1917 – La giara – Commedia in un atto

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La commedia, di gusto campestre e giocoso, vive tutta nel contrasto fra due personaggi di opposto carattere, pittoreschi rappresentanti di una civiltà contadina, vivacemente messa in evidenza dal colorito dialogo e dalla corale partecipazione agli avvenimenti di tutti gli abitanti del fondo rustico.

FONTE  Novella «La giara» (1909)
STESURA ottobre? 1916 – traduzione 1925
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 9 luglio 1916  – Roma, Teatro Nazionale, Compagnia di Angelo Musco in dialetto siciliano col titolo ’A giarra. 30 marzo 1925 – Roma, in italiano.

Approfondimenti nel sito:
Sezione Tematiche – Lidia Fera – La giara – Riassunto ed analisi della novella di Pirandello
Sezione Tematiche – Maria Cristina Riffero – Pirandello rusticano: La Giara e Liolà
Sezione Novelle – La giara

N’ Sicilianu A’ giarra

««« Elenco delle opere in versione integrale
««« Introduzione al Teatro di Pirandello.

La giara - Commedia in un atto
Turi Pandolfini, La Giara dal film a episodi Questa è la vita, 1954. Immagine dal Web.

.    Premessa

        Commedia in un atto derivata dalla novella omonima (1909); fu scritta in dialetto agrigentino, col titolo ‘A giarra, probabilmente nell’ottobre del 1916 e rappresentata a Roma il 9 luglio 1917. La successiva versione di Pirandello in lingua italiana, scritta forse nei primi mesi del 1925, fu rappresentata a Roma il 30 marzo 1925. Frattanto Alfredo Casella ne aveva tratto la commedia musicale coreografica in un atto dallo stesso titolo, con coreografia di Giorgio de Chirico, rappresentata a Parigi nel 1924.

        La commedia, di gusto campestre e giocoso, vive tutta nel contrasto fra due personaggi di opposto carattere, pittoreschi rappresentanti di una civiltà contadina, vivacemente messa in evidenza dal colorito dialogo e dalla corale partecipazione agli avvenimenti di tutti gli abitanti del fondo rustico. I due sono Lolò Zirafa, proprietario di una bellissima giara «nuova fiammante», che si è rotta, e Zi Dima, l’artigiano incaricato di ripararla. Lolò dà continuamente in escandescenze per tutto quello che avviene nel suo podere; la rottura della giara lo manda addirittura in bestia. Egli s’è portato in campagna l’avvocato Scimè e lo perseguita, interpellandolo per ogni fatto anche minimo per difendere i suoi interessi, che sente continuamente lesi. Un uomo così iracondo, interessato e causidico (porta sempre con sé il codice civile) si trova ad avere a che fare con lo scontroso Zi Dima, che alle sue esplosioni d’ira che terrorizzano i contadini, non si scompone affatto e gli risponde sempre per le rime. Il caso beffardo giuoco un brutto tiro a Lolò Zirafa, la sua giara è eccezionalmente stretta di bocca; Zi Dima l’aggiusta da dentro, ma quando fa per uscirne non vi riesce. Alloggio abusivo o sequestro di persona? Ne nasce un paradossale «caso» che diverte l’avvocato Scimè e tutti gli astanti ed esaspera sempre più la contorta coscienza giuridica di Lolò Zirafa. Per liberare Zi Dima occorrerebbe rompere di nuovo la giara; ma il vecchio conciabrocche non vuol saperne di ripagarla come pretenderebbe Lolò. E decide di rimanere nella giara. Su consiglio dell’avvocato, Lolò s’allontana, sperando che la notte induca Zi Dima a più miti consigli.

        Invece lo scanzonato prigioniero organizza un’allegra festa intorno alla giara, acquistando vino e cibarie – è una vera beffa – proprio con le dieci lire che Lolò ha voluto fargli accettare come compenso del lavoro da lui eseguito, con la riserva mentale di mettersi in regola di fronte alla legge e di acquisire maggiori diritti contro di lui in una civile vertenza. Il festoso baccano costellato di entusiastici evviva per Zi Dima, tra canti al suono dello «scacciapensieri» e balli intorno alla giara, esaspera l’iracondo Lolò che irrompe con furia fra i festanti e sferra un calcio alla giara, mandandola a rompersi contro un albero. Zi Dima ne esce illeso e trionfante. Le donne lo applaudono, gli uomini esprimono la loro gioia issandolo sulle spalle e portandolo in trionfo.

        È la gioiosa rivalsa di tutti contro l’arroganza vessatoria di Lolò Zirafa, rappresentata con schietta e sorridente arguzia.

La giara
Commedia in un atto – 1917

Personaggi

Don Lolò Zirafa
Zi’ Dima Licasi, conciabrocche
L’avvocato Scimè
‘Mpari pè, garzone
Tararà, Fillicò, contadini abbacchiatori
La ‘gnà Tana, Trisuzza, Carminella, contadine raccoglitrici d’olive
Un Mulattiere
Nociarello, ragazzo di undici anni, contadino

Campagna siciliana. Oggi.

       Spiazzo erboso davanti alla cascina di don Lolò Zirafa in vetta a un poggio. A sinistra è la facciata della cascina, rustica, a un sol piano. La porta, rossa, un po’ stinta, è nel mezzo; sopra la porta, un balconcino. Finestre sopra e sotto: quelle di sotto, con grate. A destra, un secolare olivo saraceno; e, attorno al tronco scabro e stravolto, un sedile di pietra, murato tutt’in giro. Di là dall’olivo lo spiazzo scoscende con un viottolo. Infondo, degradanti per il pendio del poggio, altri olivi. È ottobre.

       Al levarsi della tela, ’Mpari Pè, sentendo un canto campestre delle donne, che vengono su per il viottolo a destra con ceste colme d’olive sul capo o tra le braccia, montato sul sedile attorno all’olivo saraceno, grida:

       ’MPARI PÈ. O oh! Toppe senza chiave! E tu costà, moccioso! Piano, corpo di… badate al carico!

       (Le donne e Nociarello vengono su dal viottolo a destra, cessando il canto.)

       TRISUZZA. O che vi piglia, ’Mpari Pè?

       LA ’GNÀ TANA. Alla grazia! Avete imparato anche voi a sacramentare?

       CARMINELLA. Anche gli alberi di qui a poco si metteranno a bestemmiare in questa campagna.

       ’MPARI PÈ. Ah, vorreste che vi lasciassi seminare per terra le olive?

       TRISUZZA. Seminare? Io per me non ne ho lasciata cadere nemmeno una.

       ’MPARI PÈ. Se don Lolò, Dio liberi, s’affaccia là al suo balcone!

       LA ’GNÀ TANA. Eh, può anche starci affacciato dalla mattina alla sera! Chi attende al suo dovere, non ha nulla da temere.

       ’MPARI PÈ. Già, cantando col naso in aria.

       CARMINELLA. O che non si può più nemmeno cantare?

       LA ’GNÀ TANA. Che! Solo bestemmiare si può. Pare che abbiano scommesso, padrone e servitore, a chi le spara più grosse.

       TRISUZZA. Non so come Dio non gliela fulmini codesta cascina con tutti gli alberi attorno!

       ’MPARI PÈ. Eh via! finitela! Linguacce! Andate a scaricare e non la fate più lunga!

       CARMINELLA. Si seguita a raccogliere?

       ’MPARI PÈ. O che è mezza festa, che volete levar mano? C’è ancora tempo per due viaggi. Su, leste, andate, andate. (Spinge verso l’angolo della cascina a sinistra le donne e Nociarello. Qualcuna, andando, riprende a cantare, per dispetto. ’Mpari Pè, rivolto verso il balcone, chiama): Don Lolò!

       DON LOLÒ (dall’interno a terreno). Chi mi vuole?

       ’MPARI PÈ. L’avverto che sono arrivate le mule col concime.

       DON LOLÒ (venendo fuori, sulle furie. È un pezzo d’uomo sui quaranta, dagli occhi di lupo, sospettosi; iracondo. Porta in capo un vecchio cappellaccio bianco a larghe tese e agli orecchi due cerchietti d’oro. Senza giacca, con una camicia di ruvida flanella, a quadri, violacea, aperta sul petto irsuto; le maniche rimboccate). Le mule, a quest’ora? Dove sono? Dove l’hai avviate?

       ’MPARI PÈ. Sono di là, stia tranquillo. Il mulattiere vuol sapere dove deve scaricare.

       DON LOLÒ. Ah sì? Scaricare: senza ch’io abbia veduto che cosa m’ha portato? E in questo momento non posso: sto parlando con l’avvocato.

       ’MPARI PÈ. Ah, della giara?

       DON LOLÒ (squadrandolo). Ohi, dico, chi t’ha promosso caporale?

       ’MPARI PÈ. No, dicevo…

       DON LOLÒ. Tu non devi dir nulla; obbedire, e mosca! Vorrei sapere per qual ragione t’è potuto venire in mente ch’io stia parlando della giara con l’avvocato.

       ’MPARI PÈ. Perché lei non sa in che apprensione – ma che dico, apprensione? – in che terrore vivo per questa giara nuova, a vederla esposta là nel palmento. (Indica a sinistra, verso la cascina.) La levi, la levi, in nome di Dio!

       DON LOLÒ (urlando). No! T’ho detto no cento volte! Deve star lì, e nessuno deve toccarla!

       ’MPARI PÈ. Con questo va e vieni di donne e di ragazzi, messa com’è accanto alla porta!

       DON LOLÒ. Sangue di… hai giurato di farmi andar via col cervello?

       ’MPARI PÈ. Purché poi non abbia a prendersi un dispiacere.

       DON LOLÒ. Non voglio che mi si esca in altri discorsi, mentre n’ho cominciato uno di là con l’avvocato. Dove vuoi che la metta codesta giara? Nella dispensa non c’è posto, se prima non si leva la botte vecchia; e per ora non ho tempo.

       (Sopravviene da destra il mulattiere.)

       IL MULATTIERE. Oh, insomma, dove debbo scaricare questo concime? A momenti è bujo.

       DON LOLÒ. Eccone qua un altro! Sant’Aloe t’ajuti a romperti il collo, tu e tutte le tue bestie! Te ne vieni a quest’ora?

       IL MULATTIERE. Prima non ho potuto.

       DON LOLÒ. E io gatte nel sacco non ne ho mai comperate. E voglio che tu i mucchi sul maggese me li faccia dove e come ti dico io; e a quest’ora è troppo tardi.

       IL MULATTIERE. Oh, sa la nuova, don Lolò. Io scarico le mule dove vien viene, dietro il muro di cinta, e me ne vado.

       DON LOLÒ. Provati! Voglio vederti!

       IL MULATTIERE. Ecco che glielo faccio vedere! (S’avvia infuriato.)

       ’MPARI PÈ. (trattenendolo). Eh via, che furie!

       DON LOLÒ. Lascialo, lascialo andare!

       IL MULATTIERE. Se egli ha la testa calda, io l’ho più calda di lui! Non ci si può aver da fare! Ogni volta, una lite!

       DON LOLÒ. Eh, caro mio, con me, chi vuol aver da fare – guarda – (cava di tasca un libro di piccolo formato, legato in tela rossa) c’è questo Lo sai che è? Ti sembra un libriccino da messa? È il Codice Civile! Me l’ha regalato il mio avvocato, che ora è qua, a villeggiatura da me. E ho imparato a leggerci, sai, in questo libriccino, e a me non me la fa più nessuno, neppure il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso. E me lo pago ad anno, io, l’avvocato!

       ’MPARI PÈ. Eccolo qua!

       (Esce dalla porta della cascina l’avvocato Scimè con una vecchia paglietta in capo e un giornale in mano, aperto.)

       SCIMÈ. Che cos’è, don Lolò?

       DON LOLÒ. Signor avvocato, quest’ignorante se ne viene al bujo con le mule a portarmi un carico di concime per il maggese, e invece di chiedermi scusa –

       IL MULATTIERE (cercando d’interrompere, rivolto all’avvocato). – gli ho detto che prima non ho potuto –

       DON LOLÒ (seguitando). – mi ha minacciato –

       IL MULATTIERE. – io? non è vero! –

       DON LOLÒ. – tu, sì, di buttarmelo dietro il muro –

       IL MULATTIERE. – ma perché lei… –

       DON LOLÒ. – io, che cosa? Lo voglio scaricato sul posto, come si deve, a mucchi, tutti d’una misura.

       IL MULATTIERE. E andiamo! Perché non viene? C’è ancora due ore di sole, signor avvocato. È che lui vorrebbe soppesarselo in mano, con rispetto parlando, pallottola per pallottola. L’avessi a conoscere!

       DON LOLÒ. Oh, lascia star l’avvocato, ch’è qua per me e non per te! Non gli dia retta, signor avvocato: se ne vada giù per il viottolo là, al suo solito; si metta a sedere sotto il gelso, e si legga in pace il suo giornale. Verrò più tardi a seguitar con lei il discorso della giara. (Al mulattiere): Su, su, andiamo. Quante mule sono? (S’avvia col mulattiere verso destra.)

       IL MULATTIERE (seguendolo). Non s’era convenuto per dodici? E son dodici. (Scompare con don Lolò dietro la cascina.)

       SCIMÈ (alzando le mani e scotendole in aria). Ah, via, via, via! Domattina all’alba, via a casa mia! Mi sta facendo girar la testa come un arcolajo!

       ’MPARI PÈ. Non dà requie a nessuno. E le assicuro che un bel regalo gli ha fatto vossignoria con quel libretto rosso! Prima, alla minima contrarietà, gridava: «Sellatemi la mula!».

       SCIMÈ. Già, per correre in città, al mio studio, e farmi ogni volta la testa come un cestone. Caro mio, gliel’ho proprio regalato per questo, il Codice. Se lo cava di tasca, ci si scapa a cercare da sé e lascia me in pace. M’ha ispirato il diavolo, piuttosto, a venire a passare qua una settimana! Ma appena seppe dell’ordinazione del medico, che stessi in riposo per un po’ di giorni in campagna, mi mise in croce, mi mise, perché accettassi la sua ospitalità. Gli posi per patto che non dovesse parlarmi di nulla. Da cinque giorni mi rompe l’anima parlandomi d’una giara… di non so che giara…

       ’MPARI PÈ. Sissignore, della giara grande, per l’olio, arrivata ch’è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d’uomo: pare una badessa. O che vorrebbe attaccarla anche col fornaciajo di là?

       SCIMÈ. E come no? Perché gliel’ha fatta pagar quattr’onze, e dice che se l’aspettava più grande.

       ’MPARI PÈ (con stupore). Più grande?

       SCIMÈ. Non mi parla d’altro da cinque giorni che son qui. (S’avvia per il sentieruolo a destra): Ah, ma domani, via, via, via. (Scompare per il sentieruolo.)

       (Dall’interno, lontano, per le campagne si ode il bercio cantilenato di Zì Dima Licasi: «Conche, scodelle da accomodare!». Dal sentieruolo a destra sopravvengono con scala e canne in collo Tararà e Fillicò.)

       ’MPARI PÈ (vedendoli). Oh, e come mai? Avete smesso d’abbacchiare?

       FILLICÒ. Ce l’ha ordinato il padrone, passando con le mule.

       ’MPARI PÈ. E vi disse anche d’andar via?

       TARARÀ. No, che! Ci disse di trattenerci per fare non so che lavoro nella dispensa.

       ’MPARI PÈ. Di levarne la botte vecchia?

       FILLICÒ. Già. Per dar posto alla giara nuova.

       ’MPARI PÈ. Ah, bene! Son contento che m’abbia dato ascolto almeno una volta! Venite, venite con me. (S’avvia coi due verso sinistra; ma sopravvengono da dietro la cascina Trisuzza, la ’gnà Tana e Carminella con le ceste vuote.)

       LA ’GNÀ TANA (vedendo i due abbacchiatori). E come? S’è finito d’abbacchiare?

       ’MPARI PÈ. Finito, finito, per oggi.

       TRISUZZA. E nojaltre, che si fa?

       ’MPARI PÈ. Aspettate che il padrone torni e ve lo dica.

       CARMINELLA. Così con le mani in mano?

       ’MPARI PÈ. Che volete ch’io vi dica? Andate a scartare nel magazzino.

       LA ’GNÀ TANA. Ah, senza un ordine suo non m’arrischio.

       ’MPARI PÈ. Mandate allora qualcuno a prender l’ordine. (Via da sinistra con Tararà e Fillicò.)

       CARMINELLA. Vai, vai tu, Nociarello.

       LA ’GNÀ TANA. Gli dirai così: gli uomini hanno smesso d’abbacchiare; le donne vogliono sapere che cosa han da fare.

       TRISUZZA. Se vuole che si mettano a scartare, Digli così.

       NOCIARIELLO. Così. Va bene.

       CARMINELLA. Corri!

       (Nociarello, via di corsa per il sentieruolo a destra. Ritornano in scena da sinistra, prima uno, poi l’altro, sbalorditi, spaventati, con le mani per aria, Fillicò, Tararà e ’Mpari Pè.)

       FILLICÒ. Vergine Santa, ajutateci voi!

       TARARÀ. Io non ho più sangue nelle vene!

       ’MPARI PÈ. Castigo di Dio! Castigo di Dio!

       LE DONNE (a una voce, facendosi attorno). – Che è stato? – Che avete? – Che è accaduto?

       ’MPARI PÈ.. La giara! la giara nuova!

       TARARÀ. Spaccata!

       LE DONNE (a una voce). – La giara? – Davvero? – Oh Madre santa!

       FILLICÒ. Spaccata a metà! Come se le avessero dato con la mannaja: zà!

       LA ’GNÀ TANA. E com’è possibile!

       TRISUZZA. Non l’ha toccata nessuno!

       CARMINELLA. Nessuno! Ma chi lo sentirà adesso don Lolò?

       TRISUZZA. Farà cose da pazzi!

       FILLICÒ. Io per me lascio tutto e me ne scappo.

       TARARÀ. Che? ve ne scappate? Sciocco! E chi gli leverà dal capo allora che non siamo stati noi? Qua fermi tutti! E voi (a ’Mpari Pè): lo andrete a chiamare. No, no: lo chiamerete di qua; gli darete una voce.

       ’MPARI PÈ (montando sul sedile attorno all’olivo). Ecco, sì, di qua. (Gridando, con una mano presso la bocca, a più riprese): Don Lolò! Ah, don Lolòoo! Non sente: va gridando come un pazzo dietro le mule. Don Lolòoo! È inutile! Meglio farci una corsa!

       TARARÀ. Ma in nome di Dio, non gli fate nascere il sospetto…

       ’MPARI PÈ. State tranquilli! Come potrei in coscienza incolpar voi? ( Via di corsa per il sentieruolo.)

       TARARÀ. Oh, tutti d’accordo, noi: una parola sola: fermi, a tenergli testa: la giara s’è rotta da sé.

       LA ’GNÀ TANA. S’è dato più d’una volta –

       TRISUZZA. – sicuro! che le giare nuove si rompano da sé!

       FILLICÒ. Perché tante volte – sapete com’è? – nel cuocerle in fornace, qualche favilla vi rimane presa dentro, che poi tutt’a un tratto pam! scoppia.

       CARMINELLA. Proprio così! Come se le tirassero una schioppettata, (accenna un segno di croce): Dio ne liberi e scampi. (Si odono dall’interno, a destra, le voci di don Lolò e di ’Mpari Pè)

       VOCE DI DON LOLÒ. Voglio sapere chi è stato, per la Ma donna!

       VOCE DI ’MPARI PÈ. Nessuno, glielo posso giurare!

       TRISUZZA. Eccolo qua!

       LA ’GNÀ TANA. Signore, aiutateci!

       (Appare dal sentieruolo, pallido, infuriato, don Lolò, seguito da ’Mpari Pè e Nociarello.)

       DON LOLÒ (avventandosi prima contro Tararà, poi contro Fillicò, agguantandoli per il petto della camicia e scrollandoli). Sei stato tu? Chi è stato? O tu o tu, uno dei due dev’essere stato, perdio, e me la pagherete!

       TARARÀ e FILLICÒ (contemporaneamente, divincolandosi). – Io? Lei è pazzo! Mi lasci! – Si stia quieto con le mani, o per come è vero Dio… (E contemporaneamente, attorno, le donne e ’MpariPè, tutti in coro):

       LE DONNE e ’MPARI PÈ. – S’è rotta da sé! – Non ci ha colpa nessuno! – S’è trovata rotta! – Gliel’ho detto e ripetuto!

       DON LOLÒ (ribattendo, ora all’uno ora all’altro). Ah sono pazzo? – Eh già, tutti innocenti! – S’è rotta da sé! – La farò pagare a tutti quanti! – Andatela a prendere intanto e portatela qua!(’Mpari Pè, Tararà e Fillicò corrono a prendere la giara.) Alla luce, se c’è segno d’urto o di botta, si vedrà. E se c’è, vi salto alla gola e vi mangio la faccia! Me la pagherete tutti quanti, uomini e donne!

       LE DONNE (a una voce). – Che? Noi? Lei farnetica! – Vuol che ne rispondiamo anche noi? – Noi non l’abbiamo nemmeno guardata!

       DON LOLÒ. Siete entrate e uscite dal palmento anche voi!

       TRISUZZA. Eh, già, le abbiamo rotto la giara, strusciandola così con la sottana! (Si prende con una mano la sottana e smorfiosamente fa l’atto di sbattergliela su una gamba.)

       (Intanto ’Mpari Pè, Tararà e Fillicò rientrano in iscena da sinistra recando la giara spaccata.)

       LA ’GNÀ TANA. Oh peccato! Guardatela!

       DON LOLÒ (levando le disperazioni a modo di quelli che piangono un parente morto). La giara nuova! quattr’onze di giara! E dove metterò l’olio dell’annata? Oh bella mia giara! È stata invidia o infamità! Quattr’onze buttate via! E questa ch’era annata d’olive! Ah Dio, che cosa! E come farò?

       TARARÀ. Ma no, no: guardi –

       FILLICÒ. – si può sanare –

       ’MPARI PÈ. – se n’è staccato un pezzo –

       TARARÀ. – un pezzo solo –

       FILLICÒ. – spacco netto –

       TARARÀ. – forse era incrinata.

       DON LOLÒ. Ma che incrinata! Sonava come una campana!

       ’MPARI PÈ. È vero. Ne ho fatto io la prova.

       FILLICÒ. Le ritorna come nuova, dia ascolto a me, se chiama un buon conciabrocche; non si vedrà più neanche il segno della saldatura.

       TARARÀ. Chiami zì Dima, zì Dima Licasi! Dev’essere qua presso; l’ho sentito gridare.

       LA ’GNÀ TANA. Bravo mastro, fino: ha un mastice miracoloso, che non ci può neanche il martello, quando ha fatto presa. Corri, Nociarello: è qua accanto, alla chiusa di Mosca; va’ a chiamarlo! (Nociarello, via di corsa, per la sinistra.)

       DON LOLÒ (gridando). Statevi zitti! M’avete stordito! Non credo a codesti miracoli! Per me la giara è persa.

       ’MPARI PÈ. Eh, glielo dicevo io!

       DON LOLÒ (su tutte le furie). Che mi dicevi tu, ménchero, che mi dicevi, se è vero che la giara s’è rotta da sé, senza che nessuno l’abbia toccata? Anche se custodita in un tabernacolo, si sarebbe rotta lo stesso, se s’è rotta da sé!

       TARARÀ. È giusto! Non dite parole inutili!

       DON LOLÒ. Mi fa dannare, quest’imbecille!

       FILLICÒ. Vedrà che tutto s’accomoda, con poche lire! E lei sa che dura più una brocca rotta che una sana.

       DON LOLÒ. Per l’anima di tutti i diavoli: ho le mule a mezza costa col concime! (A ’Mpari Pè): Che stai a fare tu qua, a guardarmi in bocca? Corri, va’ a dare un occhio, almeno! (’Mpari Pè, via per il sentieruolo.) Ah, mi fuma la testa, mi fuma la testa! Che zì Dima e zì Dima! Con l’avvocato, piuttosto, devo intendermela! Che se si è rotta da sé, è segno che doveva aver qualche guasto. Sonava, però, sonava, quand’è arrivata! E me la son tenuta per sana. C’è la mia dichiarazione. Quattr’onze perdute. Ci posso far la croce. (Si presenta a sinistra zì Dima Licasi seguito da Nociarello.)

       FILLICÒ. Ah, ecco qua zì Dima!

       TARARÀ (piano a don Lolò). Badi che non parla.

       LA ’GNÀ TANA (c. s. quasi misteriosamente). E di poche parole.

       DON LOLÒ. Ah sì? (A zì Dima): E non usate neanche salutare, quando vi presentate davanti a qualcuno?

       ZÌ DIMA. Ha bisogno della mia opera o del mio saluto? Della mia opera, credo. Mi dica che ho da fare e lo farò.

       DON LOLÒ. O se le parole vi costano tanto, perché non le risparmiate anche agli altri? Non lo vedete qua che cosa avete da fare? (Gl’indica la giara.)

       FILLICÒ. Sanare questa bella giara, zì Dima, col vostro mastice!

       DON LOLÒ. Dicono che fa miracoli. L’avete fabbricato voi? (Zì Dima lo guarda scontroso e non risponde.) Oh, rispondete e fatemelo vedere!

       TARARÀ (di nuovo piano a don Lolò). Se lei lo piglia così, non ne otterrà nulla.

       LA ’GNÀ TANA (c. s.). Non lo fa vedere a nessuno. Ne è geloso.

       DON LOLÒ. E che è? Ostia consacrata? (A zì Dima): Ditemi almeno se credete che la giara, accomodata, verrà bene.

       ZÌ DIMA (che ha posato a terra la cesta e n ’ha cavato un vecchio fazzoletto di cotone turchino tutto avvoltolato). Così subito? Io credo quando vedo. Mi dia tempo (Si mette a sedere per terra e comincia a svolgere pian piano, con molta cautela, il fazzoletto. Tutti lo guardano, attenti e curiosi.)

       LA ’GNÀ TANA (piano a don Lolò). Sarà il mastice!

       DON LOLÒ. Io mi sento salire una cosa da qua. (Indica la bocca dello stomaco.)

       TUTTI (appena da quel fazzoletto vien fuori un pajo d’occhiali col sellino e le stanghette rotti e legati con lo spago, scoppiando in una risata). – Uh, gli occhiali! – Chi sa che credevamo che fosse! – Credevamo il mastice! – Pare una capezza!

       ZÌ DIMA (pulendo gli occhiali con una cocca del fazzoletto, li guarda; poi, inforcando gli occhiali, esamina la giara e dice): Verrà bene.

       DON LOLÒ. Bum! Il tribunale ha emesso la sentenza. Ma vi avverto che di codesto vostro mastice, per quanto miracoloso, non mi fido. Ci voglio anche i punti. (Zì Dima torna a guardarlo, poi, senza dir nulla, prende il fazzoletto, gli occhiali e li butta nella cesta rabbiosamente; afferra la cesta, se la rimette in ispalla e s’avvia.) Ohi, dico, che fate?

       ZÌ DIMA. Me ne vado.

       DON LOLÒ. Messere e porco, così trattate?

       FILLICÒ (trattenendolo). Eh via! zì Dima, pazienza!

       TARARÀ (c. s.). Fate come vi comanda il padrone.

       DON LOLÒ. Guardate un po’ che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d’asino, che non siete altro! Ci ho a metter l’olio là dentro, che trasuda. Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio anche i punti. Mastice e punti. Comando io.

       ZÌ DIMA. Tutti così! Tutti così! Ignoranti! Sia pure una brocca o sia una conchetta, una ciotola o una tazzina: i punti! I denti della vecchia che digrignano e par che dicano: «Sono rotta e accomodata!». Offro il bene e nessuno ne vuole approfittare. E mi dev’esser negato di fare un lavoro pulito e a regola d’arte! (S’appressa a don Lolò): Dia ascolto a me. Se questa giara non suona di nuovo come una campana, col solo mastice…

       DON LOLÒ. V’ho detto di no! Io con costui non ci posso combattere! (A Tararà): Alla grazia! M’hai detto che parlava poco! (A zì Dima): È inutile che facciate la predica! Se tutti vi comandano i punti, è segno che a giudizio di tutti i punti ci vogliono.

       ZÌ DIMA. Che giudizio! È ignoranza!

       LA ’GNÀ TANA. Anche a me – sarà ignoranza – ma mi sembra che ci vogliano, zì Dima.

       TRISUZZA. Certo, tengono meglio.

       ZÌ DIMA. Ma bucano! Ci vuol tanto a capirlo? Ogni punto, due buchi; venti punti, quaranta buchi. Dove col mastice solo…

       DON LOLÒ. Càzzica, che testa! Neanche un mulo! Bucheranno, ma ce li voglio! Sono io il padrone! (Rivolgendosi alle donne): Su, su, andiamo: vojaltre, a scaricare nel magazzino; (agli uomini): e vojaltri, nella dispensa, a levar la botte vecchia; andiamo! (Lì spinge verso la cascina.)

       ZÌ DIMA. Oh, e aspetti!

       DON LOLÒ. C’intenderemo a lavoro finito. Non ho tempo da perdere con voi.

       ZÌ DIMA. Vuol lasciarmi qua solo? Ho bisogno di qualcuno che m’ajuti a reggere il lembo spaccato. La giara è grossa.

       DON LOLÒ. Ah, e allora – (a Tararà): – rimani qua tu. (A Fillicò): E tu vieni con me.

       (Via con Fillicò. Le donne e Nociarello sono già andati via. Zì Dima si mette subito all’opera, con dispetto. Cava dal cesto il trapano e comincia a fare i buchi alla giara e al lembo spaccato. Nel mentre Tararà gli parlerà):

       TARARÀ. Manco male che l’ha presa così! Non ci so credere. Ho temuto che dovesse avvenire il finimondo stasera! Non s’amareggi il sangue, zì Dima. Ci vuole i punti? Lei ce li metta. Venti, trenta, (zì Dima lo guarda): anche più? trentacinque? (Zì Dima torna a guardarlo):E quanti, allora?

       ZÌ DIMA. La vedi questa saettella di trapano? Come la muovo – (fru e fru, fru e fru) – me ne sento sfruconare il cuore.

       TARARÀ. Mi dica, è vero che l’ebbe in sogno la ricetta del suo mastice?

       ZÌ DIMA (seguitando a lavorare). In sogno, sì.

       TARARÀ. E chi le apparve in sogno?

       ZÌ DIMA. Mio padre.

       TARARÀ. Ah, suo padre! Le apparve in sogno e le disse come doveva fabbricarlo?

       ZÌ DIMA. Mammalucco!

       TARARÀ. Io? Perché?

       ZÌ DIMA. Sai chi è mio padre?

       TARARÀ. Chi è?

       ZÌ DIMA. Il diavolo che ti mangia.

       TARARÀ. Ah, lei dunque è figlio del diavolo?

       ZÌ DIMA. E questa che ho nella cesta è la pece che v’attaccherà tutti quanti.

       TARARÀ. Ah, è nera?

       ZÌ DIMA. È bianca. E me l’insegnò mio padre a farla bianca. Riconoscerete la sua potenza quando ci starete a bollire in mezzo. Ma laggiù è nera. Se accosti due dita, non le stacchi più; e se t’attacco il labbro col naso, resti abissino per tutta la vita.

       TARARÀ. E com’è che lei la tocca e non le fa niente?

       ZÌ DIMA. Sciocco, quando mai il cane ha morso il suo padrone? (Butta via il trapano e sorge in piedi): Vieni qua, adesso. (Gli fa reggere il lembo già forato): Reggi qua. (Cava dalla cesta una scatola di latta, la apre, ne trae una ditata di mastice e lo mostra): Guarda. Ti pare un mastice come un altro? Sta’ a vedere. (Spalma il mastice prima sull’orlo della spaccatura della giara, poi lungo tutto il lembo.) Con tre o quattro ditate, così… appena appena… Reggi bene. Io mi caccio adesso qua dentro.

       TARARÀ. Ah, da dentro?

       ZÌ DIMA. Per forza, asino; se ho a fermare i punti bisogna che li fermi da dentro. Aspetta.(Cerca nella cesta): Fil di ferro e tanaglie. (Prende quello e queste e va a cacciarsi dentro la giara.) Oh, tu adesso… – aspetta che mi metta bene – alza codesto lembo e applicalo, a combaciare… piano… bravo… così. (Tararà eseguisce e lo chiude dentro la giara. Poco dopo, sporgendo il capo dalla bocca della giara): Ora tira, tira! È ancora senza punti. Tira con tutta la tua forza. Vedi? vedi se si stacca più? Neanche dieci paja di buoi potrebbero più staccarla! Va’, va’ a dirlo al tuo padrone!

       TARARÀ. Ma scusi, zì Dima, è sicuro che potrà uscirne, ora?

       ZÌ DIMA. Come no? Ne son sempre uscito, da tutte le giare.

       TARARÀ. Ma questa – non so – mi pare un po’ stretta di bocca per lei. Si provi. (Ritorna dal viottolo a destra ’Mpari Pè.)

       ’MPARI PÈ. O che non può più uscirne?

       TARARÀ (a zì Dima, dentro la giara). Piano. Aspetti. Di lato.

       ’MPARI PÈ. Il braccio, fuori prima un braccio.

       TARARÀ. No, il braccio, che dite?

       ZÌ DIMA. Ma insomma, santo diavolo, com’è? Non posso più uscirne?

       ’MPARI PÈ. Tanto grossa di pancia e tanto stretta di bocca!

       TARARÀ. Sarebbe da ridere, dopo averla sanata, se non ne potesse più uscire davvero!(Ride.)

       ZÌ DIMA. Ah tu ridi? Corpo di Dio, datemi ajuto! (E fa leva infuriato.)

       ’MPARI PÈ. Aspettate, non fate così! Vediamo se, piegandola…

       ZÌ DIMA. No, peggio. Lasciate! L’intoppo è nelle spalle.

       TARARÀ. Già, lei che n’abbonda un pochino da una parte!

       ZÌ DIMA. Io? Se hai detto tu stesso che difetta di bocca la giara!

       ’MPARI PÈ. E ora come si fa?

       TARARÀ. Ah, questa è da contare! da contare! (Ride e corre verso la cascina, chiamando): Fillicò! ’gnà Tana! Trisuzza! Carminella! Venite venite qua! Zì Dima non può più uscire dalla giara! (Arrivano da destra Fillicò, la ’gnà Tana, Trisuzza, Carminella, Nociarello.)

       LE DONNE e NOCIARELLO (tutti a coro, ridendo, saltando, battendo le mani). Dentro la giara? – Oh bella! – E com’è stato? – Non può più uscirne?

       ZÌ DIMA (nello stesso tempo, come un gatto inferocito). Fatemi uscire! Prendete il martello da quella cesta!

       ’MPARI PÈ. Che martello! Voi siete pazzo! Deve dirlo il padrone.

       FILLICÒ. Eccolo qua! Eccolo qua!

       (Sopravviene di corsa dalla destra don Lolò.)

       LE DONNE (andandogli incontro). S’è murato dentro la giara! – Da sé! – Non può più uscirne!

       DON LOLÒ. Dentro la giara?

       ZÌ DIMA (nello stesso tempo). Ajuto! ajuto!

       DON LOLÒ. E che ajuto posso darvi io, vecchio imbecille, se non avete preso la misura della vostra gobba (tutti ridono) prima di cacciarvi dentro?

       LA ’GNÀ TANA. Ma guardate che gli capita, povero zì Dima!

       FILLICÒ. È da cavarne i numeri, per com’è vero Dio!

       DON LOLÒ. Aspettate. Piano. Cercate di trar fuori un braccio.

       ’MPARI PÈ. È inutile! S’è provato in tutti i modi.

       ZÌ DIMA (che ha cavato fuori a stento un braccio). Ahi! Piano, mi sloga il braccio!

       DON LOLÒ. Pazienza! Provate a…

       ZÌ DIMA. No! Mi lasci!

       DON LOLÒ. Che volete che vi faccia allora?

       ZÌ DIMA. Prenda il martello e rompa la giara!

       DON LOLÒ. Che? Ora che è sanata?

       ZÌ DIMA. O che vorrebbe tenermi qua dentro?

       DON LOLÒ. Bisogna prima vedere come s’ha da fare.

       ZÌ DIMA. Che vuol vedere? Io voglio uscire! voglio uscire, perdio!

       LE DONNE (a coro). – Ha ragione! – Non può mica tenerlo lì! – Se non c’è altro rimedio!

       DON LOLÒ. Mi fuma la testa! Mi fuma la testa! Calma, calma! Questo è un caso nuovo! Non capitato mai a nessuno! (A Nociarello): Vieni qua, ragazzo… No, meglio tu, Fillicò: corri là(gl’indica il sentieruolo a destra): sotto il gelso, c’è l’avvocato; fallo venir subito qua… (E come Fillicò va via, rivolgendosi a zì Dima che si dibatte nella giara): Fermo, voi! (Agli altri): Tenetelo fermo! Non è giara, questa! è il diavolo! (Di nuovo a zì Dima che scrolla la giara e vi si dimena dentro): Fermo, vi dico!

       ZÌ DIMA. O la rompe lei, o a costo di rompermi io la testa, la faccio rotolare e spaccare contro un albero! Voglio uscirne! voglio uscirne!

       DON LOLÒ. Aspettate che venga su l’avvocato: risolverà lui questo caso nuovo! Io intanto mi guardo il mio diritto alla giara e comincio col fare il mio dovere.

       (Cava di tasca un grosso vecchio portafoglio di cuojo legato con lo spago e ne trae una carta di dieci lire): Testimoni tutti, vojaltri: qua dieci lire in compenso del vostro lavoro!

       ZÌ DIMA. Non voglio niente! Voglio uscire!

       DON LOLÒ. Uscirete quando lo dirà l’avvocato: io intanto vi pago.

       (Alza la mano col biglietto di dieci lire e lo cala dentro la giara. Dal sentieruolo a destra viene l’avvocato Scimè, ridendo, seguito da Fillicò.)

       DON LOLÒ (vedendolo). Ma che c’è da ridere, mi scusi! A lei non brucia, lo so! La giara è mia.

       SCIMÈ (non potendo trattenersi, tra le risate anche degli altri). Ma che pre… ma che pretendete di tene… di tenerlo là dentro? Ah ah ah, ohi ohi ohi… Tenerlo là dentro per non perderci la giara?

       DON LOLÒ. Ah, secondo lei, dovrei patire io, allora, il danno e lo scorno?

       SCIMÈ. Ma sapete come si chiama codesto? Sequestro di persona.

       DON LOLÒ. E chi l’ha sequestrato? S’è sequestrato lui da sé! Che colpa n’ho io? (A zì Dima): Chi vi tiene lì dentro? Uscitene!

       ZÌ DIMA. Si provi lei a farmi uscire, se n’è capace!

       DON LOLÒ. Ma non vi ci ho ficcato io costà, da aver quest’obbligo! Vi ci siete ficcato voi: uscitene!

       SCIMÈ. Signori miei, permettete che parli io?

       TARARÀ. Parla l’avvocato! Parla l’avvocato!

       SCIMÈ. Son due i casi, statemi a sentire, e dovete mettervi d’accordo. (Rivolgendosi prima a don Lolò): Da una parte, voi don Lolò, dovete subito liberare zì Dima.

       DON LOLÒ (subito). E come? rompendo la giara?

       SCIMÈ. Aspettate. C’è poi la parte dell’altro. Lasciatemi dire. Non potete farne a meno. Per non rispondere di sequestro di persona. (Rivolgendosi ora a zì Dima): Dall’altra parte, anche voi zì Dima dovete rispondere del danno che avete cagionato cacciandovi dentro la giara senza badare che non potevate più uscirne.

       ZÌ DIMA. Ma signor avvocato, io non ci ho badato perché, da tant’anni che faccio questo mestiere, di giare ne ho accomodate centinaja, e tutte sempre da dentro, per fermare i punti come l’arte comanda. Non m’era mai avvenuto il caso di non poterne più uscire. Tocca a lui dunque di prendersela col fornaciajo che gliela fabbricò così stretta di bocca. Io non ci ho colpa.

       DON LOLÒ. Ma codesta gobba che avete, ve l’ha forse fabbricata il fornaciajo per impedirvi d’uscire dalla mia giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta, signor avvocato, appena si presenterà lui con quella gobba, il meno che potrà fare il pretore è di mettersi a ridere; mi condannerà alle spese e buona notte!

       ZÌ DIMA. Non è vero! no! Perché con questa stessa gobba, io, per vostra regola, dalla bocca di tutte le altre giare son sempre entrato e uscito come dalla porta di casa mia!

       SCIMÈ. Questa non è ragione, abbiate pazienza, zì Dima. L’obbligo vostro era di prender la misura prima d’entrare, se ne potevate uscire oppur no.

       DON LOLÒ. E deve dunque ripagarmi la giara?

       ZÌ DIMA. Che?

       SCIMÈ. Piano, piano. Ripagarvela come nuova?

       DON LOLÒ. Certo. Perché no?

       SCIMÈ. Ma perché era già rotta, oh bella!

       ZÌ DIMA. Gliel’ho accomodata io!

       DON LOLÒ. L’avete accomodata? E dunque ora è sana! Non più rotta. Se io ora la rompo per farne uscir voi, non potrò più farla riaccomodare, e ci avrò perduto la giara per sempre, signor avvocato.

       SCIMÈ. Ma ho detto perciò che zì Dima dovrà pur rispondere per la sua parte! Lasciate parlare a me!

       DON LOLÒ. Parli, parli.

       SCIMÈ. Caro zì Dima, una delle due: o il vostro mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla.

       DON LOLÒ (contentissimo, a quanti stanno a sentire). Sentite, sentite, come lo piglia in trappola adesso. Quando comincia così…

       SCIMÈ. Se il vostro mastice non serve a nulla, voi siete un imbroglione qualunque. Se serve a qualche cosa, e allora la giara, anche così com’è, deve avere il suo valore. Che valore? Dite voi. Stimatela.

       ZÌ DIMA. Con me qua dentro? (Tutti ridono.)

       SCIMÈ. Senza scherzare! Così com’è.

       ZÌ DIMA. Rispondo. Se don Lolò me l’avesse lasciata accomodare col solo mastice com’io volevo, prima di tutto non mi troverei qua dentro, perché avrei potuto accomodarla da fuori: e allora la giara sarebbe rimasta come nuova, e avrebbe avuto lo stesso valore di prima, né più né meno. Così rabberciata come è adesso, e forata come un colabrodo, che vuole che valga? Sì e no un terzo di quanto fu pagata.

       DON LOLÒ. Un terzo?

       SCIMÈ (subito, a don Lolò, facendo atto di parare). Un terzo! Zitto, voi! Un terzo… vuol dire?

       DON LOLÒ. Fu pagata quattr’onze: un’onza e trentatré.

       ZÌ DIMA. Meno sì, più no.

       SCIMÈ. Valga la vostra parola. Prendete un’onza e trentatré e datela a don Lolò.

       ZÌ DIMA. Chi? Io? Un’onza e trentatré a lui?

       SCIMÈ. Perché rompa la giara e vi faccia uscire. Gliela pagherete quanto voi stesso l’avete stimata.

       DON LOLÒ. Liscio come l’olio.

       ZÌ DIMA. Pagare, io? Pazzia, signor avvocato! Io ci faccio i vermi, qua dentro. Oh, tu, Tararà, pigliami la pipa, dalla cesta costà.

       TARARÀ (eseguendo). Questa?

       ZÌ DIMA. Grazie. Dammi un po’ di fuoco. (Tararà accende un fiammifero e gliel’accosta alla pipa.) Grazie. E bacio le mani a tutti quanti. (Con la pipa che fuma si cala dentro la giara tra le risate generali.)

       DON LOLÒ (restando come un allocco). E ora come si fa, signor avvocato, se non ne vuole più uscire?

       SCIMÈ (grattandosi la testa e sorridendo). Eh, già, veramente, finché voleva uscirne, il rimedio c’era; ma se ora non ne vuole più uscire…

       DON LOLÒ (andando a parlare a zì Dima dentro la giara). Oh, che intenzione avete? di domiciliarvi costì?

       ZÌ DIMA (sporgendo il capo). Ci sto meglio che a casa mia. Fresco, come in paradiso. (Si ricala dentro e ripiglia a fumare a gran boccate.)

       DON LOLÒ (tra le risate di tutti, infuriatissimo). Finite di ridere, per la Madonna! E siatemi tutti testimoni che è lui, adesso, a non volere più uscire, per non pagare quel che mi deve, mentre io son pronto a rompere la giara. (All’avvocato): Non potrei citarlo per alloggio abusivo, signor avvocato?

       SCIMÈ (ridendo). E come no? Mandategli l’usciere per lo sfratto.

       DON LOLÒ. Ma scusi, se m’impedisce l’uso della giara?

       ZÌ DIMA (sporgendo di nuovo il capo). Lei sbaglia. Non sto mica qua per mio piacere. Mi faccia uscire e me n’andrò ballando. Ma quanto a farmi pagare, se lo scordi. Non mi muovo più di qua dentro.

       DON LOLÒ (abbrancando la giara e scotendola furiosamente). Ah, non ti muovi più? non ti muovi più?

       ZÌ DIMA. Vede che mastice? Non ci sono mica i punti, sa?

       DON LOLÒ. Pezzo di ladro, laccio di forca, manigoldo, chi l’ha fatto il male, tu o io? E vuoi che lo paghi io?

       SCIMÈ (tirandoselo via per un braccio). Non fate così, ch’è peggio! Lasciatelo star lì tutta la notte, e vedrete che domattina ve lo chiederà lui stesso d’uscire. Allora, voi, un’onza e trentatré, o niente. Andiamocene su. Lasciatelo perdere. (S’avvia con don Lolò verso la cascina.)

       ZÌ DIMA (sporgendo ancora una volta il capo). Ohi, don Lolò!

       SCIMÈ (a don Lolò seguitando ad andare). Non vi voltate. Via, via.

       ZÌ DIMA (prima che i due entrino nella cascina). Buona notte, signor avvocato! Ho qua dieci lire! (E appena i due sono entrati, rivolgendosi agli altri): Faremo allegria tra noi, qua tutti quanti! Voglio incignar la casa nuova! Tu, Tararà, corri qua da Mosca e compra vino, pane, pesce fritto e peperoni salati: faremo un gran festino!

       TUTTI (battendo le mani, mentre Tararà corre per le compere). Viva zì Dima! Viva l’allegria!

       FILLICÒ. Con questa bella luna! Guardate! È spuntata di là. (Indica a sinistra): Pare giorno!

       ZÌ DIMA. La voglio vedere! la voglio vedere anch’io! Trasportate la giara più là, pian piano. (Tutti ajutano, circondando la giara e spingendola a girar su se stessa, verso il sentieruolo a destra): Così, piano, ecco… così… Ah com’è bella! la vedo, la vedo! Pare un sole! Chi fa una cantatina?

       LA ’GNÀ TANA. Tu, Trisuzza!

       TRISUZZA. Io, no! Carminella!

       ZÌ DIMA. Cantiamo tutti a coro! Tu Fillicò, suona lo scacciapensieri, e voi tutti, una bella cantata, ballando attorno alla giara!

       (Fillicò cava di tasca lo scacciapensieri e si mette a sonarlo; gli altri, cantando e gridando, si prendono per mano e danzano scompostamente attorno alla giara, incitati da zì Dima. Ma poco dopo, la porta della cascina si spalanca di furia e irrompe don Lolò gridando):

       DON LOLÒ. Corpo di Dio, dove vi par d’essere, alla taverna? Tenete, vecchio del diavolo: andate a rompervi il collo! (Allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giù per il sentieruolo tra le grida di tutti. Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero.)

       LA ’GNÀ TANA (seguitando il grido). Ah, l’ha ucciso!

       FILLICÒ (guardando con gli altri). No! Eccolo là! Ne esce! Si alza! Non s’è fatto nulla! (Le donne battono le mani allegramente.)

       TUTTI. Viva zì Dima! Viva zì Dima! (Lo prendono sulle spalle e lo portano via in trionfo verso sinistra.)

       ZÌ DIMA (agitando le braccia). L’ho vinta io! L’ho vinta io!

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N’ Sicilianu A’ giarra

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