La liberazione del re – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«Non gli passava per il capo che a un gallo adatto come lui potesse toccar la sorte d’un misero pollastrello qualunque; che quella brutta padrona lo avesse comperato per tirargli il collo di lì a poco.»

Prima pubblicazione: Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.

La liberazione del re audiolibro
Antonio Ligabue, Lotta di galli, 1945

La liberazione del re

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Co co co,… pio pio pio,… co co co…

             La Mangiamariti, al solito, appena finito di dirne qualcuna delle sue, si metteva a chiamare così le galline.

             Tutt’e dieci, queste, calzate di giallo, accorrevano crocchiando al richiamo. Ma ella non badava alle galline; aspettava il vecchio gallo nero, piccolo e spennacchiato, che accorreva per ultimo. Seduta sull’uscio, gli tendeva le braccia gridando:

             – Caro! Amore di mamma! Vieni, caro, vieni!

             E come il gallo le saltava in grembo fremendo e starnazzando, prendeva a lisciarlo, a baciarlo su la cresta, o gli afferrava con due dita e gli scoteva amorosamente i languidi bargigli, ripetendo tra i baci e le carezze:

             – Bello mio! Bello! di mamma! Sangue del mio cuore! Amore mio!

             Certe scene che, se non fosse stato un gallo, chi sa che cosa si sarebbe potuto sospettare. Vecchio, brutto, con la cresta squarciata e penzolante da un lato, non valeva un bajocco. Eppure, bisognava vedere. Guaj a toccarglielo!

             Tanto quel gallo però, quanto le dieci galline, che pur le facevano puntuali dieci uova al giorno, sarebbero morti certamente di fame; se per quel lercio vicolo scosceso non fossero passate tante asine e tante mule. Perché ella voleva sì le uova da quelle galline, e non dar loro da mangiare.

             La vita è una catena. Quel che gli uni buttano via digerito, serve agli altri, che son digiuni. E quelle gallinelle correvano ingorde e rissose dietro a quelle asine e a quelle mule, prodighe del superfluo. Santa economia della natura!

             – Che sapore, donna Tuzza Michis, ditelo voi, che sapore avevano jeri le vostre uova?

             Ah, un miele! Perché donna Tuzza Michis, la signora di quel vicolo, non comperava le uova della Mangiamariti. Quelle uova? Ai cani! E neppure i cani le volevano.

             Con un fazzoletto di cotone fiammante annodato attorno al capo alla carrettiera, quasi per dare maggior risalto alla pelle della faccia che aveva il colore e la durezza liscia della carruba secca, donna Tuzza Michis oggi s’affacciava sul pianerottolo della scalettina a collo, reggendo con le mani insaccate in un pajo di sudici guantacci da maschio il manico della padella ove friggevano ancora, rossodorate, le più belle triglie di scoglio; domani si sedeva lì alta su l’uscio a spennacchiare un pollastro pian pianino, con dispettosa delicatezza; e, tra le penne e le piume che il vento si portava via, come il giorno avanti tra il fumo e il friggio della padella, diceva forte, con lamentosa cantilena:

             – Senza peccato, penitenza: sia fatta la volontà di Dio: senza peccato, penitenza!

             Poi, ritirandosi per seguitare ad attendere a’ suoi squisiti manicaretti, che riempivano di deliziosi, odori tutte le catapecchie del vicolo gialle di fame, si metteva a cantare a squarciagola:

             Bella sorte fu la mia

             star rinchiusa alla badia…

             Tutto questo, per far crepare di rabbia e d’invidia quelle lingue di vipere del vicinato che, pur affogate nella più lurida miseria e prese a cinghiate mattina e sera e lasciate digiune dai mariti, avevano il coraggio di sparlare di lei, di deriderla, perché non aveva potuto trovar marito a causa della bruttezza.

             E quando, o la mattina per tempo o alla calata del sole, si sentiva il grido di don Filomeno Lo Cicero che passava ballando e cantando con la bacchettina in mano:

             Chi ha capelli, che ve li cangio; quello che busco, me lo mangio; me lo mangio con mia moglie; canchero a voi, canchero e doglie.

             –    Don Filome’, – gli diceva, affacciandosi all’uscio coi capelli sciolti su le spalle, e il pettine in mano, – venite, venite a tagliare questi miei, che mi faccio monacella! Ma per cent’onze ve li vendo, don Filome’! Né un grano più, né un grano meno.

             –    Cent’onze, già! Perché devono servire a far la treccia finta alla regina di Spagna, che è pelata, quei capelli là! – commentava la Mangiamariti; e subito dopo:

             –    Co co co… pio pio pio… co co co…

             Ma chiamava le galline per rabbia, questa volta. Che lei sì davvero s’era fatta monacella della miseria; s’era cioè tagliati i capelli per venderli a don Filomeno; per tre tari, capelli e tutto: vivi, scovati e non scovati.

             E anche le penne di quel gallo, che ora teneva in braccio, no?

             – Questo? – scattava allora la Mangiamariti, balzando in piedi e brandendo alto il gallo. – Una penna di questo, per vostra regola, vale più di tutto il vostro crine di capecchio pieno di zeccole, femmina del diavolo che non siete altro!

             Ebbene la Michis, quell’anno, per rodimento della Mangiamariti, volle comperare un magnifico gallo, un gallo meraviglioso, a cui però avrebbe tirato il collo nella vicina festa di Natale, che non voleva bestie per casa, lei, neanche il gatto. Dopo averlo mostrato di porta in porta per tutto il vicolo, lo mise a ingrassare in un angusto cortiletto, ch’ella chiamava giardino, dietro la casa; e siccome doveva tenerlo lì parecchie settimane, pensò bene di dargli un nome e lo chiamò Cocò.

             – Bravo, canta, Cocò! – gli diceva forte, quando esso cantava, quasi avesse cantato per far rabbia alle vicine. E: – Mangia, Cocò! – quando gli recava da mangiare; – Bevi, Cocò! – quando da bere; e poi d’ora in ora: – Qua, Cocò, vieni qua! bello, Cocò!

             Ma il gallo, sordo. Mangiava, beveva, cantava, quando doveva; poi, non che accorrere al richiamo, neppur si voltava. Sdegnava quella padrona nera come un tizzo, dagli occhi ovati e dalla bocca che pareva la buchetta d’un banco di taverna; sdegnava quel nomignolo confidenziale; sdegnava quel sozzo umido cortiletto, ove colei lo aveva relegato; e scoteva la cresta sanguigna, sprezzando luce da tutte le penne dai colori cangianti, e guardava di traverso, come per compassione; o squassava la giubba verde dai riflessi d’oro; incedeva maestoso, una zampa dopo l’altra; e, prima di voltarsi, tornava a guardar di traverso quasi a impedire che le magnifiche penne della coda toccassero gli sterpi di quel così detto giardino.

             Si sentiva re, e si sentiva in prigione. Ma non voleva avvilirsi. Voleva stare in prigione da re. E lo gridava, all’alba; lo gridava a tutte le altre ore designate; e, dopo aver gridato, più che in ascolto, pareva stesse all’aspetto, che all’alba il sole e nelle altre ore tutti i galli, che da lontano gli rispondevano, dovessero venire in suo ajuto, a liberarlo.

             Non gli passava per il capo che a un gallo adatto come lui potesse toccar la sorte d’un misero pollastrello qualunque; che quella brutta padrona lo avesse comperato per tirargli il collo di lì a poco.

             Prima d’essere rinchiuso in quel cortiletto aveva avuto nel piano di Ravanusa dodici galline in suo potere, una più bella dell’altra, tutte segnate nei merluzzi della cresta dai fieri pinzi del suo becco imperioso; care gallinelle docili, eppur ferocemente gelose e orgogliose di lui, perché nessuno dei tanti galli, che regnavano in quel piano e nei dintorni, aveva la sua maestà e la sua voce.

             A una a una, poi, s’era vedute portar via quelle sue spose massaje e sottomesse, e alla fine, un brutto giorno, era rimasto vedovo e solo, e poi ghermito di furto anche lui e consegnato per le zampe a costei, che ora lo teneva lì, oh ben pasciuto senza dubbio, ma perché? che vita era quella? che stato?

             Aspettava di giorno in giorno, che, o quelle care antiche gallinelle rapite al suo amore e alla sua custodia fossero portate lì a fargli scordar la prigionia, o questa in qualche altro modo avesse fine.

             Era egli gallo da star senza galline?

             E cantava, e cantava. Gridi di protesta, di indignazione, di rabbia, di vendetta.

             Finché, una mattina, all’angolo del cortiletto… – ma come? che era? Sì, un verso a lui ben noto… co-co-co… ma come lì? da sottoterra?… co-co-co… e qualche timido, rapido colpettino di becco, e un razzolio sommesso.

             S’accostò incerto, guardingo; allungò il collo; spiò attorno; stette in ascolto; riudì più distinti i rumori e quel verso, che da tanti giorni più non udiva e già gli aveva messo in subbuglio il cuore; e alla fine alzò una zampa e rimosse un po’ il mattone, che faceva da turo lì a una buca per lo scarico delle acque piovane. Rimosso il mattone, stette un pezzo a guardare a scatti, convulso, di qua e di là, quasi pronto a dire, se qualcuno se ne fosse accorto, che non era stato lui. Poi, raffidato, si chinò, e dentro quella buca intravide una graziosa pollastrotta picchiettata bianca e nera, la quale, attraverso la fessura, sporse prima il beccuccio, poi tutto il capino dagli occhietti tondi e dai nascenti rosei pendagli, come se, con una grazia tra timida e birichina, gli domandasse:

             – Si può?

             A quell’apparizione, egli restò, dapprima; poi arruffò le penne quasi corso da un brivido di gioja; protese il collo; allargò le ali; starnazzò, e lanciò alla fine un vigoroso chicchirichì.

             Aveva da tempo chiamato, ed ecco già qualcuno cominciava a rispondergli.

             La pollastrotta, al grido, rigettò con una zampettina risoluta il mattone, e, quasi strisciando riverenze, si fece avanti. Egli allora, tutto tronfio e impettito, le si mostrò di fronte e poi da un lato e poi dall’altro e di dietro, come per farsi ammirare da ogni parte; levò infine una zampa in atto d’impero e si tenne ritto sull’altra un pezzo; poi, scrollandosi tutto, le mosse con impeto incontro.

             Chiotta chiotta, ranca ranca, quasi spaventata, ma con un gorgoglio nella gola, che pareva una risatina mal frenata, la pollastrotta prese a fuggire, non già per schermirsi, anzi per il gusto di vedersi inseguita, e quando, raggiunta, si sentì pinzare il collo e poi sul dorso imporre le due zampe poderose, così presa e chinata, si gonfiò tutta; ma il fremito di gioja volle nascondere in un lamentio timido, esile, che a mano a mano divenne più spiccato, rabbiosetto, come se in cambio chiedesse, anzi no, esigesse chicchi, chicchi, chicchi da beccare.

             Chicchi… lei sola? No. Uh, quante! E donde erano entrate? Tutte da quella buca… Sette, otto, nove, dieci galline, una folla in quel cortiletto, una folla stupita della bellezza e della maestà di quel gallo prigioniero, di cui per tanti giorni avevano ammirato, razzolando per il vicolo, il maschio canto sonoro.

             La pollastrotta scappò di sotto le zampe del re, strillando non so che miracoli e spaventi, e allora la stupefazione fino a quel punto immobile delle altre galline diventò rimescolio di commossa ammirazione, e furono inchini e ossequii e riverenze e un coro confuso di complimenti e di congratulazioni, che egli accolse con altera dignità, come dovuto omaggio, col collo eretto e squassando la cresta merlata e i bargiglioni.

             Ma in quel punto si levò dal vicolo il canto rauco, stento, strozzato dall’ira del piccolo vecchio gallo nero spennacchiato della Mangiamariti, a cui quella pollastrotta prima e poi quelle altre galline erano sfuggite di furto per la buca del cortiletto.

             A questo grido di rabbia e di minaccia tacquero quasi smarrite, sgomente, le fuggitive; ma subito a rassicurarle, il giovine re si avanzò verso la buca, vi s’impostò fieramente davanti, levò la zampa e rispose con un grido di sfida.

             Le galline, in attesa di chi sa quale terribile avvenimento, s’erano ritratte, ristrette all’altro angolo del cortiletto e, pigolando sommessamente, si confidavano la paura e forse il pentimento per la curiosità che le aveva attirate là dentro.

             Fu un momento d’angosciosa aspettazione.

             Davanti alla buca il gallo lanciò con maggior fierezza una nuova sfida, e attese. Nessuno rispose dal vicolo; ma alte grida rissose si levarono invece nella soprastante cucina della casa, che turbarono e sconcertarono alquanto il giovine re e misero lo scompiglio tra le galline. Corri di qua, scappa di là, nello spavento non trovavano più la buca per sguizzare e battersela; alla fine, una la imbroccò, e via le altre dietro. Quando la Mangiamariti e donna Tuzza Michis, vociando sempre più forte, scesero giù nel cortiletto, erano scappate tutte, tranne una: la pollastrotta picchiettata bianca e nera.

             –    Dove sono? dove sono? – gridò la Michis con le mani rovesciate sui fianchi.

             –    Eccole là! – gridò l’altra, precipitandosi addosso alla pollastrotta.

             –    Uh quante! Una per miracolo! E di dove è entrata?

             –    Ah, non lo sapete? Ma guarda, che innocentina! Qua, qua, mozzica il ditino! E questo? questo che cos’è?

             –    Ah, il mattone? E chi l’ha levato?

             –    Io, l’ho levato io! io! Per farvi mangiare il becchime dalle mie galline! Non voi per rubarmi le uova…

             –    Io, le vostre uova? Ma le schifo, io, le vostre uova, lo sapete! Le schifo!

             –    Ah, le schifate? Veleno debbono farvi nello stomaco, veleno, tutte quelle che mi avete rubate. Qua, qua! questo mattone deve stare qua! così deve stare! qua! Se no, vi turo di fuori la buca, e vi faccio veder io come si fa!

             Era una pena per il gallo, che stava spaventato ad assistere alla scena, veder quella pollastrotta a capo in giù nel pugno della padrona furente. Ah certo non sarebbe più ritornata, povera cara piccina, dopo una tal lezione! Né essa né le altre certo si sarebbero più arrischiate a introdursi per quella buca. Se avesse potuto lui, invece, scappar via di lì e andarle a trovare!

             Si propose di provarcisi; e, quando fu la sera, cheto e chinato, s’accostò all’angolo ove era il mattone e, guardando cauto e timoroso la finestra, tirò all’indietro una prima zampata per rimuoverlo. Ma quella terribile vicina aveva zaffato ben bene la buca, affondando il mattone nella terra umida; e premendovi con le dita all’orlo il terriccio. Bisognava prima liberar di questo il mattone. A furia di razzolare vi riuscì, e alla fine il mattone fu rimosso. E ora?

             Si chinò a spiare attraverso la buca. Dal vicolo scosceso veniva a mala pena il barlume del lampione. Ma a un tratto come un’ombra densa venne a otturar quel barlume e in cambio nel nero della buca fulsero due tondi occhi verdi immobili. Il gallo a tal vista si ritrasse impaurito, ma si trovò addosso una nera furia unghiuta; gridò; per fortuna, la padrona, che pareva stesse di guardia, non tardò a spalancar con fracasso la finestra della cucina, e allora quella furia scappò via arrampicandosi al muro del cortiletto.

             Nessuno potè levar dal capo alla Michis, quando poco dopo scese col lume, che la Mangiamariti avesse lei col manico della scopa abbattuto il mattone, e poi introdotto nella buca quel gatto per fargli uccidere il gallo. Fu lì lì per levar le grida e svegliare tutto il vicinato perché corresse a vedere e a toccar con mano il tradimento e l’infamità di quella megera; ma poi pensò che alcuni mesi addietro ella aveva negato a colei, allora incinta, il bocconcino d’assaggio d’una pietanza saporita, di cui al solito s’era diffuso l’odore per tutto il vicolo, e che colei, a detta di tutti, per quella voglia insoddisfatta, aveva abortito e per poco non era morta. Meglio, dunque, abbozzare e far le viste di non essersi accorta di nulla. Si chinò, rizzaffò la buca per quella sera; ma, ormai convinta che il gallo lì non era più sicuro, e che colei per bizza in qualche modo glielo avrebbe fatto morire, decise di tirargli il collo la mattina seguente. Lo prese, lo tastò (al gallo parve una carezza); poi, tanto per porre un altro riparo, lo buttò nell’anditino bujo, per cui si scendeva al cortiletto, e chiuse la porticina, che si reggeva appena sui gangheri, così imporrita che, a grattarla un po’, cascava in polvere.

             Nella nuova carcere il gallo si vide perduto. A poco a poco la frigida tenebra intanfata di muffa cominciò ad allargarsi appena appena in un punto, come per un’aria d’alba lontana. E allora esso s’appressò a quel punto, che vaneggiava nel lume, e sporse il capo. S’accorse di sporgerlo fuori della porticina.

             C’era dunque una buca in quella porticina: la buca del gatto. Una là, nel cortiletto, un’altra qua. Bisognava ora superarne due.

             E si mise a dar di becco a questa, per allargarla. Lavorò tutta la notte fino all’alba.

             All’alba, avvilito, disperato, quantunque il lavoro della notte non fosse stato al tutto invano, gridò ajuto con tutte le forze che gli restavano.

             Era forse balenata nel sonno alle gallinelle del vicolo, già tutte innamorate del giovine re prigioniero, la sentenza di morte proferita dalla Michis? Il fatto è che, com’esse intesero da più lontano il suo grido, a una a una sgusciarono dall’uscio della catapecchia della Mangiamariti lasciato socchiuso dal padrone nel partirsene per la campagna, e con in testa la pollastrotta picchiettata bianca e nera, abbattuto di furia il mattone, s’introdussero nel cortiletto. Dov’era il gallo? Oh Dio, eccolo là! tentava di scappare da quell’altra buca della porticina, e non poteva. Tutte in fretta gli corsero in ajuto. Ma sopravvenne, furibondo di gelosia, il piccolo vecchio gallo nero, spennacchiato, si cacciò in mezzo a loro e, cieco d’odio e di rabbia, saltando con le penne ingrossate, quasi andassero per l’aria certi moscerini di luce ch’egli volesse ghermire a volo, s’avventò attraverso la buca della porticina contro al rivale.

             Nessuno assistette al feroce duello, là nell’andito bujo. Nessuna delle galline, neanche l’ardita pollastrotta s’arrischiò a entrare, tutte anzi presero a schiamazzare come indiavolate. Si svegliò la Michis, si svegliò la Mangiamariti, si svegliò tutto il vicinato. Ma, quando accorsero, il duello era già finito: il piccolo vecchio gallo nero giaceva a terra morto, con un occhio strappato e la testa sanguinante.

             La Mangiamariti lo raccolse e cominciò a piangerlo come un figliuolo, mentre la Michis innanzi a tutte le vicine protestava che lei non c’entrava per nulla, che anzi, la sera avanti, per levare ogni questione, aveva rinchiuso il gallo in quell’anditino; tanto vero che la porticina ne era ancora serrata. La lite tra le due donne s’accese più feroce del duello tra i due galli. Ora la Mangiamariti, in cambio del gallo ucciso, reclamava il gallo della Michis.

             –    E che me ne faccio? – gridava questa.

             –    Ve lo mangiate! – rimbeccava la Mangiamariti. – Non avevate forse comperato l’altro per mangiarvelo? Mangiatevi questo e vi faccia veleno!

             Assalita, sopraffatta dalle vicine, donna Tuzza Michis alla fine dovette cedere.

             E così, tra il plauso giocondo delle comari del vicinato, sorgendo il sole, con la scorta delle gallinelle liberatrici, tutte festanti, in testa la pollastrotta bianca e nera, il giovine re liberato uscì dalla casa della Michis in trionfo.

La liberazione del re – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
La liberazione del re – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La liberazione del re – Audio lettura 3 – Legge
Valter Zanardi
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