni vita!
S’accorse che s’era fatto bujo nella cameretta e si recò ad accendere il lumetto bianco a petrolio sulla scrivania. Vide il ritrattino scagliato lì sopra con tanta rabbia, e le parve che non lei col suo atto violento avesse rotto il vetro della cornicetta, ma la stridula risata di quella donnaccia. Sentì che non poteva ora raccattare quel ritrattino e che non avrebbe potuto più riappenderlo alla parete, se prima non risarciva in qualche modo la sua anima dal morso velenoso di quella vipera, dallo sfregio vile di quella risata. Perché lei non era come una che, pur d’ottenere qualcosa, si riceva ingiurie e offese e provi anzi più vivo nell’umiliazione il godimento della cosa ottenuta. Lei non voleva ottener nulla; lei era nata per dare.
Fissò gli occhi, improvvisamente accesi, e stette un po’ come in ascolto. Bisognavano a lui dodici o quindici mila lire, da versare a cauzione d’un modesto impiego: glielo aveva detto colei. Un brivido alla schiena. Raccolse le mani e, figgendosi la punta delle dita tra gli occhi e le sopracciglia, stette un pezzo così. Poi, sedendo in fretta davanti alla scrivania, cavò di tasca la chiave del cassetto; lo aprì, ne trasse il suo vecchio libretto della Cassa di risparmio per vedere esattamente quanto avesse messo da parte in tanti anni per la sua vecchiaja, pur sapendo bene che non ammontava a quella cifra. Erano difatti poco più di dieci mila lire. Ma a potere intanto disporre di quelle dieci…
Provò subito il bisogno di dire a se stessa che non lo faceva per lui, per averne in ricambio qualche cosa. Non voleva niente, lei, più niente: non che la gratitudine di lui, ma neppure il ricordo: niente! E pensò dapprima di mandar quel denaro senza fargli sapere che glielo mandava lei. Ma poi per fortuna rifletté che con la presenza di quell’altra in paese, lui, certo ormai senza più memoria di lei, avrebbe potuto supporre che il soccorso gli veniva da quella, a prezzo di chi sa quale vergogna.
No, no: ad evitare che cadesse in un così sciagurato equivoco, bisognava purtroppo ch’ella gli scrivesse e gli dicesse che appunto per la presenza della Valpieri nel paese aveva potuto sapere del bisogno di lui; e che gli mandava quel denaro perché lei non avrebbe saputo che farsene, prima di tutto, e poi perché le era caro far rivivere così in sé, per sé sola, il ricordo – non di lui, non di lui! – ma di tutto il male e di tutto il bene che le era venuto un giorno da lui. Così, ecco. Era la verità.
E così, richiamato a questo prezzo dal tempo lontano che lo aveva ingiallito, ravvivato dal sangue di questa nuova ferita, ella avrebbe potuto ora riappendere alla parete il vecchio ritrattino; per sé, unicamente per sé, per sentire ancora, dentro di sé, più che mai soffuso dell’antica malinconia, il lontano azzurro della sua povera favola segreta, e poter seguitare a guardare con lo stesso animo quel cielo, quel mare, le navi che arrivavano nel vecchio Molo o ne ripartivano all’alba, lente, nel luminoso tremolio di quelle acque distese fino a perdita d’occhio.
Sì, ma se non era l’antico amore farle da fermento dal più profondo dell’anima, perché ora quella specie d’ebbrezza che le gonfiava il petto, e quello struggimento che voleva traboccarle in nuove lagrime; non più brucianti, queste?
Per fortuna lo specchio era là nell’angolo, e la maestrina Boccarmè non vide come s’appuntiva sgraziatamente sulla sua povera bocca appassita quel vezzo che sogliono fare i bambini prima che si buttino a piangere; e il mento, come le tremava.
La maestrina Boccarmè – Audio lettura 1 – Legge Giuseppe Tizza
La maestrina Boccarmè – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La maestrina Boccarmè – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
La maestrina Boccarmè – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi
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