Pietro Seddio: La famiglia di Luigi Pirandello – Cap. 7: Stefano Pirandello

Di Pietro Seddio

Stefano Pirandello (Roma, 14 giugno 1895 – Roma, 5 febbraio 1972) è stato un drammaturgo italiano, conosciuto anche con lo pseudonimo di Stefano Landi. Figlio primogenito di Luigi Pirandello, dal quale ereditò la passione per il teatro. Si sposò nel 1922 con la musicista Maria Olinda Labroca, dalla quale ebbe tre figli: Maria Antonietta (1923-1971), Andrea Luigi (1925-2016) e Giorgio (1926-1999). (Fonte Wikipedia)

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La famiglia di Pirandello. Capitolo 7
Luigi Pirandello nel suo studio con il figlio Stefano e la signora Olinda Labroca sua moglie legge alcuni telegrammi ricevuti in occasione del conferimento del Premio Nobel. Da Istituto di Studi Pirandelliani

La famiglia di Luigi Pirandello

Col consenso dell’autore

Capitolo 7
Stefano Pirandello (1895-1972)

Il nome di Stefano Landi oggi non dice molto: un letterato italiano nato nel 1895 e morto nel 1972, con all’attivo un romanzo, Il muro di casa, vincitore anche di un Premio Viareggio negli anni Trenta e più volte ristampato da Bompiani, e diversi lavori teatrali: I bambini, che sono il suo esordio, L’uccelliera, La casa a due piani…

Il nome di Stefano Landi non dice molto se non si aggiunge, come è giusto fare subito, che il suo vero cognome era Pirandello e che nel rapporto e nell’inevitabile confronto con il padre la sua vita letteraria bruciò senza un vero e duraturo successo. Oggi, in tre volumi (pagg. 480, Bompiani) ci riconsegna Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, con una prefazione dei curatori che tende al riscatto di un personaggio “ingiustamente obliato”, ma soprattutto con una monumentale biografia di quasi quattrocento pagine che, attraverso lettere e documenti familiari spesso inediti, ricuce una storia corale, con attori di prim’ordine.

Intanto la famiglia Pirandello: Luigi e la moglie Antonietta, preda, come si sa della follia e ricoverata, dal 1919, in una clinica dove rimase per lunghissimi anni fino alla morte, i figli Stefano, Lietta e Fausto, che sarebbe diventato un pittore di gran livello.

A Ugo Ojetti, nel 1914, Luigi scrive:

“Già forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritatamente sciagurate condizioni familiari. Non è vero? Ho la moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io… Non c’è denaro che basti: tutto quello che entra è subito ingoiato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia. Non ho una casa solo, un inferno solo; ma due case, due inferni: uno qua, a Roma, l’altro a Girgenti”.

Stefano si avvia intanto a diventare un volontario nella Prima guerra mondiale: verrà fatto prigioniero e resterà a Mauthausen per lunghissimi anni, soccorso dal padre che gli inviava cibo, libri e persino, una volta, cinquecento sigarette fatte a mano da lui e dalla Mamma.

La metafora del prigioniero si addice bene a Stefano: in qualche modo non può uscire dalla sua condizione di figlio e per di più, come accadrà in seguito, con mansioni di segretario e qualche volta addirittura di “negro”.

Prigioniero della grandezza di un’opera che vede nascere e crescere, mentre tenta di muovere i primi passi nella stessa direzione, di calcare, da autore, gli stessi palcoscenici.

Il padre lo segue con trepidazione: è convinto della sua bravura, lo vorrebbe veder trionfare e intanto cerca di procurargli un posto in un giornale, ma non sarà facile.

Amendola lo assume al ‘Mondo’ ma pochi mesi dopo, in seguito ad una riduzione del personale, Stefano è di nuovo a casa.

Ojetti, sollecitato per un posto al Corriere della Sera, deve dire a Luigi che ha già troppi redattori letterari e che vorrebbe in realtà sfoltirne il numero. Di fatto Stefano ebbe soprattutto collaborazioni al Tevere diretto da Telesio Interlandi (lo stesso che poi firmò La Razza), alla Tribuna, alla Stampa e ad altri giornali minori: vi pubblicava articoli e novelle, genere che allora andava molto.

In una lettera lo studioso e saggista Arturo Farinelli gli dice: “Ho letto ed ora amo la tua commedia. L’impressione generale è ottima. C’è tanta umanità ne’ tuoi personaggi e tanto senso di dolorosa realtà che il lettore, specialmente se poeta, è conquistato. Per alcune scene – le prime – occorrerà la forbice (…) ma il dramma è creato”.

Farinelli si riferisce probabilmente ad una delle commedie scritte durante la prigionia, cioè I bambini o L’uccelliera, e coglie benissimo l’impronta di Stefano, scrittore teso a sanare le ferite umane, al contrario del padre che invece vi mette, per così dire, del sale. Nell’autunno del 1920 Luigi inizia a scrivere i Sei personaggi in cerca d’autore e Stefano viene spesso chiamato ad ascoltare quel che via via va componendo. Questo rapporto di intimità con la creazione paterna lo metterà in grado di scrivere anche al suo posto: accadrà, come dice esplicitamente in un memoriale, per certi soggetti cinematografici che sono sì di Pirandello, ma non sono mai scritti direttamente da lui, e per alcuni articoli per giornali, a cominciare dal Corriere.

Nell’agosto del 1921 Stefano si sfoga per lettera con la moglie Olinda. Le racconta che il padre ha a teatro qualche difficoltà perché il suo teatro è considerato d’eccezione e dunque gli impresari non lo mettono nel repertorio.

“Figurati come sto combinato io che, a priori e senza possibilità di scampo, sono bollato: uno che è il figlio di Pirandello ma che poi certo non può essere Pirandello”.

Certe volte si ha l’impressione che i ruoli tra i due siano addirittura scambiati: quando Luigi è depresso è Stefano, soccorrevole, a scrivergli che deve riprendersi e pensare solo alla sua arte:

 “Perché devi avere, Papà mio, questo senso atroce della tua vita e di noi che siamo le creature?… Tu hai sempre dominato te stesso e la tua sorte”.

 E se il padre, come si è detto, cerca di aiutare il figlio scrivendo agli amici per procurargli collaborazioni o lavoro (Silvio D’Amico, Ojetti e altri ancora), Stefano fa di più: scrive a Mussolini perché spinga il padre, depresso, a lavorare. Siamo nel ’32.

Il Duce ha il ruolo di una sorta di re taumaturgo.

“Pirandello, da qualche anno, perde interesse alla vita: da un giorno all’altro può cedere alla tentazione di finirla in maniera tragica o, peggio, clamorosa… Bisogna costringerlo di nuovo al lavoro. Oggi in Terra può farlo soltanto: V. E. manifestandoglielo come un desiderio. Conosco mio Padre, so che egli sarebbe sensibilissimo all’attesa di Vittorio Emanuele”.

Nel ’35 esce, come si è detto il romanzo Il muro di casa che gli frutterà un premio Viareggio. In febbraio Luigi aveva scritto a Marta Abba: “Stefano se n’è stato tutto il tempo in casa e senza nemmeno leggere i giornali, a finire il suo romanzo, che, se Dio vuole, è finito”.

Il 17 agosto del ’36 Stefano sta scrivendo un articolo per La Nacion che apparirà firmato dal padre e si sfoga, per lettera, con la moglie:

“Non so come fare! Dovrei forse abbandonare l’idea di rabberciare l’articolo e buttarmi a farne uno tutto di mia invenzione: cosa che ormai mi ripugna tanto: dare della mia sostanza viva al nome letterario di mio Padre. Ma credo che non potrò fare altro”.

Luigi, il padre, muore il 10 dicembre del ’36 in seguito ad una polmonite. Lascia incompiuti I Giganti della Montagna, ma Stefano raccoglie dalle sue labbra la traccia dell’ultimo atto.

Tre giorni dopo viene cremato e Stefano racconta a Corrado Alvaro:

“Avessi visto, un pugno di cenere. Come se fossero passati mille anni”.

Stefano in un primo momento accetta di scrivere una biografia del padre, ma poi, qualche giorno dopo, rinuncia:

“Non posso, non posso. Mio Padre è tutto fluido in me; se ne scrivo, mi si pietrifica e lo perdo”.

Già, la vita che ti diedi… È un po’ come se il padre si fosse ripreso la vita data al figlio, che della sua identità, appunto di figlio, non riuscirà mai, neppure dopo, a disfarsi. E anche oggi il suo teatro riappare non firmato da Stefano Landi, che sembra il nome di un personaggio da commedia, ma da Stefano Pirandello.

Questo padre, a volte poco capito, anche contestato perché il suo spessore era diventato un incubo, durante la guerra che vide coinvolti i due suoi figli, trascorse periodi di apprensione temendo per la loro sorte. Erano ancora giovani e purtroppo, come tanti altri giovani, la morte era sempre in agguato.

Proprio durante il colloquio con la madre (la famosa novella) esprime tutto il suo dolore per quanto gli stava per accadere e proprio la morte della madre sembrava aver dato il via a tutta una serie di grossi negativi problemi che iniziavano a colpire la sua famiglia. Riuscì a scrivere alcune lettere a Stefano che si trovava al fronte dove successivamente fu catturato e reso prigioniero a Mauthausen.

Fu un duro periodo vissuto tra l’attesa e il continuo lavoro che lo costringeva ad essere sempre impegnato e non perdeva mai tempo nello scrivere, in continuazione al figlio Stefano sperando che questo rapporto di colloquio epistolare non abbia a disperdersi.

Era cosciente che qualche anno prima, per ossequiare la volontà di Mussolini, aveva considerato la guerra una scelta giusta che scaturiva da una sapiente intelligenza presente nella mente del Duce e quindi le sue prese di posizioni in questa direzione erano sempre rivolte. Ma allorquando Stefano si trovò a combattere lontano da Roma, sempre in continuo pericolò, il Maestro tornò indietro sulle sue osservazioni imprecando contro quella guerra da lui caldeggiata in periodo non sospetto.

In quel momento il Maestro sentì di essere uno di quei padri dibattuti tra opposti sentimenti fino alla fine della guerra. Quella guerra che aveva già “rubato” il primo figlio ora era pronta a prendersi l’altro ed infatti anche Fausto dovette indossare la divisa ed andare a combattere ma siccome era convalescente per essere stati da poco operato, ed essere stato vittima di una grave malattia viscerale, fu mandato a Firenze e poi a Castelfranco di Sotto per il corso di addestramento. Furono mesi terribili e proprio Fausto ebbe la peggio perché le sue condizioni fisiche aggravarono tanto che si provvide a soccorrerlo e siccome era il figlio di Pirandello ci si attivò per farlo tornare a casa. Le sue condizioni peggiorarono alla fine si venne a sapere che era stato colpito dalla tubercolosi. Fortuna volle che alla fine il ragazzo si ristabilì del tutto.

Ma Stefano continuava a rimanere lontano e fu un lungo periodo di detenzione e di lontananza dalla famiglia. Anche lui, per le condizioni cui era sottoposto, finì per ammalarsi di tubercolosi ed ora vi erano due ammalati di tubercolosi che continuavano a rima nere lontani da casa.

Che fare? Come risolvere questo increscioso problema? Ci si rivolse alla Chiesa nei confronti della quale Pirandello, anche per alcune sue opere, aveva sempre dimostrato una certa ostilità ed ora non poteva pretendere che il Vaticano intervenisse a favore dei due ragazzi.

Non ci si crede ma fu proprio per l’intervento del Vaticano, grazie ad un cardinale che interessò il papa Benedetto XV perché firmasse una lettera autografa rivolta al governo austriaco per provvedere allo scambio di alcuni prigionieri, tra cui Stefano Pirandello.

Non fu per niente facile, anzi lo stesso Maestro fu avvisato dal cardinale Gasparri che non era possibile effettuare lo scambio. Seguirono mesi di trattative, di impegni e scambi di interessi diplomatici che videro impegnati personaggi noti ed importanti ma nonostante queste presenze Stefano rimase ancora prigioniero.

È importante sottolineare, per dare senso compiuto a questa disamina, che la guerra riuscì a colpire il Maestro nel profondo e di fronte a quegli eventi che continuavano a turbarlo, la sua anima continuava ad essere in tumulto e mentre produceva nuovi testi la frustrazione era assai palese così molti suoi personaggi rappresentavano la sua negatività.

Giustamente è stato anche detto che la guerra ha spinto lo scrittore ora a invaghirsi delle ragioni pubbliche degli avvenimenti e ora a mettersi in salvo dalle seduzioni della collettività, a ribellarsi e a protestare contro di esse. Rimase, come scrittore, aggravato da un sedimento oratorio sentimentale e patetico; ma spesso è in un campo di riflessioni solitario, collocato in una sfera in cui non v’è accesso per gli altri.

Finalmente il figlio Stefano fece ritorno a casa e stante la precaria situazione della madre, si provvide a farla internarla cercando una cura che potesse riportarla a vivere una vita normale. Con uno stratagemma (un vero inganno) la povera donna varcò quella soglia della clinica dalla quale non sarebbe mai più uscita.

La sua dipartita provocò un enorme dolore nel marito che avvertì il vuoto della casa e si trovò a girare per le stanze come una “mosca senza capo”.

La presenza dei figli tornati a casa non riuscì a riempire quel vuoto presente nell’animo del loro padre che comunque continuava a scrivere e tante erano le attestazioni di ammirazione che arrivavano da tutto il mondo.

La sua fama che aveva varcato i confini dell’Italia fino alla sua morte gli fece compagnia e tutte le volte che i suoi personaggi si presentavano sui palcoscenici di tutto il mondo si sentivano i fragorosi applausi che garantivano il successo al Maestro che cominciava a sentire il peso degli anni e dei primi malesseri causa del cuore che funzionava malamente.

Viveva, ormai, come esule e si trovava spesso e sovente in varie città dormendo in alberghi, mangiando nei ristoranti e si sentì isolato, vagabondo ricordando, sempre, con affetto, quella casetta sperduta nella campagna del Caos.

Riuscì, finalmente, a comprare una casa per cercare di ritrovare una nuova dimensione e così poté abitare nella casa di via Bosio.

Nessuno prevedeva che dopo aver ritirato a Stoccolma il Premio Nobel, dopo due anni avrebbe lasciato questa terra ponendo termine al suo “involontario soggiorno sulla terra”. Nell’analizzare la vita di Stefano si ha la possibilità di scorgere molti lati assai simili a quelli del padre che ha vissuto anni di assoluta crisi esistenziale e nonostante il successo non è mai riuscito a trovare quel barlume di speranza che lo avrebbe portato a trovare pace e tranquillità. Così è stato per Luigi, similmente è accaduto per Stefano.

Nel lungo racconto “Berecche e la guerra” Luigi Pirandello descrive la disperazione di una madre per il figlio partito volontario per la Grande guerra

“Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto s’avventa contro l’uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di spallate, di ginocchiate e si scaglia contro il marito, gli si para davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo, e gli urla, feroce: Voglio mio figlio! Voglio mio figlio! Assassino! voglio mio figlio! voglio mio figlio!”.

Berecche la compatisce per uno strazio che condivide, ne osserva lo sguardo da folle e scoppia a piangere “sul grigio capo scarmigliato della vecchia compagna non amata”.

Il racconto concepito nei mesi che precedono l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915, e rielaborato in quelli immediatamente successivi, è la trasposizione letteraria della situazione in casa Pirandello.

Lo scrittore proietta in Berecche il proprio dilemma se sia giusto abbandonare l’alleanza con Austria e Germania, facendolo propendere per il sì; Stefano, il primogenito, è partito volontario dopo avere partecipato a manifestazioni interventiste a Roma; e in famiglia la situazione, sempre tesa per gli scatti di follia della madre Antonietta Portulano, è peggiorata.

Ad accentuare il carattere autobiografico del racconto, Pirandello inserisce una lettera dal fronte del figlio, e, approfittando della finzione letteraria, dichiara il disamore per la “compagna non amata”.

L’ansia per Stefano, e l’ostilità interna alla famiglia costituiscono due dei tre fronti su cui si batté Pirandello negli anni della Grande guerra; il terzo fu la rivoluzione teatrale di cui fu protagonista dal 1916 in poi. Stefano era andato ad arruolarsi il 31 dicembre del 1914. A fine luglio 1915, col grado di sottotenente, era stato inviato al fronte e il 2 novembre era caduto prigioniero degli austriaci.

Cominciò così una lunga prigionia prima a Mauthausen e poi, dopo la disfatta di Caporetto, a Plan in Boemia. Fu liberato a guerra finita, nel novembre del 1918. In tutti questi anni di segregazione, Pirandello ebbe il pensiero costantemente rivolto al figlio, alla sua salute mentale e fisica, attento a decifrare dalle lettere segni di cedimento, sempre pronto a incoraggiarlo e a proporsi come esempio: l’unico rimedio era il lavoro.

Stefano, che sarebbe divenuto scrittore anche lui, abbozzò in quegli anni le prime opere letterarie. La guerra provocò in casa Pirandello lunghi periodi di tregua, per non provocare ulteriori sofferenze al figlio prigioniero.

Incombeva però la memoria di quanto era acceduto nell’aprile del 1914: Antonietta, durante una delle sue frequenti fughe a Girgenti, aveva dato in escandescenze, sentendosi perseguitata da preti e carabinieri, rischiando il manicomio da cui l’aveva salvata il marito.

La paura di essere ricoverata e l’ansia per Stefano sedarono la sua aspirazione a essere “Libbera e indipendente. Indipendente e libbera”.

Il rapporto coniugale si era deteriorato nel 1903, quando nel fallimento del suocero Stefano Pirandello si erano volatilizzate le settantamila lire di dote della nuora e la relativa rendita annuale. Antonietta per mesi era rimasta paralizzata alle gambe.

La deprivazione economica, sociale e morale si mutò in odio implacabile verso il marito. A volte lo cacciava dalla stanza coniugale, altre persino dalla casa, e spesso si rifugiava a Girgenti portandosi dietro l’uno o l’altro dei tre figli: Stefano, Fausto e Lietta che fu la vittima predestinata.

Le lettere che da casa Pirandello partivano verso il campo di prigionia riguardo alla situazione familiare abbondavano di formule convenzionali. Stefano, prima di essere fatto prigioniero, fu informato solo di una crisi nell’agosto del 1915 e le inviò un’invocazione: “Mamma, non mi fare bruciare dentro”.

Poi fu tenuto all’oscuro del tentato suicidio della sorella che, angariata e remissiva, il 15 aprile del 1916 si chiuse nella sua stanza e premette il grilletto di una pistola che il padre deteneva in casa.

L’arma fece cilecca e la ragazza fuggì di casa. La crisi fu superata, ma Pirandello scrisse alla sorella Lina che, finita la guerra e rientrato Stefano, la cosa migliore sarebbe stata ricoverare la moglie in una casa di cura.

Stefano era stato il confidente, il primo lettore delle opere del padre, e Pirandello lo informava costantemente della sua attività. In una lettera del 25 febbraio 1916, gli raccontò di avere assistito al teatro Morgana a “Lumie di Sicilia”, ‘che hanno avuto un felicissimo esito nella meravigliosa interpretazione di Musco’, e di aver promesso all’attore catanese che avrebbe ricavato per lui un dramma dalla novella “Pensaci, Giacomino!”.

Cominciava così con un testo dalla morale anticonvenzionale, con una straordinaria e inarrestabile vena creativa, la rivoluzione teatrale di Pirandello. La messinscena il 10 luglio, annuncia al figlio in una lettera scritta il giorno dopo, ha avuto un esito trionfale, “Musco è stato grande”. Il giorno 14 ritorna sull’argomento:

“Musco è entusiasta della sua parte, che dà la misura intera del suo valore artistico, impedendogli d’abbandonarsi ai comici acrobatismi di dubbio gusto del Paraninfo e del San Giovanni decollato”.

Il successo alimentò il sogno di rifugiarsi in una “bicocchetta” di montagna. “La mia più viva soddisfazione sarà di lanciare di lassù un solennissimo sputo a tutta la civiltà”.

Il 24 ottobre comunica al figlio di avere scritto in quindici giorni “Liolà”: “Ma la sentirai al tuo ritorno, perché certo questa è opera che vivrà a lungo”.

Nel gennaio 1917 riferisce di “gravi dissensi” con Musco”. Sebbene l’attore avesse contribuito al successo, Pirandello s’indispettiva delle libertà da guitto, anche perché era convinto che ai suoi testi non si addicessero i modi farseschi. Ebbe come alleato Martoglio, ed entrambi proibirono a Musco di recitare i loro testi. Anche se si rappacificarono, comunque le loro strade erano destinate a divaricarsi.

Il teatro di Pirandello, anche se non parla di guerra, coglie i mutamenti psicologici della società sull’onda lunga della deflagrazione umana e morale delle masse schierate in trincea. Il richiamo agli effetti del conflitto è implicito nel linguaggio bellico utilizzato da Antonio Gramsci recensendo “Il piacere dell’onestà” nel novembre del 1917 sul quotidiano socialista “Avanti!”:

“Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero”.

La tregua in famiglia si ruppe per l’ennesima esplosione di follia di Antonietta che nel giugno del 1918 aggredì la figlia accusandola di volersi sostituire a lei, di tramare per ucciderla e impossessarsi dell’eredità, e perfino di rapporti incestuosi con il padre.

Lietta si rifugiò presso gli zii a Viareggio. Pirandello scrisse alla sorella Lina che “aveva appuntato contro di lei tutta la ferocia della sua laida pazzia”. Stefano, ignaro di tutto e presentendo imminente la liberazione, si illudeva: “Voglio ritrovarvi tutti uniti, nella santa pace di casa nostra, casa mia!”.

In effetti Pirandello si era rivolto al Vaticano per sollecitare uno scambio di prigionieri. La pratica arrivò al presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando ma il tentativo fallì perché le autorità austriache pretendevano la liberazione di tre valenti ufficiali in cambio del figlio di un’illustre personalità italiana.

Finita la guerra, il ritorno del reduce fu traumatico: si trovò dinanzi alla irrevocabile decisione del padre di ricoverare la moglie. Tentò di resistere, vagheggiò di vivere con lei, ma alla fine si arrese all’evidenza. Certo era impossibile ad un figlio dare un giudizio reciso su una madre che per lettera gli aveva espresso una riflessione così profonda sulla condizione femminile:

“Non escludo che questo avviene anche in molte famiglie del continente e via di seguito, ma in Sicilia la donna deve rappresentare Mater dolorosa. Niente distrazioni, niente vestire, niente amore, niente dignità, servire, servire, servire, ecco quello che si vuole da me. È possibile?”.

A quel destino senza vie d’uscita, lei stessa preferì la casa di cura. Archiviata la guerra vittoriosa come lutto e insano massacro; dei tre fronti su cui era stato impegnato Luigi Pirandello, due ebbero esito positivo, il figlio era tornato e sulla scena la sua marcia era stata trionfale; ma la guerra di logoramento con la moglie non poteva avere né vinti né vincitori, per tutti rimase una ferita bruciante.

Pietro Seddio

INDICE

La famiglia di Luigi Pirandello: Nota introduttiva
Capitolo 1: Caterina Ricci Gramitto
Capitolo 2: Stefano Pirandello
Capitolo 3: Maria Stella
Capitolo 4: Calogero Portolano
Capitolo 5: Antonietta Portulano
Capitolo 6: Rosolina Pirandello
Capitolo 7: Stefano Pirandello
Capitolo 8: Fausto Pirandello
Capitolo 9: Lietta Pirandello
Capitolo 10: Il problema dell’eredità con i figli

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