Skip to content

La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello. Analisi critica – L’Opera lirica

Di Pietro Seddio

Il 24 marzo 1934 la favola fu messa in scena al Teatro Reale dell’Opera di Roma alla presenza di Mussolini che ne rimase profondamente contrariato al punto di far cancellare le repliche. Dopo alcuni giorni, Pirandello stesso scrisse una lettera a Mussolini in cui, pur mostrandosi molto dispiaciuto per l’accaduto, chiedeva con decisione e per iscritto spiegazioni del provvedimento.

Indice Tematiche

La favola del figlio cambiato. Analisi della novella
Valentina Fortunato, La favola del figlio cambiato, 1956

La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello.
Analisi critica

INDICE

Nota introduttiva
La Novella
L’opera lirica
Il Maestro Gian Francesco Malipiero

Da La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello – Analisi critica

L’Opera Lirica

La favola del figlio cambiato
Tre atti in cinque quadri di Luigi Pirandello
Musica di Gian Francesco Malipiero 1882-1973
Prima rappresentazione: Braunschweig, Landestheater, 13 gennaio 1934

Leggi L’opera

Note

Dopo il Torneo notturno (1929) la concezione drammatica di Malipiero smarrisce la sua vena più originale. Il lavoro successivo, il trittico ‘I trionfi d’amore’, che nella prima parte riprende il motivo della tenzone a suon di canzoni, venne inserito dall’autore nella serie dei lavori distrutti, segnando una nuova pausa di riflessione nella sua produzione teatrale. Accadde così che, quando nel biennio 1932-33 il musicista riprese a occuparsi di teatro con La favola del figlio cambiato, sul testo preparato da Luigi Pirandello per la recita della compagnia degli Scalognati nei Giganti della montagna, impresse una svolta netta ai propri orientamenti drammaturgici.

Con ‘La favola’, per la prima volta dal dopoguerra, Malipiero torna a mettere in scena una storia unitaria, torna al libretto concepito in modo tradizionale e, utilizzando il testo di Pirandello, riesce a vincere la propria ‘riluttanza contro i libretti altrui’ (i libretti delle opere degli anni Venti, come è noto, erano stati confezionati dallo stesso Malipiero, con ingegnosi e personalissimi incastri di testi di varia provenienza). L’incontro teatrale di Malipiero con Pirandello non fu per nulla casuale.

Tracce di pirandellismo sono presenti nella tipizzazione malipieriana dei personaggi fin dalle Sette canzoni, tanto che all’epoca Malipiero veniva indicato dalla critica come il musicista italiano più vicino al drammaturgo.

Tuttavia, nonostante una certa congenialità di fondo, l’incontro tra musicista e drammaturgo avvenne sulla base di una disposizione in entrambi refrattaria alla collaborazione reciproca. Prima di allora anche Pirandello era stato restio a unire il proprio lavoro a quello dei musicisti: ad esempio, all’epoca del balletto di Alfredo Casella desunto dalla novella La giara si era totalmente disinteressato della cosa.

L’opera di Malipiero ebbe così una genesi del tutto singolare, che la avvicina a quella di una Literaturoper: il musicista lavorò sul testo del drammaturgo, il quale però rifiutò qualsiasi intervento in funzione della messa in musica e anzi, a un certo punto, si dichiarò completamente estraneo all’operazione.

Scriveva Pirandello a Malipiero in proposito:

“io non vedo che una nostra collaborazione diretta, oltre quella che è nel fatto stesso d’averti io con la mia opera offerto una pura e semplice materia da adoperare per l’opera tua, possa riuscire utile; perché tu devi restare solo e libero di fronte al tuo lavoro come io sono stato di fronte al mio”.

La materia della Favola presentava a Malipiero un Pirandello diverso da quello che presumibilmente più gli piaceva, quello degli anni del teatro del grottesco, della coscienza della crisi che conduce i personaggi a sdoppiamenti laceranti.

Tale, tra l’altro, era stato il ‘pirandellismo’ di Malipiero, quello delle maschere tragiche, del teatro nel teatro, della contrapposizione grottesca tra personaggi veri, maschere e burattini, del teatro nel quale s’intrecciano biografie inconciliabili, accomunate da un unico destino di morte.

Nella Favola, invece, Pirandello raggiunge una visione assolutamente positiva dell’esistenza, e i motivi del doppio, della dialettica tra verità e finzione vi sono ricomposti in una visione rasserenante, lontana dai dubbi delle maschere grottesche.

È infatti nella coscienza del principe, figlio bello e biondo, sottratto a una povera madre dagli spiriti maligni e sostituito con un essere deforme e demente, da tutti beffardamente chiamato Figlio-di-re, che alla fine si attua la conciliazione tra sé come figlio e sé come principe. E tutto ciò senza traumi, senza divaricazioni reificanti tra l’uomo e i suoi sentimenti, bensì come accettazione della realtà dei fatti come migliore condizione esistenziale possibile, come sereno recupero della memoria, alla luce del più solare tra i miti dell’ultimo Pirandello, quello della maternità; di una maternità che è intermediario per un rapporto pacificato con la vita e la natura.

Malipiero non nascose la propria perplessità per la conclusione data dal drammaturgo alla Favola (l’identità del principe ritrovata attraverso il sentimento della vera madre e il contatto con la solarità  della natura mediterranea), questione che per lui rimase sempre un problema insolubile.

C’erano comunque altri aspetti del testo di Pirandello nei quali Malipiero poté trovare una qualche ragione di continuità con la propria concezione drammatica. Innanzitutto, c’è nei primi due quadri la presenza tragica della madre, ferita (come la madre della terza delle Sette canzoni e come quella del secondo brano del Torneo notturno) nel sentimento istintivo della maternità dalla sottrazione misteriosa del figlio vero. C’è poi la presenza straniante dell’Uomo saputo, antidoto alla credulità superstiziosa della madre e delle donne del paese e, nello stesso tempo, schermo a un eccessivo coinvolgimento emotivo, lui ‘buffo’, ‘panciuto’, con movenze ‘da burattino’ in mezzo a un austero quadro di Sicilia arcaica, intrisa di magia, il cui dolore ha la dignità dell’antica tragedia.

E c’è anche la presenza nel testo pirandelliano di più registri stilistici, dal burlesco al tragico, dal tono di filastrocca infantile allo slancio lirico.

Tra convergenze e incomprensioni, nella Favola Malipiero finì per mettere in atto e per la prima volta nel suo teatro si creò un rapporto dialettico tra parole e musica. Egli scrive la sua opera anche di fronte a un libretto che, a parer suo, risolve una situazione ‘è assurda in modo paradossale’.

Al di là  di un recupero estensivo del canto in stile recitativo, venato di inflessioni seicentesche, indispensabile per le parti dialogiche, Malipiero impiega infatti anche nella Favola  i mezzi che avevano connotato il suo teatro dalle Sette canzoni in avanti: incornicia i quadri di cui si compongono gli atti entro un preludio e un postludio strumentale, alla maniera delle opere in voga; si serve dei soliti metodi asistematici di proliferazione tematica per intensificare con la musica la parola drammatica; si cerca le occasioni opportune per ritagliare nel testo di Pirandello vere e proprie canzoni, sottratte all’azione e di assoluta concentrazione drammatica.

Si pensi in proposito alla sequenza di tre momenti di canzone (della madre, dell’Uomo saputo e delle madri del paese) nel primo quadro dell’atto primo, che si compongono nel flusso continuo del recitativo là dove il canto si fa più regolare nel disegno e nel metro, dove la parte strumentale delinea uno spazio uniforme nel timbro e meno frammentario nella costruzione formale.

E si pensi, soprattutto, alla situazione statica (non più narrativa come nel primo atto) con cui vengono rappresentati l’ambiente e le figure della squallida osteria del porto nell’atto secondo, al centro del quale sta la canzoncina burlesca della sciantosa (La mia vita è qua, la mia vita), il cui andamento cabarettistico è sottolineato da un accompagnamento elementare da pianola.

Al contrario di Pirandello, il quale non rinuncia mai alla psicologia, ora come l’inferno del personaggio, dalle cui catene ci si può liberare solo attraverso la maschera, ora è il caso della Favola come strumento di scavo della verità, i personaggi della Favola malipieriana, al pari di quelli delle Sette canzoni del Torneo notturno, rimangono tipi chiusi in una fissità emblematica, priva di spessore psicologico. E proprio questo determina una frattura nell’opera malipieriana a partire dal terzo atto, allorché il musicista si trova ad affrontare la svolta positiva del mito pirandelliano (un giorno Malipiero, dubbioso circa l’esito della Favola, si sarebbe chiesto: ‘E’ una volta assimilato (l’atto terzo) la musica è riuscita a salvarlo e a portarlo per l’orecchio al livello degli altri due?’).

Nel momento della ritrovata identità del principe, il pessimista Malipiero ha come un gesto di ripulsa, sembra non stare più al gioco del drammaturgo.

Nel monologo del principe già figlio cambiato (‘Lasciatemi per ora riguardare la bella riviera’) ricorre infatti a ciò che per lui era sempre stato la negazione dell’opera in musica: per la voce tenorile del figlio cambiato egli si attiene a una vena lirica espansiva, spinta verso il registro acuto, nella quale sono chiari i segni della tradizione melodrammatica e, in particolare, della vocalità veristica.

Per Malipiero quest’opera, con il ritorno alla vicenda unitaria, al libretto dialogato, e con il conseguente uso estensivo del canto recitativo, avrebbe sancito il definitivo trapasso del suo teatro a una concezione la lirica, prevalente nei lavori degli anni Trenta, ispirati a un’ideale classicità (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra) e non del tutto esenti da intenzioni encomiastiche nei confronti del regime fascista.

Per le tendenze moderniste della musica e dell’Opera italiana del primo Novecento, l’insuccesso della prima rappresentazione italiana della Favola (Roma, Teatro dell’Opera, 24 marzo 1934), sospesa per volere di Benito Mussolini, irritato per gli spunti polemici contro il potere regale. Quello, è noto, fu l’inizio di una svolta restaurativa che metteva fine a un’epoca di ricerca di nuove soluzioni drammatiche.

Occorre anche aggiungere che l’opera ebbe una sorte non del tutto felice. La Favola fu rappresentata una prima volta nel gennaio del 1934 a Braunschweig e, replicata a Roma il mese successivo, venne stroncata e ritirata dalle scene tanto in Germania quanto in Italia per espresso ordine di Hitler e di Mussolini.

La vicenda turbò profondamente Pirandello, che non portò mai a termine l’opera I Giganti della montagna nella quale la favola era inserita. Come Pirandello ebbe a confessare a Malipiero:

“L’offesa gratuita e brutale che c’è stata fatta mi tiene lontano perfino dai Giganti della Montagna in cui della Favola si parla e si cita qualche verso. Quella ch’è forse la mia opera maggiore di teatro m’è restata lì da allora”.

Inutile dire che l’opera non vene più messa in scena se non dopo la fine della guerra nel 1952, al XV Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia.

La scrittura, la messa in scena in Italia e in Germania e la censura subita dall’opera La favola del figlio cambiato di Malipiero e Pirandello si devono inquadrare nella situazione politica e culturale degli an-ni Trenta del Novecento.

All’inizio del secondo decennio del secolo, la concezione futuristica dell’arte aveva scosso con decisione l’ambiente musicale che si avventurava verso nuovi sistemi tonali al punto da sfociare nell’apprezzamento del rumore in chiave espressiva modernista.

Gianfrancesco Malipiero e Alfredo Casella erano considerati la punta più avanzata del rinnovamento e, in quanto tali, erano avversati dalla corrente più tradizionalista che espresse la sua fiera opposizione verso l’avanguardia con la pubblicazione del ‘Manifesto dei tradizionalisti’ del 1932 che divise la generazione dell’Ottanta tra coloro che difendevano la tradizione contro le moderne complessità.

“Tutti i credi estetici, che dovevano sovvertire i canoni tradizionali, sono stati esposti e praticati. Il nostro mondo è stato investito, si può dire, da tutte le raffiche dei più avventati concetti avveniristici. La parola d’ordine mirava veramente, infuriando, alla distruzione d’ogni vecchia ed antica idealità artistica. (…) Tutto era buono pur che fosse impensato e impensabile. Cosa ne abbiamo ricavato? Delle strombazzature atonali e pluritonali; dell’oggettivismo e dell’espressionismo che se n’è fatto, cosa è rimasto? (…) Siamo ancora alle ‘tendenze’ e agli ‘esperimenti’, e non si sa a quali affermazioni definitive e a quali vie sicure possano condurre. Il pubblico (…) non sa più qual voce ascoltare né qual via seguire s’è infiltrato nello spirito dei giovani musicisti un senso di comoda ribellione ai canoni secolari e fondamentali dell’arte. (…) L’avvenire della musica italiana non par sicuro se non alla coda di tutte le musiche straniere. (…) Qualcuno pensa a ruminazioni di nostri lontani secoli musicali. Sopra tutto però, si avversa e si combatte il romanticismo del secolo scorso”.

Tuttavia, nel manifesto si passava anche da un piano artistico ad uno non tanto velatamente politico: “Siamo contro a quest’arte che non dovrebbe avere e non ha nessun contenuto umano (…) Italiani del nostro tempo (…) con una rivoluzione in atto che rivela ancora una volta l’immortalità del genio italiano e presidia ed avvalora ogni nostra virtù, sentiamo la bellezza del tempo in cui viviamo e vogliamo cantarlo nei suoi momenti tragici come nelle sue infiammate giornate di Gloria. Il romanticismo di ieri (…) sarà anche il romanticismo di domani (…)”.

É significativo che in questo clima polemico Malipiero componesse gli Inni che vennero dedicati a Mussolini e che comunque vennero stroncati dalla critica che ne stigmatizzava il carattere antimelodico, troppo lontano dalla sensibilità popolare e troppo intellettuale.

Si ignora la reazione di Mussolini, mentre conosciamo il giudizio fortemente negativo del critico Alceo Toni che sul “Popolo d’Italia” si rifiutava di accogliere questa musica fra le espressioni gradite al regime: “(…) questi Inni sono ben povera cosa.

Scritti con intenti neoclassici non ricalcano zoppicando, e sgraziatamente, che certi aspetti del contrappunto e delle linee formali classiche.

Melodicamente sono dei vaniloqui e dei balbettii: infilano note su note con la inconseguenza e la inconsistenza di un discorso a vanvera. Arcaicizzanti, per certi riferimenti dell’oramai immancabile canto gregoriano, sono privi di carattere.

Difettano, cioè, della grandiosità e della religiosità che lo spirito dell’inno comporta (…). è tempo di dire oramai che all’Italia di oggi ‘importano ben altri artisti e si vedrà un’altra volta’, ‘come la rinomanza di certe celebrità da salotto poggi sull’equivoco della cosiddetta arditezza rivoluzionaria che spesso non è che orpello cerebrale e pura e semplice ignoranza grammaticale’. Nel clima generale del dibattito si inserisce la vicenda della “Favola del figlio cambiato”.

La prima assoluta della favola avvenne il 13 gennaio 1934 al Landestheater di Braunschweìg e raccolse i consensi della critica che non mancò di tessere elogi all’Italia mussoliniana per il sostegno offerto alla musica contemporanea. L’opera è considerata un capolavoro per lo stile senz’altro moderno e sintetico: H. H. Stuckenschmid, già allievo di Schoenberg, sostenne che:

“L’Italia di Mussolini è oggi un rifugio del progresso culturale. Favorisce ed incrementa la gioventù ed è consapevole che nuove forme dell’espressione artistica non significano distruzione ma costruzione. I giovani architetti fascisti non sono tanto lontani da Le Corbusier e dal Bauhaus. La poesia e la pittura futuriste sono ormai ufficialmente accettate. Il Duce stesso in materia musicale è intervenuto in un contrasto d’opinioni tra i conservatori e i giovani e si è dichiaralo per Stravinsky”.

Il 3 marzo dello stesso anno l’opera ebbe delle repliche a Darmstadt e ad una di queste assistette lo stesso cancelliere Hitler che non l’apprezzò al punto che in un primo momento la favola venne rimossa dal cartellone degli spettacoli.

I motivi per i quali il lavoro non fu apprezzato furono tanto di carattere musicale, dal momento che l’opera fu definita “alienante”, “atonale” e in quanto tale disfattista e contraria alle direttive dello Stato popolare tedesco, tanto di oscenità, considerando la nudità della sciantosa, problema che come ebbe a ricordare lo stesso Malipiero, fu facilmente risolto “con tre metri di stoffa”.

A distanza di pochi giorni, il 18 marzo, in un’intervista sulla rivista “Quadrivio”, Pirandello sostenne che, se mai qualcuno avesse volute intendere qualche allusione al razzismo dei nazionalsocialisti, non era certo quello lo scopo della favola che semmai contrapponeva l’immagine di un paese oltre la Scandinavia, freddo e buoi con la solarità e la vitalità mediterranea. Aggiungeva poi che non si era inteso neanche recare offesa al principio monarchico con la figura del “Figlio di re”, così chiamato solamente perché la ragazza rimane incinta ma il padre del bambino è ignoto: “(…) in linea di deduzione assolutamente arbitraria si sarebbe potuto vedere qualche accenno non del tutto consono all’ipersensibilità che i nazional-socialisti hanno in materia di razzismo. (…)

(E invece) unico scopo della favola è di contrapporre questo paese (immaginario, oltre la Scandinavia), buio e freddo dove è nebbia amara (…) e fumo forato da lampade, architetture di ferro, forni, carboni, città affaccendate da cure cieche e meschine, formicai”, alla luce solare del paese del sud, col suo sole ristoratore, il suo mare azzurro e il suo cielo meraviglioso: il paese, insomma, della vita.

Là uomini torbidi e agitati, qua cuori semplici. C’è un semplice episodio, ma assolutamente secondario: una ragazza perduta del paese rimane incinta e siccome non si sa chi sia il padre la gente dice che questi è del figlio di re. Per quanto riguarda l’offesa all’autorità che nella favola è rappresentata dal principio monarchico, non saprei proprio che dire.

Non può certo consistere nell’attentato del ‘Figlio del re, che non ha nessuna conseguenza’.

Pirandello ricordava anche che lo spirito dell’o-pera andava individuato solamente nel suo stesso titolo: una favola e che cercare di individuare altri fini era del tutto arbitrario.

Con scarso spirito profetico, l’autore si mostrava ottimista sui futuri esiti dell’opera e guardava fiducioso alla figura di Mussolini, definito “reggitore delle sorti artistiche italiane”.

 “Oggi in Italia abbiamo una grande verità: quella che ha costruito il Duce col suo genio potentissimo e dinamico. Ma quante lotte, quanto sacro martirio, quanta energia è costata! Le grandi verità si ottengono a un simile prezzo e per questo son belle, le amiamo e ci crediamo fermissimamente”.

Il 24 marzo 1934 la favola fu messa in scena al Teatro Reale dell’Opera di Roma alla presenza di Mussolini che ne rimase profondamente contrariato al punto di far cancellare le repliche.

Dopo alcuni giorni, Pirandello stesso scrisse una lettera a Mussolini in cui, pur mostrandosi molto dispiaciuto per l’accaduto, chiedeva con decisione e per iscritto spiegazioni del provvedimento.

Tendendo ad escludere ragioni che le critiche potessero essere di carattere politico, Pirandello chiedeva che se le motivazioni erano artistiche, a giudicare fosse il pubblico.

Dopo due giorni, lo scrittore otteneva la risposta da parte del segretario di Mussolini:

“In seguito, sua richiesta il duce m’incarica comunicarle che ha proibito ulteriori rappresentazioni del Figlio cambiato “perché così gli è parso”; risposta, questa, che alterò profondamente Pirandello.

In seguito alla vicenda, nonostante continuasse a servire il regime, Pirandello prese coscienza della realtà culturale del fascismo, nella sua forma più decisa.  Di contro Malipiero si indirizzò al ministro dell’Educazione Nazionale, Bottai che rassicurò il musicista riguardo la possibile riproposizione della favola, previa una revisione dei punti più problematici.

Lo stesso Malipiero indicava quali fossero i passi incriminati da emendare, operazione di revisione dalla quale Pirandello si dissociò.

Le annotazioni di Malipiero riguardavano la difesa della morale borghese e l’istituto della monarchia che era apparsa deprecabilmente ridicolizzata.  L’operazione di correzione censoria tuttavia non ebbe esito, dato che durante il ventennio l’opera non fu più riproposta, fosse per la mancata collaborazione dello scrittore, o per le ipotizzate modifiche che andavano ad alterare non solo lo sviluppo narrativo ma la stessa struttura musicale.

In seguito, Malipiero preferirà rivolgere la sua attenzione verso soggetti classici come Giulio Cesare (1934-35), Antonio e Cleopatra (1936-37), Ecuba (1940), liberamente tradotti e ridotti da lui stesso dalle opere di Shakespeare, Euripide, Calderòn de la Barca.

Dal canto suo Pirandello con il “Discorso al convegno Volta sul teatro drammatico” pronunciato a Roma, l’otto ottobre 1934, dimostrava di prendere le distanze dal Fascismo, esprimendosi a favore di una arte che dovesse essere disinteressata e che non dovesse essere appoggiata per fini estranei all’arte stes-sa: “Con quest’animo appunto e senza il minimo intento polemico ho inteso parlare dei rapporti tra politica e arte, cioè in un senso in cui tutti astrattamente possono convenire, per arrivare alla conclusione che, essendo l’arte il regno del sentimento disinteressato, disinteressato ugualmente dovrebbe essere ogni ajuto che si stimasse doveroso e opportuno arrecarle”.

La Favola del figlio cambiato dovette attendere diciotto anni per essere riproposta al Festival della Biennale di Venezia, nel 1952 con la messa in scena da parte di Giorgio Strehler.

Le scene furono disegnate da Enrico Paulucci che si avvalse per i bozzetti dei costumi di una sua assistente, Gianna Lanza.  Quell’allestimento inizialmente non piacque a Malipiero che fu particolarmente severo e critico, invitando Paulucci ad attenersi di più al testo del libretto e alle didascalie sceniche fornite dallo stesso Pirandello.

Per quietare il maestro, Enrico Paulucci accolse i rilievi mossi e ritornò più volte sui bozzetti delle scene, correggendoli e modificandoli in modo da trovare una soluzione che soddisfacesse il musicista.  In realtà le scene piacquero alla critica.

Andrea della Corte sulla Stampa dell’11 settembre 1952 notava che: “il pittore Enrico Paulucci è stato riguardosissimo delle didascalie di Pirandello nel di-segnare adeguati e vivaci bozzetti. Con lui ben s’è accordata Gianna Lanza provvedendo ai costumi”.

Il critico musicale Massimo Mila sull’Unità ebbe parole di apprezzamento per la sobria regia di Strehler e aggiunse che:

“Le scene dipinte da Enrico Paulucci ed i costumi disegnati da Gianna Lanza hanno efficacemente contribuito alla riuscita dello spettacolo, rendendo all’occhio e quindi all’intuizione del pubblico il senso generale della favola, che è il passaggio graduale da un’oscurità di lutto ad una crescente gioia luminosa in seno all’innocenza primitiva della natura”.

Anche il pubblico apprezzò l’opera, gratificando Malipiero con attestati di affetto e stima e risarcendolo, sia pur tardivamente per un successo a lungo negato.

Leggi L’opera

Pietro Seddio

La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello.
Analisi critica

INDICE

Nota introduttiva
La Novella
L’opera lirica
Il Maestro Gian Francesco Malipiero

Indice Tematiche

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

ShakespeareItalia