La levata del sole – Audio lettura

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Legge Valter Zanardi
«Lo sfavillio delle stelle, che trapungeva e allargava il cielo, non arrivava ad esser lume in terra; ma al lucido tremore di lassù pareva rispondesse lontano lontano, dalla terra tutta, un tremor sonoro, continuo, il fritinnio dei grilli.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 6 gennaio 1901, poi in Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902/1903.

La levata del sole
Immagine dal Web.

La levata del sole

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             I. Insomma, il lumetto, lì sul piano della scrivania, non ne poteva più. Riparato da un mantino verde, singhiozzava disperatamente; a ogni singhiozzo faceva sobbalzar l’ombra di tutti gli oggetti della camera, come per mandarli al diavolo; e meglio di così non lo poteva dire.

             Poteva anche parere uno spavento. Perché, nel profondo silenzio della notte, al Bombichi che passeggiava per quella stanza inghiottito dall’ombra e subito rivomitato alla luce da quel singulto del lumetto, giungeva pure di tanto in tanto dalle stanze inferiori della casa la voce rauca, raschiosa della moglie, che lo chiamava come da sottoterra:

             – Gosto! Gosto!

             Se non che egli, invariabilmente, fermandosi, rispondeva piano a quella voce, con due inchini:

             – Crepa! Crepa!

             E intanto, così bianco di cera, così tutto parato di gala, in marsina, con quello sparato lucido, e così tutto guizzi di riso nella faccia da morto, con quei gesti e scatti che gli balzavano anch’essi al soffitto, chi sa che altro poteva parere. Tanto più che, poi, accanto a quel lumetto su la scrivania, una piccola rivoltella dal manico di madreperla guizzava anch’essa… uh, sì, e come!

             – Tanto carina, eh?

             Perché – pareva solo, Gosto Bombichi – ma c’è momenti che uno si mette a parlare con se stesso come se fosse un altro, tal e quale: quell’altro lui, per esempio, che tre ore fa, prima che andasse al Circolo, glielo diceva così bene di non andarci; e – nossignori – c’era voluto andare per forza. Al Circolo dei buoni Amici. E sissignori – che bontà! Le ultime migliaja di lire orfanelle, bisognava vedere con che grazia ih quelle facce da rapina gliel’avevano sgranfignate, contentandosi di rimaner creditori su la parola di altre due o tre mila: non ricordava più con precisione.

             – Entro ventiquattr’ore.

             La rivoltella. Non gli restava altro. Quando il tempo sbatte la porta in faccia a ogni speranza e dice che non si può, inutile seguitare a picchiare: meglio voltar le spalle e andarsene.

             S’era seccato, del resto. Ne aveva la bocca così amara! Bile, no; neanche bile. Nausea. Perché s’era tanto divertito lui, ad averla tra mano come una palla di gomma elastica la vita, a farla rimbalzare con accorti colpetti, giù e su, su e giù, battere a terra e rivenire alla mano, trovarsi una compagna e giocare a rimandarsela con certi palpiti e corse avanti e dietro, para di qua, acchiappa di là; sbagliare il colpo e precipitarsele dietro. Ora gli s’era bucata irrimediabilmente e sgonfiata tra le mani.

             –    Gosto! Gosto!

             –    Crepa! crepa!

             La sciagura massima eccola là: piombatagli tra capo e collo, sei anni fa, mentre viaggiava in Germania, nelle amene contrade del Reno, a Colonia, l’ultima notte di carnevale, che la vecchia città cattolica pareva tutta impazzita. Ma questo non valeva a scusarlo.

             Era uscito da un caffè su la Hòhe Strasse con l’ottima intenzione di rientrare in albergo a dormire. A un tratto, s’era sentito vellicare dietro l’orecchio da una piuma di pavone. Maledetta atavica scimmiesca destrezza! Di primo lancio, aveva ghermito quella piuma tentatrice e, nel voltarsi di scatto, trionfante (stupido!), s’era visto davanti tre donne, tre giovani che rìdevano, gridavano, scalpitando come puledre selvagge e agitandogli davanti agli occhi le mani dalle innumerevoli dita inanellate, sfavillanti. A quale delle tre apparteneva la piuma? Nessuna aveva voluto dirlo; e allora egli, invece di prenderle a scapaccioni tutt’e tre, scelta sciaguratamente quella di mezzo, le aveva restituito con bel garbo la piuma, al patto convenuto nella tradizione carnevalesca: un bacio o un buffetto sul naso.

             Buffetto sul naso.

             Ma quella dannata, nel riceverselo, aveva socchiuso gli occhi in tal maniera, ch’egli s’era sentito rimescolare tutto il sangue. E dopo un anno, sua moglie. Ora, dopo sei:

             – Gosto!

             – Crepa!

             Figli, niente, per fortuna. Ma pure, chi sa! se ne avesse avuti, non si sarebbe forse… via, via! inutile pensarci! Quanto a lei, quella strega ritinta, si sarebbe adattata a vivere in qualche modo, se proprio proprio non se la fosse sentita di crepare, come lui amorosamente le suggeriva.

             Ora, subito, due paroline, di lettera, e basta eh?

             – L’alba di domani non la vedrò!

             Oh! A questo punto Gosto Bombichi rimase come abbagliato da un’idea. L’alba di domani? Ma in quarantacinque anni di vita, non ricordava d’aver mai visto nascere il sole, neppure una volta, mai! Che cos’era l’alba? com’era l’alba? Ne aveva sentito tanto parlare come d’un bellissimo spettacolo che la natura offre gratis a chi si leva per tempo; ne aveva anche letto parecchie descrizioni di poeti e prosatori, e sì, insomma, sapeva più o meno di che poteva trattarsi; ma lui coi proprii occhi, no, non l’aveva mai veduta, un’alba, parola d’onore.

             – Perbacco! Mi manca… Come esperienza, mi manca. Se l’hanno tanto gonfiata i poeti, sarà magari uno sciocco spettacolo; ma mi manca e vorrei pur vederlo, prima d’andarmene. Sarà tra un pajo d’ore… Ma guarda che idea! Bellissima. Vedere nascere il sole, almeno una volta, e poi…

             Si fregò le mani, lieto di questa risoluzione improvvisa. Spogliato di tutte le miserie, nudo d’ogni pensiero, lì, fuori, all’aperto, in campagna, come il primo uomo o l’ultimo sulla faccia della terra, ritto su due piedi, o meglio comodamente a sedere su qualche pietra, o con le spalle, meglio ancora, appoggiate a un tronco d’albero, la levata del sole, ma sì, chi sa che piacere! veder cominciare un altro giorno per gli altri e non più per sé! un altro giorno, le solite noje, i soliti affari, le solite facce, le solite parole, e le mosche, Dio mio, e poter dire: non siete più per me.

             Sedette alla scrivania e, tra un singhiozzo e l’altro del lumetto moribondo, scrisse in questi termini alla moglie:

             Cara Aennchen,

             Ti lascio. La vita, te l’ho detto tante volte, m’è parsa sempre un giuoco d’azzardo. Ho perduto: pago. Non piangere, cara. Ti sciuperesti inutilmente gli occhi, e sai che non voglio. Del resto, t’assicuro che non ne vale proprio la pena. Dunque, addio. Prima che spunti il giorno, mi troverò in qualche luogo da cui si possa goder bene la levata del sole. M’è nata in questo momento una vivissima curiosità d’assistere almeno una volta a questo tanto decantato spettacolo di natura. Sai che ai condannati a morte non si suol negare l’esaudimento di qualche desiderio possibile. Io voglio passarmi questo.

             Senz’altro da dirti, ti prego di non credermi più

             il tuo aff.mo

             GOSTO

             E poiché la moglie, giù, era ancora sveglia e da un momento all’altro, se saliva, accorgendosi di quella lettera, addio ogni cosa; decise di portarla via con sé e di buttarla senza francobollo in qualche cassetta postale della città.

             – Pagherà la multa e forse sarà questo l’unico suo dispiacere.

             Tu qua – disse poi alla piccola rivoltella, facendole posto in un taschino del panciotto di velluto nero, ampiamente aperto su lo sparato della camicia. E così come si trovava, in tuba e frac, uscì di casa per salutar la levata del sole e tanti ossequi a chi resta.

             II. Era piovuto, e per le strade deserte i fanali sonnacchiosi verberavano d’un giallastro lume tremolante l’acqua del lastrico. Ma ora il cielo cominciava a rasserenarsi; sfavillava qua e là di stelle. Meno male! Non gli avrebbe guastato lo spettacolo.

             Guardò l’orologio; le due e un quarto! Come aspettar così, per le vie, tre ore forse, forse più? Quando spuntava il sole in quella stagione? Anche la natura, come un qualunque teatro, dava i suoi spettacoli a ore fisse. Ma a questo orario egli era impreparato.

             Solito di rincasar tardissimo ogni notte, era avvezzo all’eco dei suoi pass’i nelle vie lunghe silenziose della città. Ma, le altre notti, i suoi passi avevano una meta ben nota: ogni nuovo passo lo avvicinava alla sua casa, al suo letto. Ora, invece…

             S’arrestò un momento. Da lontano, terra terra, un lume si moveva lungo il marciapiedi, lasciandosi dietro un’ombra traballante, quasi di bestia che non si reggesse bene su le gambe.

             Un ciccajolo col suo lanternino.

             Eccolo là! E quell’uomo poteva campare di ciò che gli altri buttavano via; d’una cosettucciaccia amara, velenosa, schifosa.

             – Dio, e che schifosa malinconia anche la vita.

             Gli venne tuttavia la tentazione di mettersi a cercare un tratto con quel ciccajolo. Perché no? Poteva permettersi tutto, ormai. Sarebbe stata una distrazione, un’altra esperienza. Perdio, gliene mancavano parecchie, gliene mancavano. Lo chiamò, gli diede il sigaro appena acceso.

             – Ah? Te lo fumi?

             Lurido, irsuto, colui aprì la boccaccia sdentata e fetida a un riso da scemo; rispose:

             – Prima lo riduco cicca. Poi la metto insieme con le altre. Grazie, signorino. Gosto Bombichi lo guatò con ribrezzo. Ma anche colui lo guatava con gli

             occhi scerpellati, invetrati di lagrime dal freddo, e con quel laido ghigno rassegato su le labbra, come se…

             – Se volesse, signorino – disse infatti, alla fine, strizzando uno di quegli occhi. – Sta qui a due passi.

             Gosto Bombichi gli voltò le spalle. Ah, via! Uscire al più presto dalla città, da quella cloaca. Via, via! Camminando all’aperto, avrebbe trovato il punto migliore per godere dell’ultimo spettacolo, e addio.

             Andò con passo svelto, finché non oltrepassò le ultime case di quella strada, che sboccava nella campagna. Qui si rifermò e si guardò attorno, smarrito. Poi guardò in alto. Ah, il cielo ampio, libero, fervido di stelle! Che guizzi di luce innumerevoli, che palpito continuo! trasse un respiro di sollievo: se ne sentì refrigerato. Che silenzio! che pace! Com’era diversa, la notte qui, pure a due passi dalla città… Il tempo che lì, per gli uomini, era guerra, intrigo di tristi passioni, noja acre e smaniosa, qui era attonita, smemorata quiete. A due passi, un altro mondo. Chi sa perché, intanto, provava uno strano ritegno, quasi di sgomento, a muovervi i piedi.

             Gli alberi, sfrondati dalle prime ventate d’autunno, gli sorgevano attorno come fantasmi dai gesti pieni di mistero. Per la prima volta li vedeva così e ne sentiva una pena indefinibile. Di nuovo si fermò perplesso, quasi oppresso di pauroso stupore; tornò a guardarsi attorno, nel bujo.

             Lo sfavillio delle stelle, che trapungeva e allargava il cielo, non arrivava ad esser lume in terra; ma al lucido tremore di lassù pareva rispondesse lontano lontano, dalla terra tutta, un tremor sonoro, continuo, il fritinnio dei grilli. Tese l’orecchio a quel canto, con tutta l’anima sospesa: percepì allora anche il fruscio vago delle ultime foglie, il brulichio confuso della vasta campagna nella notte, e provò un’ansia strana, una costernazione angosciosa di tutto quell’ignoto indistinto, che formicolava nel silenzio. Istintivamente, per sottrarsi a queste minute, sottilissime percezioni, si mosse.

             Nella zana a destra di quella via di campagna scorreva un’acqua, silenziosa nell’ombra, la quale, qua e là, s’alluciava un attimo quasi per il riflesso di qualche stella, o forse era una lucciola che vi sprazzava sopra, a tratti, volando, il suo verde lume.

             Camminò lungo quella zana fino a un primo passatojo e montò sul ciglio della via per internarsi nella campagna. La terra era ammollata dalla pioggia recente; gli sterpi ne gocciolavano ancora. Mosse, sfangando, alcuni passi e si fermò, scoraggiato. Povero abito nero! povere scarpine di coppale! Ma infine, via, che bel gusto, anche, insudiciar tutto così!

             Un cane abbajò, poco lontano.

             – Eh, no… se non è permesso… Morire, sì, ma, con le gambe sane.

             Si provò a ridiscendere su la via: patapùnfete scivolò per il lurido pendio; e una gamba, manco a dirlo, dentro l’acqua della zana.

             – Mezzo pediluvio… Be’ be’, pazienza. Non avrò tempo di prendere una costipazione.

             Si scosse l’acqua dalla gamba e s’inerpicò a stento dall’altra parte della via.

             Qua la terra era più soda; la campagna meno alberata. A ogni passo s’aspettava un altro latrato.

             A poco a poco gli occhi s’erano abituati al bujo; discernevano, anche a distanza, gli alberi. Non appariva alcun segno di prossima abitazione. Tutto intento a superare le difficoltà del cammino, con quel piede zuppo che gli pesava come fosse di piombo, non pensò più al proposito violento che lo aveva cacciato di notte lì, per la campagna. Andò a lungo, a lungo, sempre internandosi di traverso. La campagna declinava leggermente. Lontano, lontano, in fondo al cielo, si disegnava nera nell’albor siderale una lunga giogaja di monti. L’orizzonte s’allargava; non c’eran più alberi da un pezzo. Oh via, non era meglio fermarsi lì? Forse il sole sarebbe sorto su da quei monti lontani.

             Guardò di nuovo l’orologio e gli parve da prima impossibile che fossero già circa le quattro. Accese un fiammifero: sì, proprio le quattro meno sei minuti. Si meravigliò d’aver tanto camminato. Era stanco difatti. Sedette per terra; poi scorse un masso poco discosto e andò a seder, meglio, lì sopra. Dov’era? – Bujo e solitudine!

             – Che pazzia…

             Spontaneamente, da sé, gli venne alle labbra questa esclamazione, come un sospiro del suo buon senso da lungo tempo soffocato. Ma, riscosso dal momentaneo stordimento, lo spirito bislacco da cui s’era lasciato trascinare a tante pazze avventure riprese subito in lui il dominio sul buon senso, e se n’appropriò l’esclamazione. Pazzia, sì, quella scampagnata notturna poco allegra. Avrebbe fatto meglio a uccidersi in casa, comodamente, senza il pediluvio, senza insudiciarsi così le scarpe, i calzoni, la marsina, e senza stancarsi tanto. È vero che avrebbe avuto tutto il tempo di riposarsi, tra poco. E poi, ormai, giacché fin lì c’era arrivato… Sì: ma chi sa per quanto tempo ancora doveva aspettare questa benedetta levata del sole… Forse più di un’ora: un’eternità… E aprì la bocca a un formidabile sbadiglio.

             – Ohi ohi… se m’addormentassi… Brrr… fa anche freddo: umidaccio.

             Tirò su il bavero della marsina; si cacciò le mani in tasca e, tutto ristretto in sé, chiuse gli occhi. Non stava comodo, no. Mah! per amor dello spettacolo… Si riportò col pensiero alle sale del Circolo illuminato a luce elettrica, tepide, splendidamente arredate… Rivedeva gli amici… e già cedeva al sonno, quando a un tratto…

             – Che è stato?

             Sbarrò gli occhi, e la notte nera gli si spalancò tutt’intorno nella paurosa solitudine. Il sangue gli sfrizzava per tutte le vene. Si trovò in preda a una vivissima agitazione. Un gallo, un gallo aveva cantato lontano, in qualche parte… ah ecco, e ora un altro da più lontano gli rispondeva… laggiù, nella fitta oscurità.

             – Perbacco, un gallo… che paura!

             Sorse in piedi: andò per un tratto avanti e dietro, senza allontanarsi da quel posto, ove per un momento s’era accovacciato. Si vide lui stesso come un cane che, prima di riaccovacciarsi, sente il bisogno di rigirarsi due o tre volte. Difatti, tornò a sedere, ma daccapo per terra, accanto al masso, per star più scomodo e non farsi così riprendere dal sonno.

             Eccola lì, la terra: duretta… duretta anzichenò… vecchia, vecchia Terra! la sentiva ancora! per poco tempo ancora… Tese una mano a un cespuglio radicato sotto il masso e l’accarezzò, come si accarezza una femmina passandole una mano su i capelli.

             – Aspetti l’aratro che ti squarci; aspetti il seme che ti fecondi…

             Ritrasse la mano che gli s’era insaponata d’una fragranza di mentastro acuta.

             – Addio, cara! – disse, riconoscente, come se quella femmina con quella fragranza lo avesse compensato della carezza che le aveva fatto.

             Triste, cupo, si raffondò di nuovo col pensiero nella sua vita tumultuosa; tutta l’uggia, tutta la nausea di essa gli si raffigurò a poco a poco in sua moglie: se la immaginò nell’atto di leggere la sua lettera, fra quattro o cinque ore… Che avrebbe fatto?

             – Io qui… – disse; e si vide, morto, lì, steso scomposto in mezzo alla campagna, sotto il sole, con le mosche attorno alle labbra e gli occhi chiusi.

             Poco dopo, dietro i monti lontani, la tenebra cominciò a diradarsi appena appena a un indizio d’albore. Ah, com’era triste, affliggente, quella primissima luce del cielo, mentre sulla terra era ancor notte, sicché pareva che quel cielo sentisse pena a ridestarla alla vita. Ma a poco a poco s’inalbò tutto, su i monti, il cielo, d’una tenera freschissima luce verdina, che a mano a mano, crescendo, s’indorava e vibrava della sua stessa intensità. Lievi, quasi fragili, rosei ora, in quella luce, pareva respirassero i monti laggiù. E sorse alla fine, flammeo e come vagellante nel suo ardore trionfale, il disco del sole.

             Per terra, sporco, infagottato, Gosto Bombichi, col capo appoggiato al masso, dormiva profondissimamente, facendo, con tutto il petto, strepitoso mantice al sonno.

La levata del sole – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La levata del sole – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La levata del sole – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
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