Legge Lorenzo Pieri.
«Tutte, tutte calunnie. Egli era un apostolo. Egli lavorava per la giustizia. La soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall’amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava. E tutti in un pugno li teneva.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 6 giugno 1910, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.
La lega disciolta
Legge Lorenzo Pieri
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Al caffè, dove Bómbolo stava tutto il giorno, col berretto rosso da turco sul testone ricciuto, un pugno chiuso sul marmo del tavolino in atto d’impero, l’altra mano al fianco, una gamba qua, una gamba là, guardando tutti in giro, senza disprezzo ma con gravità accigliata, quasi per dire: «I conti qua, signori miei, lo sapete, bisogna farli con me», venivano uno dopo l’altro i proprietarii di terre non soltanto di Montelusa, ma anche dei paesi del circondario, anche il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli (quello che andava sempre col pomo d’avorio della mazzettina d’ebano sulle labbra appuntite, come se sonasse il flauto), anche il barone don Mauro Ragona, anche il Tavella, tutti insomma, con tanto di cappello in mano.
– Don Zulì, una grazia…
E Bómbolo, all’atto deferente, subito – bisogna dirlo – balzava in piedi, si cavava il berretto, s’impostava sull’attenti e con la testa alta e gli occhi bassi rispondeva:
– Ai comandi, Eccellenza.
Erano le solite lagnanze e le solite raccomandazioni. Al Nigrelli erano spariti dalla costa quattro capi di bestiame; otto al Ragona dall’addiaccio; cinque al Tavella dalla stalla. E uno veniva a dire che gli avevano legato all’albero il garzone che li badava; e un altro, che gli avevano finanche rubato la vacca appena figliata, lasciando il buccelluzzo che piangeva e sarebbe morto di fame senza dubbio.
In prima Bómbolo, invariabilmente, per concedere una giusta soddisfazione all’oltraggio patito, esclamava:
– Ah, birbanti!
Poi, giungendo le mani e scotendole in aria:
– Ma, padroni miei, padroni miei… Diciamo birbanti; in coscienza però, a voltar la pagina, quanto tirano al giorno questi birbanti? Tre «tari» tirano! E che sono tre «tari»? Oggi com’oggi, un uomo, un figlio di Dio che lavorato – vera carne battezzata come Vossignoria, non come me, io sono turco – sissignore – turco… eccolo qua – (e presentava il fez) – dicevamo, un uomo che butta sangue con la zappa in mano dalla punta dell’alba alla calata del sole, senza sedere mai, altro che per mandar giù a mezzogiorno un tozzo di pane con la saliva per companatico; un uomo che le torna all’opera masticando l’ultimo boccone, dico, padrone mio, pagarlo tre «tari», in coscienza, non è peccato? Guardi don Cosimo Lopes! Dacché s’è messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno, ha da lagnarsi più di nulla? Nessuno più s’attenta a levargli… che dico? – (allungava due dita, si tirava dal capo con uno strappo netto un capello e lo mostrava) – è buono questo? neanche questo! Tre lire, signorino, tre lire sono iuste! Faccia come le dico io; e se domani qualcuno le manca di rispetto, tanto a lei quanto alle bestie, venga a sputarmi in faccia: io sono qua.
In fine, cangiando aria e tono, concludeva: – Quanti capi ha detto? Quattro? Lasci fare a me. Vado a sellare.
E fingeva di mettersi in cerca di quei capi di bestiame per le campagne, due o tre giorni, cavalcando anche di notte sotto la pioggia e sotto lo stellato. Nessuno ci credeva, e nemmeno credeva lui che gli altri ci credessero. Sicché, quando, in capo ai tre giorni, si presentava in casa o del marchese Nigrelli o del Ragona o degli altri, e questi lo accoglievano con la solita esclamazione:
«Povero don Zulì, chi sa quanto avete penato!» – egli troncava con un gesto reciso della mano l’esclamazione, chiudeva gli occhi con gravità:
– Lasciamo andare! – diceva. – Ho penato, ma li ho scovati. E prima di tutto le do parte e consolazione che alle bestie hanno dato stalla e cura. Dove stanno, stanno bene. I «picciotti» non sono cattivi. Cattivo è il bisogno. E creda che se non fosse il bisogno, per il modo come sono pagati… Basta. Pronti a restituire le bestie; però, al solito, Vossignorìa m’intende… Oh, trattando con Vossignoria, e con me di mezzo, senza né patti né condizioni: la sua buona grazia, quello che il cuore le detta. E stia sicuro che stanotte, puntuali, verranno a riportarle su la costa le bestie, più belle di prima.
Gli sarebbe sembrata una mancanza di rispetto, così a sé come al signore, accennare anche lontanamente al sospetto, che quei bravi «picciotti» potessero trovare la notte in agguato guardie e carabinieri. Sapeva bene che, se il signore s’era rivolto a lui, era segno che stimava inutile il ricorrere alla forza pubblica per riavere le bestie. Non le avrebbe riavute, di sicuro. Nel riaverle così, mediante quel piccolo salasso di denari, con Bómbolo di mezzo, ogni idea di tradimento doveva essere esclusa.
E Bómbolo prendeva il denaro, cinquecento, mille, duemila lire, a seconda del numero delle bestie sequestrate, e questo denaro ogni settimana, il sabato sera, recava intatto ai contadini della Lega, che si raccoglievano in un fondaco su le alture di San Gerlando.
Qua si faceva la «giusta». Cioè, a ogni contadino che durante la settimana aveva lavorato per tre «tari» al giorno (lire 1,25) veniva secondo giustizia computata la giornata in ragione di tre lire, e gli era dato il rimanente. Quelli che, non per colpa loro, avevano «seduto», cioè non avevano trovato lavoro, ricevevano sette lire, una per giorno; prima però venivano detratte, come per sacro impegno, le pensioncine settimanali assegnate alle famiglie di tre socii, Todisco, Principe e Barrerà che, arrestati per caso di notte da una pattuglia in perlustrazione e condannati a tre anni di carcere, avevano saputo tacere; una parte della somma era poi destinata per gli sbruffi ai campieri e ai guardiani di bestiame che, d’intesa, si facevano legare e imbavagliare; il resto, se ne restava, era conservato come fondo di cassa.
Bómbolo non toccava un centesimo, quel che si dice un centesimo. Erano tutte infamie, tutte calunnie quelle che si spargevano sul conto suo a Montelusa. Già egli non aveva bisogno di quel denaro. Era stato tanti anni nel Levante, e vi aveva fatto fortuna. Non si sapeva dove, precisamente, né come, ma nel Levante aveva fatto fortuna, certo; e non sarebbe andato appresso a quei pochi quattrinucci rimediati a quel modo. Lo dicevano chiaramente quel suo berretto rosso e l’aria del volto e il sapore dei suoi discorsi e quello speciale odore che esalava da tutta la persona, un odor quasi esotico, di spezie levantine, forse per certi sacchettini di cuojo e bossoletti di legno che teneva addosso, o forse per il fumo del suo tabacco turco, di contrabbando, che gli veniva dalle navi che approdavano nel vicino porto di mare, e con le quali egli era in segreti commerci, almeno a detta di molti, che per ore e ore certe mattine lo vedevano con quel fiammante cupolino in capo guardare, come all’aspetto, sospirando, l’indaco del mare lontano, se da Punta Bianca vi brillasse una vela… Aveva poi sposato una dei Dimìno, ch’erano notoriamente tra i più ricchi massari del circondario, massari buoni, di quelli all’antica, che avevano terre che ci si camminava a giornate senza vederne la fine; e zi’ Lisciànnaru Dimìno e sua moglie, quantunque la loro figliola dopo appena quattr’anni di matrimonio fosse morta, gli volevano ancora tanto bene, che si sarebbero levata la camicia per lui.
Tutte, tutte calunnie. Egli era un apostolo. Egli lavorava per la giustizia. La soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall’amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava. E tutti in un pugno li teneva. L’esperienza gli aveva insegnato che, a raccoglierli apertamente in un fascio perché resistessero con giusta pretesa all’avarizia prepotente dei padroni, il fascio, con una scusa o con un’altra, sarebbe stato sciolto e i caporioni mandati a domicilio coatto. Con la bella giustizia che si amministrava in Sicilia! Non se ne fidavano neanche i signori! Là, là nel fondaco di San-Gerlando, amministrava lui, la giustizia, quella vera; in quel modo, ch’era l’unico. I signori proprietarii di terre volevano ostinarsi a pagar tre «tari» la giornata d’un uomo? Ebbene, quel che non davano per amore, lo avrebbero dato per forza. Pacificamente, ohe. Senza né sangue né violenze. E col dovuto rispetto alle bestie.
Aveva un cartolare, Bómbolo, ch’era come un decimano di comune, dove, accanto a ogni nome erano segnati i beni e i luoghi e il novero delle bestie grosse e delle minute. Lo apriva, chiamava a consulto i più fidati, e stabiliva con essi quali tra i signori dovessero per quella settimana «pagar la tassa», quali tra i contadini fossero più designati, o per pratica dei luoghi o per amicizia coi guardiani o perché d’animo più sicuro, al sequestro delle bestie. E raccomandava prudenza e discrezione.
– Il poco non fa male!
Questa era una delle sue massime favorite. Diventava terribile, ma proprio col sangue agli occhi e la bava alla bocca, quando s’accorgeva o veniva a sapere che qualcuno della Lega «voleva far la carogna», cioè non lavorare. Lo investiva, lo abbrancava per il petto, gli metteva le unghie nel viso, lo scrollava così furiosamente, che gli faceva cader dal capo il berretto e venir fuori la camicia dai pantaloni.
– Cima di birbante! – gli urlava in faccia. – Chi sono io? per chi mi vuoi far conoscere? per chi mi prendi tu dunque? per un protettore di ladri e di vagabondi? Qua sangue s’ha da buttare, carogna! sangue, sudori di sangue! qua tutti con le ossa rotte dalla fatica dovete presentarvi il sabato sera! O questo diventa un covo di malfattori e di briganti! Io ti mangio la faccia, se tu non lavori; sotto i piedi ti pesto! Il lavoro è la legge! Col lavoro soltanto acquistate il diritto di prendere per le corna una bestia dalla stalla altrui e di gridare in faccia al padrone: «Questa me la tengo, se non mi paghi com’è debito di coscienza i miei sudori di sangue!».
Faceva paura, in quei momenti. Tutti, muti come ombre, stavano ad ascoltarlo nel fondaco nero, mirando la fiamma filante del moccolo di candela ritto tra la colatura su la tavola sudicia come una roccia di cacio. E dopo la fiera invettiva si sentiva l’ansito del suo torace poderoso, a cui pareva rispondessero, dalla tenebra frigida d’una grotta, che vaneggiava in fondo, i cupi tonfi cadenzati delle gocce d’una cert’acqua amara, renosiccia, piombanti entro una conca viscida, dove alle volte qualche ranocchia quacquarava.
Se qualcuno ardiva di levare gli occhi, vedeva in quei momenti, dopo la sfuriata, un luccicore di lagrime, di lagrime vere negli occhi di Bómbolo. Era vanto supremo per lui la testimonianza che gli stessi proprietarii di terre rendevano unanimi, che mai come in quei tempi i contadini s’erano dimostrati sottomessi al lavoro e obbedienti. Solo da questo riconoscimento poteva venir purificata, santificata l’opera ch’egli metteva per loro. Orbene, in quei momenti, vedeva ignominiosamente compromessa la giustizia che, sul serio, con santità, sentiva d’amministrare; compromesso il suo apostolato, il suo onore, per quell’uno che poteva infamar tutti. Sentiva enorme, allora, il peso della sua responsabilità, e ribrezzo per l’opera sua, e sdegno e dolore, perché gli pareva che i contadini non gli fossero grati abbastanza di quanto aveva loro ottenuto, di quel salario di tre lire che, batti oggi, batti domani, era riuscito a strappare all’avarizia dei padroni.
Per lui erano sacri, e sacri voleva che fossero per tutti i socii della Lega, quelli che si erano arresi alla sua costante predicazione, concedendo il giusto salario. Se talvolta mancava il danaro e, cercando e ricercando nel cartolare, non si trovava chi, al solito, per quella settimana dovesse «pagar la tassa», qualcuno tra i consiglieri accennava timidamente a uno di quelli; Bómbolo si voltava a fulminarlo con gli occhi, bianco d’ira e fremente. Quelli non si dovevano toccare! Ma, allora?
– Allora, – scattava Bómbolo, buttando all’aria il cartolare, – allora, piuttosto, salassiamo mio suocero!
E a due o tre contadini era assegnato il compito di recarsi la notte alle terre di Luna, presso la marina, per sequestrare sei o sette bestie grosse a zio Lisciànnaru Dimìno, che pure tra i primi s’era messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno.
Poteva bastar questo a turare la bocca ai calunniatori. Salassando il suocero, Bómbolo rubava a se stesso, perché l’unico erede dei Dimìno sarebbe stato un giorno il suo figliuolo. Ma piuttosto rubare a se stesso, al suo figliuolo, che far offesa alla giustizia. E che strazio ogni qual volta il vecchio suocero, che vestiva ancora all’antica, con le brache a mezza gamba, la berretta nera a calza con la nappina in punta e gli orecchini in forma di catenaccetti agli orecchi, veniva a trovarlo, appoggiato al lungo bastone, dalle terre di Luna, e gli diceva:
– Ma come, Zulì? così ti rispettano i tuoi? e che sei tu allora? broccolo sei?
– Mi sputi in faccia, – rispondeva Bómbolo, succiando, con gli occhi chiusi, il fiele di quel giusto rimbrotto. – Mi sputi in faccia, che posso dirle?
Gli pareva ormai mill’anni che uscissero dal carcere quei tre socii, Todisco, Principe e Barrerà, per sciogliere finalmente quella Lega, ch’era divenuta un incubo per lui.
Fu una gran festa, il giorno di quella scarcerazione, nel fondaco su a San Gerlando: si bevve e si danzò; poi Bómbolo, raggiante, tenne il discorso di chiusura, e ricordò le imprese e cantò la vittoria, ch’era il premio per quei tre che avevano sofferto il carcere: il premio più degno, quello di trovare mutate le condizioni, onestamente retribuito il lavoro; e disse in fine che egli ora, assolto il compito, si sarebbe ritirato in pace e contento; e fece ridere tutti annunziando che quel giorno stesso avrebbe mandato il suo berretto rosso da turco al suocero, che non aveva saputo mai vederglielo in capo di buon occhio. Deponeva con quel berretto la sovranità, e dichiarava sciolta la Lega.
Non passarono neppure quindici giorni che, dimenandosi al solito di qua e di là, col pomo d’avorio della mazzettina d’ebano su le labbra appuntite, si presentò al caffè il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli:
– Don Zulì, una grazia…
Bómbolo diventò dapprima più bianco del marmo del tavolino e fissò con occhi così terribilmente spalancati il povero marchese, che questi ne tremò di paura e, traendosi indietro, cadde a sedere su una seggiola, mentre l’altro gli si levava sopra furente, ruggendo tra i denti:
– Ancora?
Quasi basito, eppur tentando un sorrisetto a fior di labbra, il marchese gli mostrò quattro dita della sua manina tremicchiante e gli disse:
– ’Gnorsì. Quattro. Al solito. Che c’è di nuovo?
Per tutta risposta Bómbolo si strappò dal capo il cappelluccio nuovo a pandi zucchero, se lo portò alla bocca e lo stracciò coi denti. Si mosse, tutto in preda a un fremito convulso, tra i tavolini, rovesciando le seggiole, poi si voltò verso il marchese ancora lì seduto in mezzo agli avventori sbalorditi, e gli gridò:
– Non dia un centesimo, per la Madonna! Non s’arrischi a dare un centesimo! Ci penso io!
Ma potevano sul serio quei tre, Todisco, Principe e Barrerà, contentarsi di quel tal «premio degno» decantato da Bómbolo nell’ultima riunione della Lega? Se Bómbolo stesso, negli ultimi tempi, aveva permesso che fosse salassato il proprio suocero, il quale pure tra i primi aveva accordato il salario di tre lire ai contadini, non potevano essi, per la giustizia, seguitare a salassar gli altri proprietarii?
Quando, alla sera, Bómbolo, che li aveva cercati invano tutto il giorno da per tutto, li trovò su le alture di San Gerlando, e saltò loro addosso come un tigre, essi si lasciarono percuotere, strappare, mordere, malmenare, e anzi dissero che se egli li voleva uccidere, era padrone, non avrebbero mosso un dito per difendersi, tanto era il rispetto, tanta la gratitudine che avevano per lui. Li avrebbe uccisi però a torto. Essi non sapevano nulla di nulla. Innocenti come l’acqua. Lega? che Lega? Non c’era più Lega! Non la aveva egli disciolta? Ah, minacciava di denunziarli? Perché, per il passato? E allora, tutti dentro, e lui per il primo, come capo! Per quel nuovo sequestro al marchese Nigrelli? Ma se non ne sapevano nulla! Avrebbero potuto tutt’al più chiederne ai «picciotti»; mettersi in cerca per le campagne; già! come lui un tempo, per due e tre giorni, cavalcando anche di notte sotto la pioggia e sotto lo stellato.
Sentendoli parlare così, Bómbolo si mangiava le mani dalla rabbia. Disse che dava loro tre giorni di tempo. Se in capo a tre giorni, senza il compenso neppure di un centesimo, i quattro capi di bestiame non erano restituiti al marchese Nigrelli… – che avrebbe fatto? Ancora non lo sapeva!
Ma che poteva ormai fare Bómbolo? Gli stessi proprietarii di terre, il marchese Nigrelli, il Ragona, il Tavella, tutti gli altri, lo persuasero ch’egli non poteva più far nulla. Che c’entrava lui? quando mai c’era entrato? non era stata sempre disinteressata l’opera messa da lui? E dunque, che c’era adesso di nuovo? Perché non voleva più mettere l’opera sua? Rivolgersi alla forza pubblica? Ma sarebbe stato inutile! Che non si sapeva? Non avrebbero ottenuto né la restituzione delle bestie, né l’arresto dei colpevoli. Sperare poi che questi avrebbero ricondotto alle stalle le bestie, così, per amore, senz’averne nulla, via, era da ingenui. Loro stessi, i padroni, glielo dicevano. Una cosellina bisognava pur darla. Sì, al solito… oh, senza né patti né condizioni, essendoci lui, Bómbolo, di mezzo!
E dal tono con cui gli dicevano queste cose Bómbolo capiva che quelli ritenevano una commedia, adesso, il suo sdegno, come una commedia avevano prima ritenuta la sua pietà per i contadini.
Si sfogò per alcuni giorni a predicare che, almeno, si fossero rimessi a pagarli tre tari al giorno, tre tari, tre tari, per dare a lui una soddisfazione. Non li meritavano, parola d’onore! neppure quei tre tari meritavano, ladri svergognati ! figli di cane! pezzi da galera! No? Ah, dunque volevano proprio che gli schiattasse nel fegato la vescichetta del fiele?
– Via! puh! paese di carogne!
E mandò dai nonni alle terre di Luna il suo figliuolo, facendo dire al suocero che rivoleva subito subito il suo berretto rosso. Turco, di nuovo turco voleva farsi !
E due giorni dopo, raccolte le sue robe, scese al porto di mare e si rimbarcò su un brigantino greco per il Levante.
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