Pietro Seddio: La famiglia di Luigi Pirandello – Cap. 10: Il problema dell’eredità con i figli

Di Pietro Seddio

Il punto nevralgico di questo capitolo, assai particolare, vuole mettere in risalto un aspetto del quale non si è mai parlato con dovizia di particolari, ma si è solo dato un riscontro grazie al riscontro degli ultimi parenti di Luigi. Parenti alcuni testimoni delle diatribe che hanno coinvolto i tre figli per l’eredità del loro nevralgico.

Indice Tematiche

La famiglia di Pirandello. Capitolo 10
Lietta, Maria Antonietta, Fausto, Luigi, in basso, Stefano. (Soriano del Cimino, 1908).

La famiglia di Luigi Pirandello

Col consenso dell’autore

Capitolo 10
Il problema dell’eredità con i figli

L’essere figli di una persona nota in campo artistico è più un peso o un privilegio (nel caso in cui il figlio volesse ripercorrere la strada del padre)? È più una prigione o un’opportunità? Qualcosa di cui approfittare o da cui rifuggire?

Per esempio, se Sophie Auster, figlia dello scrittore Paul, anziché fare la cantante e l’attrice avesse deciso di darsi alla letteratura, avrebbe più o meno successo di adesso? E se Stella McCartney, figlia dell’ex Beatles Paul, avesse deciso di dedicarsi alla musica piuttosto che alla moda, sarebbe riuscita a sfondare? E Julian Lennon? Se non fosse stato figlio di John, sarebbe più o meno noto di quanto in effetti oggi è?

Non è facile rispondere: è presumibile che dipenda dall’importanza del nome.

È improbabile, cioè, che il figlio di un gigante dell’arte possa raggiungere i risultati del genitore. Anche se è bene non generalizzare in maniera assoluta. Per esempio, prendiamo questi due big di Hollywood: meglio Kirk Douglas o Michael Douglas?

Si è spesso discusso se la notorietà del genitore influisca sull’andamento sociopsicologico, dei figli e spesso ci si è trovati in disaccordo perché alcuni hanno affermato che il “nome pesante” alla fine diventa negativo e compromettente, mentre altri affermano l’esatto contrario.

Nel nostro caso riproponiamo la storia di Stefano Pirandello, il primogenito, che decise, in un momento particolare della sua vita, di abolire quel cognome e farsi chiamare: Stefano Landi, anche lui scrittore.

Qualcuno lo indica già come uno dei nuovi possibili casi letterari. Un romanzo postumo, firmato da un autore che porta uno dei cognomi più celebri della storia della letteratura. Un cognome che, probabilmente, lo ha penalizzato. Non è facile, infatti, essere figli di Luigi Pirandello e portare avanti il sogno, o meglio, la “necessità” della scrittura cercando di sfuggire al fastidioso e inevitabile peso del confronto. Il lavoro di tutta una vita di Stefano Pirandello, cominciato negli anni Venti e riveduto più volte fino alla scomparsa dell’autore (avvenuta a Roma il 5 febbraio 1972).

Il punto nevralgico di questo capitolo, assai particolare, vuole mettere in risalto un aspetto del quale non si è mai parlato con dovizia di particolari, ma si è solo dato un riscontro grazie al riscontro degli ultimi parenti di Luigi. Parenti alcuni testimoni delle diatribe che hanno coinvolto i tre figli per l’eredità del loro nevralgico.

Il punto centrale della loro eredità resta il luogo dal quale sono partiti e al quale sono ritornati: Agrigento. Un territorio dal sapore greco, ellenico. Un ambiente fortemente mediterraneo nel quale i colori, la visibilità dell’immaginario e dell’immagine stessa di Fausto rappresentano la traducibilità di un linguaggio che è quello dell’arte vera e propria. Uno degli ultimi eredi è stato Pierluigi Pirandello il quale nel suo testo dedicato al nonno Luigi, ‘Il Pirandello dimenticato’ (edito da De Luca Editori d’Arte), ha dato prova tangibile del fatto che le eredità non possono mai essere dimenticate. Fausto, una pennellata in cui il colore aveva sempre un tratteggio di esistenza, portava le radici che incisioni di una grecità profonda. A questa grecità si era formato anche Pierluigi.

Dal 1924 inizia la nuova attività del primogenito di Luigi Pirandello che diventa scrittore molto apprezzato per via delle tante opere teatrali scritte e rappresentate. Si farà conoscere in modo esclusivo come Stefano Landi e non più riterrà opportuno insistere con il cognome del famosissimo padre Luigi che così scriveva:

“La vita, o si vive o si scrive. Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola. Altri pensano a darmi alimento e cura. Ora non ho più nessuno. I miei due ragazzi sono purtroppo, come me: hanno anch’essi il baco nostro, con la disgrazia di voler fare proprio sul serio: e l’uno, il maggiore, scrive, e l’altro è avviato alla pittura. […] Del primo avrai forse letto sulla Tribuna e sull’Idea Nazionale qualche articolo. Si firma Stefano Landi per non mettere nella letteratura il guajo d’un altro Pirandello. Ma ha un suo modo particolare di vedere e rappresentare la vita, che non ha niente da vedere col mio”

Molto si è parlato del valore artistico delle opere di Stefano Landi considerato un autorevole autore del Novecento che, in ogni caso, nelle analisi è stato sempre confrontato con il padre, uscendone perdente perché il famoso don Luigi non ha uguali.

Nell’opera “La casa a due piani” sono molte le somiglianze con quella dove Stefano per tanto tempo ha abitato definendo l’atmosfera vissuta del tutto irrespirabile, così come quella descritta nell’opera che attesta la difficoltà di quella famiglia ad avere un dialogo costruttivo ed è significativo quanto riferisce il personaggio Federico:

“Ma se è colpa dell’aria calda! Tu la respiri e tiri dentro afa… arsura – è soffocante […] Noi facciamo il male senza volere”.

Emerge nel contesto dell’opera emerge chiaramente che in quella famiglia il dialogo, l’affetto, la comprensione ormai sono lontani ricordi ed è evidente che i tre fratelli non si comprendono più, quasi a voler ricordare quanto il padre aveva scritto che pur parlando lo stesso linguaggio non ci si capisce mai. Impossibilitati a dialogare e quindi a guardarsi in cagnesco, dando il via a quella corsa sfrenata nei confronti dell’eredità.

Stefano fu dunque, indubitabilmente, consumato dal ‘fuoco de la vita ardente’ di Luigi Pirandello: per lui il padre è infatti ‘una carica di energia vitale sbalestrata in un mondo di cui non capisce mai i rapporti sociali, i doveri di convivenza, le convenienze’, secondo un giudizio recentemente ripreso da Ferdinando Taviani che l’ha però amputato della sua più profonda e inquietante ambivalenza.

Sembra giusto, per chiarire alcuni passaggi che nel corso degli anni sono stati evidenziati parlando nello specifico del rapporto tra padre e figlio, riportare una conosciuta e famosa lettera che Stefano ha inviato all’editore Valentino Bompiani, ormai amico di entrambi.

Il giudizio pare esprimere un’energia positiva pur se (o proprio perché) anticonformista. L’energia, si può aggiungere, frutto del candore (per dirla con Bontempelli) della sua visione artistica; l’energia di un creatore, ovvero di chi (scriveva Stefano nella sua prefazione al ‘breviario di fede’ dell’Uno, nessuno e centomila) si è posseduto per intero “come un pazzo, come un eroe, come un santo”.

La fonte diretta del giudizio filiale citato è una delle numerose lettere di Stefano all’amico editore Valentino Bompiani; lettere che costituiscono una fondamentale testimonianza della profonda ambivalenza affettiva di Stefano nei confronti del padre: del passato amore come dedizione talora assoluta, della perdurante devozione, ma altresì dell’esacerbato risentimento di chi ha subito la privazione di una propria autonoma esistenza e identità.

Con punte di sorprendente acrimonia, acuita dalle disposizioni testamentarie, come testimonia, nella lettera in questione, l’allusione a Marta Abba in mezzo ad altre, meno decifrabili. Vale anche perciò la pena di citare un ampio passo di questa lettera che Stefano scrisse il 6 ottobre 1939, rispondendo alla richiesta di lettere inedite da inserire nell’Almanacco Bompiani del 1940:

“E’ da ieri mattina che spoglio corrispondenza vecchia: due giorni di ricerche e d’amarezze nel rinvangare ricordi di tutti i generi. È il ribrezzo che me ne tiene lontano. Dio, ci fosse un solo ricordo bello, in tutti gli anni trascorsi accanto a mio Padre! E per te non trovo nulla, nulla che valga la pena – o quando ne varrebbe la pena, sono cose ch’è impossibile tirar fuori senza colpire a tradimento la memoria di qualche morto o la giusta suscettibilità di qualche vivo. Mio Padre è un «intoccabile», caro Valentino: una carica d’energia vitale sbalestrata in un mondo in cui non capì mai i rapporti sociali, i doveri di convivenza, le convenienze: nemmeno gli affetti familiari, accecato dai suoi amori esclusivi: iroso, ingiusto, disumano con tutti fuor che con l’idolo del momento, che il più delle volte non restava sugli altari che qualche mese: tranne uno, che per sciagura sua e di tutti, rimase in carica per anni e anni. Che devo fare, io? Quando io sarò morto, se prima non distruggerò tutte queste cose, un estraneo, col gelido interesse del curioso, potrà tirar fuori un sacco di razzi esplosivi per scandali e polemiche: ma io debbo tener tutto chiuso. Credi pure che quel che era da tirar fuori l’hai avuto tutto tu, ed è servito a mettere in luce una faccia di Lui meravigliosamente bella: quella faccia che, nel cuore di chi gli visse vicino e lo conobbe per intero, gli fa perdonare tutte le altre, tante, e nessuna da mostrare senza rischi.”

Questo ti chiarisca anche perché io non scriverò un libro su mio Padre: a meno che altri – come purtroppo può accadere, e da un momento all’altro – non sollevi certi veli. E allora forse non avrei da difendere la Sua memoria, ma la vita di qualcuno di noi”.

Emerge chiaramente che le emozioni, il sentire inconscio, sono il ‘fuoco bianco’ dell’esperienza di Luigi Pirandello e la sua opera ne costituisce la traduzione in un’emozione pensante o, se si preferisce, in un pensiero senziente.

Il 1924 è un anno determinante nella vita di Pirandello, non solo sul piano familiare, un vero discrimine, un punto di non ritorno: la rivoluzione del suo teatro, con il successo mondiale del 1923, rivoluziona la sua vita. Nel 1924, tornato dagli Stati Uniti, Pirandello incontra Mussolini e, dopo aver aderito al fascismo in pieno caso Matteotti, ne riceve i mezzi necessari per il Teatro d’Arte (mentre già delinea un suo progetto di Teatro di Stato, in un referendum svolto in giugno da «L’Idea Nazionale»). Pirandello diventa capocomico.

Pirandello, che già non è più marito, smetterà presto di essere vedovo inconsolabile dopo l’apparizione, nel febbraio dell’anno successivo, di Marta Abba, la sua nuova Musa e amante ideale. Pirandello, che non è più figlio (suo padre Stefano muore nel giugno 1924), diverrà sempre meno padre. Il conflitto tra padre e figlio restava identico nella sostanza, pur apparendo opposto, dopo la stesura e la pubblicazione de La casa a due piani. Luigi, allora, tornava alla vita, deponendo la sua proverbiale affermazione dell’alternativa irriducibile tra vita e scrittura alla quale l’avrebbe richiamato, invece, per certi versi, proprio Stefano.

Sciascia, figlio putativo, dedicò allora a Fausto uno dei suoi Cruciverba, Padri e figli, e su Stefano ritornò in una significativa voce di Alfabeto pirandelliano.

Il tema della paternità ideale, dei padri che si scelgono (che è un tema proprio dell’opera di Stefano Pirandello) ha una lunga storia in Sciascia. Ricordiamone un momento cruciale: Candido (dal titolo voltairiano ma anche pirandelliano, in riferimento al Pirandello o del candore di Bontempelli), che si conclude – con uno scambio di battute tra il protagonista e il suo amico ed ex precettore Antonio – proprio nel nome del rapporto col padre.

Di tutt’altro avviso, pur vivendo la medesima esperienza, il protagonista di Diana e la Tuda, lo scultore Giuncano, riconoscibile alter-ego pirandelliano, nemico del proprio corpo che odia e considera ‘un estraneo’ come il padre da cui gli proviene: “è orribile, sì! Invecchia, e diviene sempre più suo – come più la faccia s’incassa e più si disegnano le rughe. – E me ne cresce l’odio’.

Composta tra la fine del 1925 e il 1926, Diana e la Tuda, con questa battuta di Giuncano, testimonierebbe un insuperabile antagonismo tra un Luigi Pirandello allora ormai già nonno e il padre Stefano, anche dopo la morte di questi. Anche per il figlio Stefano quell’antagonismo sembra essere stato irriducibile, senza ripensamenti, nella scia del risentimento che abbiamo visto emergere dopo la morte di Luigi, un padre da cui Stefano, ancora molti anni dopo e forse fino alla fine della sua vita, voleva guarirsi.

Una testimonianza biografica in tal senso viene da una lettera a Valentino Bompiani (del 15 gennaio 1942) che Stefano firma Landi, a ribadire, anche in una comunicazione che non richiederebbe pseudonimi, la propria irrinunciabile disidentità familiare.

Lo sfogo di Stefano trova una giustificazione contingente nella circostanza del tentativo fatto da Bompiani di acquisire i diritti di pubblicazione dell’opera pirandelliana per il suo tramite. Ma ha una motivazione più profonda che Stefano espone, senza veli, al suo editore ed amico. Vale la pena di citare estesamente:

“Io a mio Padre ho dato esattamente quarantadue anni della vita mia. […] Comincio ad aver diritto che le relazioni che mi sono scelto in mio nome restino nei limiti dei miei interessi personali, così a lungo e troppo da me negletti per fare quelli di mio Padre. Io – e talvolta gli altri mi fanno pensare che sono stato uno sciocco – ho voluto servire mio Padre, finché ebbe un alito di vita. E mai mi sono servito di Lui. Mai: gli ho dato, rinnovando continuamente la Sua vita, non solo tutto il mio amore e tutto il mio tempo (fuorché proprio qualche scampoletto), ma anche il mio ingegno, ma addirittura la mia collaborazione creativa (pur avendo da creare per me) […]. E da Lui ho sopportato più d’un tradimento: che m’ha costretto, per riparare e ristabilire quelle condizioni di vita comune da me volute, ogni volta a un raddoppio di amorosa servitù da parte mia, ad abbandonare di volta in volta quelle che mi parevano le ultime difese della mia personalità. Quando mi è morto, per un anno, forse per due anni, non capivo più che ci fosse da fare nella vita. Poi ho cominciato a grado a grado a sentirmi nascere io. […] Bene mi sono conquistato il potere e il modo e il diritto di farlo ora tutta cosa mia, mio Padre: come io sono stato cosa sua. Non posso più servire, non posso più essere chiamato a fare il figlio. Sono tentativi, vani e incresciosi di sradicarmi da una conquista sofferta. […] so questo, che sì, vecchio, forse tornerò il figlio: ma quando avrò finito di dare espressione al mondo mio. Lasciatemi ora lavorare Stefano Landi. […] Tanto più che – ormai lo so – Stefano Landi potrebbe anche essere nato da un ignoto: perché ho ritrovato, come ogni altro che sia qualcuno, le mie origini in me stesso”.

Emerge qui, con la più assoluta evidenza, il peso dell’eredità del nome paterno nella definizione dell’identità di un individuo che, pur in età matura, si sente ancora impedito, ostacolato, soffocato da quel peso. E molto più drammaticamente, dato l’avanzare degli anni, rispetto alla scherzosa ironia sul ‘figlio di papà’ del profilo su ‘Comoedia’ da cui siamo partiti.

Ed ancora Stefano:

“Sono miserie, Papà mio, miseriole che ti avviliscono a notarle: quelle che riesco a ricordarmi, che sono tante ma tante di più tutte quelle di cui è ormai fatta la mia giornata, e tutte le mie giornate l’una dopo l’altra. Infatti, fra queste miseriole io affondo, lentamente, irrimediabilmente, ogni giorno di più. Non servo a niente e a nessuno, ma sono il luogo comodo di tutti”.

 Stefano fu però molto di più di un semplice segretario. Fu l’artefice dei molteplici progetti di riduzione cinematografica dell’opera di Pirandello, dall’adattamento e sceneggiatura del film La rosa nel 1921 ai vari soggetti cinematografici tratti nel 1936 dalla novella Ignare, e l’autore di soggetti autonomi come Giuoca, Pietro!

È la vergogna, la ferita narcisistica all’amor proprio, che fa nascondere a Stefano anche i suoi contributi sul piano creativo, come possiamo capire da quanto ora, in proposito, scrive Andrea, (il figlio) tanto più per l’insoddisfazione per quello che aveva fatto o non aveva fatto in quegli anni e che, perciò, gli faceva ritenere di aver sacrificato al padre la propria inventiva.

Interessante un periodo scritto da Andrea Pirandello che parla del rapporto tra Luigi e Stefano (padre e figlio):

“Finché Luigi Pirandello resterà in vita, farà indossare la livrea di alter ego minore al figlio Stefano. E questi, con devozione filiale, la indosserà riuscendogli poi quasi impossibile togliersela per sempre. E ci saranno momenti nei quali Stefano si sentirà assai a disagio”.

Un’inequivocabile allegoria, se letta sullo sfondo di quanto sin qui detto, del proprio ruolo di figlio servizievole riassunto in quello Stefano della bontà che fra gli apocrifi pirandelliani è uno dei più noti e che, pur nella nascosta ironia e autoironia, rivela aspetti essenziali del rapporto padre-figlio.  n primo luogo quello dell’amore come dono, capacità di dedizione totale esplicantesi in «qualche sovrumana pazzia di bontà». Se la pazzia del padre era l’arte, che è «una santità sciupata: dovuta sciupare»; la pazzia del figlio, e della sua opera, era proprio quella bontà.

Al punto, direi, che Stefano temette, vergognandosene, che la sua bontà fosse stata un’arte sciupata, dovuta sciupare. In parte, forse, a ragione, ma sottovalutando anche, a torto, i risultati più felici della sua opera raggiunti proprio quando quella «bontà», quella «santità» testimoniavano: nel tema ricorrente dell’oblatività pienamente espresso in ‘Un gradino più giù’.

Altra annotazione importante che occorre evidenziare è il mettere in risalto alcune frasi scritte dall’amico Savinio che già aveva già scritto di Pirandello padre e figlio, recensendo, il 10 dicembre 1938, un’altra commedia di Stefano, Il falco d’argento:

“Luigi Pirandello noi lo difenderemo sempre e dappertutto. Non perché Pirandello ci piaccia […] ma perché […] egli aveva ciò che agli altri generalmente manca, volontà di grandezza, curiosità di ricerca, fiducia nella pazzia. […] Ma Pirandello non è morto: egli si continua nel figlio Stefano, come un fiume si continua in un altro fiume. Mai come in questo esempio il mistero della paternità si rivela nella sua forma più profonda e confortante, e quell’incubo, quell’ostacolo, quella “vergogna” che i grandi uomini sono generalmente per i propri figli, qui si risolve nella conseguenza più naturale, più ovvia.

L’ulteriore notazione saviniana sul ‘continuo, l’invisibile terremoto della pazzia” [che] scuote questi personaggi verso le ‘nere vette della tragedia’, può essere estesa ai personaggi della (più pirandelliana) tragedia ridicola, umoristica, di ‘Un padre ci vuole’.

Abbiamo già ricordato il tema che costituisce la situazione della commedia: un figlio che fa da padre al proprio padre. Indicheremo uno solo dei possibili riscontri nell’opera di Luigi: ‘I piedi sull’erba’, una novella del 1934, sulla vita di un padre, divenuto vedovo, nella casa del figlio sposato.

“Per suo figlio, tutt’a un tratto, è diventato come un bambino. Ma dopo tutto si sa che avviene quasi sempre così, i padri che diventano i figli dei proprii figli cresciuti”.

Nella commedia di Stefano il figlio si chiama Oreste. Egli svolge la propria funzione genitoriale in maniera amorevolmente materna, dopo la morte di sua madre e la distruzione di mezza famiglia nel tragico incidente stradale provocato da suo padre Ferruccio. Oreste difende il padre da coloro (tutti, in paese e in tribunale) che lo incolpano della sciagura stradale; lo salva dall’annientamento del lutto e della depressione e dal, conseguente, tentativo di suicidio; provvede a tutte le incombenze necessarie, inclusa la gestione dell’azienda paterna, coinvolta in un sempre più pesante indebitamento.

Per risparmiare al padre ulteriori preoccupazioni, gli nasconde persino l’imminente fallimento, che spera di scongiurare con l’aiuto dell’unico fratello rimasto, allontanatosi per insuperabili dissapori, o, altrimenti, sacrificandosi e sposando la figlia «scema» del socio d’affari del padre. La commedia costituisce, in definitiva, un condensato di circostanze della vita di Stefano e di Luigi (che ripercorreremo solo di sfuggita e indirettamente), [46] trasposte ma riconoscibili, tanto più dopo la recente pubblicazione delle lettere tra Stefano e il padre.

Si può fare un sintetico approccio partendo dallo spettro del matrimonio combinato e di convenienza di Luigi con Antonietta Portolano che è circostanza biografica risaputa. Meno risaputa, invece, la circostanza del consapevole sacrificio del figlio sull’altare del Padre, dopo le sue inutili resistenze, che emerge dalla lettera di Luigi al fratello Innocenzo pubblicata per la prima volta in Pirandello & lo zolfo, Catalogo della mostra tenuta ad Agrigento nel 1997, Palermo, Regione Siciliana, Biblioteca-Museo “Luigi Pirandello” di Agrigento, 2000.

La storia può iniziare da una presunta scappatella del padre-figlio che si genera, in concomitanza con il precipitare della situazione economica, il drammatico conflitto al centro dell’opera teatrale, in un clima emotivo che richiama quello della famiglia Pirandello a metà degli anni venti, dopo la comparsa di Marta Abba e nel pieno di conflitti e vicende d’interesse che videro contrapposti Lietta e suo marito Manuel a Stefano e Fausto e che sfociarono in traumatiche rotture familiari.

La natura drammatica, a tratti tragica, nell’irresolubilità del conflitto, è peraltro, in parte, dissimulata: il paradossale rovesciamento dei ruoli di padre e figlio tocca punte di farsesca comicità che regredisce a un umorismo di conio specificamente pirandelliano, quando talora emerge il patetismo che si affianca al comico e all’ironia.

Per un più puntuale riscontro biografico occorrerebbe, peraltro, conoscere il primo anello, mancante, nella catena evolutiva dell’ideazione e della stesura dell’opera: Il minimo per vivere.

Ma non è questo il punto che qui c’interessa. Ci preme, piuttosto, evidenziare il fondo autobiografico di quella celeberrima «tragedia», controversa, e per certi versi esemplare, anche sul piano della storia della critica pirandelliana. Vicenda che, scrive Alessandro d’Amico, «sembra nascere traumaticamente» nei giorni della tournée in Germania già ricordata e nei dieci mesi successivi di elaborazione.

Mesi di grosse tensioni familiari, in parte testimoniate dalle lettere e sfociate nella revoca della procura a Manuel, nella rottura tra fratelli e tra il padre e la cacciata della «coppia delinquente» e il testamento olografo in favore di Marta Abba, ‘figlia’ acquisita. Ma solo in parte perché non poche sono le omissioni nelle lettere pubblicate di quei mesi. Alcune recuperabili (quelle dovute alla volontà degli eredi), altre no.

Ad esempio, lo sfogo di una lettera di 12 facciate cui Stefano accenna nella sua lettera, anch’essa importante, del 10 giugno 1926, in cui ribadisce la sua filiale e amorosa ‘devozione assoluta’, il suo amore ‘più libero e schiavo del comune affetto dei figli’; e prosegue:

“Perché devi avere, Papà mio, questo senso atroce della tua vita e di noi che ne siamo le creature?”.

Anche quella “figlia” d’arte ardeva, nell’ardente vita di Luigi Pirandello, come la ‘pazza’ Tuda dice nella scena conclusiva della tragedia pirandelliana, rivolta prima a Sirio Dossi:

“Prendimi, prendimi, prendi la vita che mi resta”; e poi a Nono Giuncano: “Lei cercava una pasta ardente da colare dentro alle statue? Eccola! Eccola! Io ardo! io ardo!”.

In questo contesto si evidenzia, in maniera determinante, come la continua ed assillante presenza di Marta Abba imposta dal padre per i figli altro non è che una proterva imposizione che loro, ora grandi, non intendono accettare ed allora si vuole ricordare che l’unica lettera nota in cui Stefano fa un qualche riferimento al rapporto tra il padre e la Abba, anche se solo in quanto attrice, è quella del 28 ottobre 1926 in cui egli riferisce i pettegolezzi sui manifesti con il nome della Abba a caratteri cubitali. Successivamente Stefano fa qualche allusione nei giorni in cui Pirandello vive a Berlino con Marta. Solo quando Marta lo lascia, Luigi, il 19 marzo 1929, gli risponde:

Parliamoci chiaro, Stenù. […]

“Vuoi alludere alla mia relazione con la Signorina Marta Abba? Io ti dissi una volta di che natura è questa relazione […]. Hai torto, Stenù. Io sento per la signorina Abba un affetto purissimo e vivissimo, per le cure filiali che ha avuto per me, per il conforto che m’ha dato della sua compagnia in tre anni di vita raminga, per l’amore fervidissimo e l’intelligenza che ha dimostrato sempre d’avere per la mia arte, la difesa che sempre n’ha fatta, le lotte al mio fianco combattute, per la superiorità vera di spirito e l’abnegazione con cui, sfidando il vilipendio, m’è durata accanto, paga soltanto della sua coscienza pura e onesta”.

In quegli anni i rapporti tra padre e figlio conoscono momenti di forte conflitto legati a questioni economiche, a debiti, alla vendita della villa di Via Onofrio Panvinio costruitagli da Nardelli. La situazione familiare, conosciuta da pochi, era vissuta dai protagonisti con grandi tensioni e si può dire che lo spirito del Maestro certo ne soffriva tanto da cominciare a minare il suo cuore. Prima la moglie, poi il Duce e il Fascismo, poi il teatro e le rappresentazioni, la presenza poco gradita dagli altri di Marta Abba, i dissapori con i figli che continuavano a nutrire reciproca antipatia per non parlare della presenza del marito di Lietta mai riconosciuto e sempre avversato. Ecco, il nocciolo dell’ultimo periodo che venne a colpire direttamente il Maestro.

Seguendone la corrispondenza vediamo Luigi sollecitare Stefano a vendere il villino per ripianare i pesanti debiti del teatro d’Arte e rimproverarlo, prima, di essersi stancato presto di assisterlo come segretario (11.11.1926) e poi, più pesantemente, di aver pensato, come Fausto, a farsi solo i propri affari (25.1.1927). Luigi torna più volte sui debiti per i quali ritiene che Stefano non s’impegni a vendere la villa e gli rinfaccia il suo ‘sordo silenzio’ (30.12.1928). Ancora più pesanti le accuse nella lettera del 13 novembre 1927 di cui gli eredi posseggono solo la copia che Marta Abba esibì durante una causa contro di loro, con l’intento di screditare la condotta di Stefano. Potrebbe trattarsi, dunque, di una lettera non spedita (secondo le notizie che devo alla cortese collaborazione di Andrea Pirandello).

Nella lettera su citata, Luigi, dando a Stefano “l’ordine di vendere”, diviene perentorio ma, poi, tenta di ricucire con lui un dialogo, sul piano degli affetti, pur rifiutando la proposta di tornare in Italia per vivere con lui e la nuora:

“Ritornare dove e a far che? […] Ho bisogno di fuggire e di fuggirmi. L’idea di dover star fermo mi spaventa […]; ma vedi, Stenù, io non dubito di te, io dubito di me, di guastare la tua pace, con quest’animo mio”.

I tentativi di Stefano di far tornare il padre in Italia e di riaverlo con sé (da esaminare in un contesto di relazioni non solo personali ma di lavoro e politiche: con il regime, per il progetto del Teatro di Stato, ad esempio) riusciranno dopo che nel 1932, nel periodo di massima depressione, Luigi chiuderà la propria casa di Parigi. Quando, nell’autunno 1933, Stefano si trasferirà in via Bosio, Luigi, di ritorno dalla tournée nell’America del sud, vi si stabilirà anche lui, in un diverso appartamento preso in affitto.

Luigi sperava sempre, in realtà, di prendere casa con Marta Abba ma negli ultimi anni il distacco tra i due aumenta: prima con gli impegni della Abba nella sua compagnia (che pure Luigi segue), poi, soprattutto, e definitivamente, con la partenza di lei, per Londra e poi per gli Stati Uniti. Marta Abba sottoscrive un contratto con un impresario americano nell’aprile 1936, lo stesso mese della pubblicazione, su ‘Scenario’, di Un padre ci vuole che era già andato in scena il 21 gennaio, al Teatro Alfieri di Torino, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi.

Le lettere di Pirandello a Marta Abba ne registrano l’attesa della vigilia, quando Luigi è in partenza da Roma, con Stefano, per assistervi, ma non le reazioni dell’indomani. Registrano invece gli esiti delle successive messinscene milanesi e romane.  A Milano, purtroppo, la commedia di Stefano ha avuto esito sfavorevole, e non s’è nemmeno replicata. Eppure, era una bella commedia: mah! Poi si è replicata al Quirino ottenendo un diverso riconoscimento.

Secondo Stefano, il padre Luigi aveva ‘tradito’ la letteratura, ma non l’arte creatrice; era ancora creatore ma di un’arte che nasceva giorno per giorno sulla scena, che, per il Pirandello capocomico (e diversamente dal letterato) non traduceva più ma realizzava, direttamente, l’idea creatrice. Il Luigi Pirandello capocomico e teatrante, inoltre, si disperdeva a rincorrere grandiosi progetti produttivi, teatrali e, ancor più, cinematografici, che si rivelavano illusori ed effimeri.

Stefano considerava quella rincorsa un’illusione da criticare e richiamava il padre al dovere di comporre il capolavoro letterario conclusivo.

Se la vena paterna talora sembrava inaridirsi, a ravvivarla contribuiva, il destino di farsi del male dei Pirandello: il dolore ardente che esso originava manteneva vivo, in fin dei conti, il fuoco bianco di quell’arte anche quando sembrava consumarsi in (apparentemente) gelide palestre ginniche di filosofemi tilgheriani, come con Diana e la Tuda.

Una forma mascherata di vendetta erano state anche le critiche di Adriano Tilgher, a partire da Diana e la Tuda. Dopo la stroncatura su «L’Italia che scrive» del marzo 1927, Tilgher tornò, anonimamente, ad attaccare Pirandello in maniera ferocemente sarcastica:

A lui ormai sulla soglia della vecchiezza, piovono di colpo a diluvio, a grandinate, onori, ricchezza, fama. Le belle donne mostrano finalmente di accorgersi di lui, lo guardano, gli sorridono, gli si offrono. E nell’anima attristata di lui scende finalmente un raggio di luce. La vita gli par bella, amabile, degna di esser vissuta. Egli vorrebbe cantare la gioia, l’amore, la vita. E no, non lo può. Egli è onorato, celebrato e pagato perché faccia il pessimista, l’uccello di malaugurio, e canti l’orrore e la malinconia di vivere. […] Sazio deve cantare lo strazio del digiuno. Naturalmente lo canta contro genio e lo canta male. […] Ed egli si vede minacciato di tornare a digiunare perché, sazio, non sa più cantare lo strazio del digiuno.

Tilgher scriveva, tra l’altro, di ‘un concitato e ansante dialogo tra personaggi allegorici in giacchetta’, teso a inscenare la filosofia della Vita e della Forma, concludendone che «acquistare coscienza troppo precisa della filosofia implicita nella propria arte,’ non è eccessivamente igienico per un artista’.

Depurata dalle punte più sarcastiche e acrimoniose, la diagnosi tilgheriana non era poi molto lontana dal vero e coincideva, in larga parte, con le preoccupazioni di Stefano: erede non solo e non tanto di una ricca ‘ditta’ familiare, ma, sul piano dell’arte, della concezione dei tanti paterni personaggi ‘dimissionari’ e appartati dal mondo: in una chiesa sconsacrata, divenuta biblioteca deserta di lettori, in un ospizio o in una villa di Scalognati.

A quell’isolamento del letterato, non più possibile all’uomo di teatro, voleva ricondurlo il figlio Stefano? Così, certamente, pareva a Luigi, mentre Stefano cercava, più probabilmente, solo di togliergli dalla testa tutte quelle imprese in cui si era imbarcato, per sé e per Marta Abba, soprattutto da quando era andato all’estero: il sogno del cinema, innanzi tutto. Si pensi alla lettera del 24 febbraio 1932, in cui Stefano, in risposta a un grido di angosciata richiesta di aiuto del padre (a Parigi, in depressione e sull’orlo del suicidio), lo invita a ritornare in patria per dedicarsi a un grande libro conclusivo, al progettato romanzo di Adamo ed Eva:

“Tu hai bisogno della tua Patria (come la tua Patria ha bisogno di te), hai bisogno dei tuoi figli, come essi di te, e dei tuoi nipoti, come essi di te: e soprattutto della tua arte: l’arte tua di prima, quella a cui davi tutto disinteressatamente, quella che non rende (e che poi t’ha reso milioni), il lavoro fatto solo per la soddisfazione di farlo […]! Pensa a te solo. Pensa cioè a darti tutto. Dà un calcio a tutte le vanità […]. O tu coroni la tua vita con la vittoria più grande, e lasci il grande libro, che stia contro il don Chisciotte, contro Guerra e Pace, o tutta Italia, più o meno coscientemente, te ne vorrà […] Tu capisci bene che io non ti chiedo di diventare sedentario materialmente.

 Quel romanzo Pirandello non l’avrebbe lasciato, pur ritornando in Italia e con il figlio. Ma avrebbe ugualmente vissuto, in quegli ultimi anni, una nuova e felice stagione creativa. D’altronde a Marta Abba, poco più di un anno prima, aveva scritto:

“Ogni volta che sono arrivato a toccare proprio il fondo dell’abisso, una fortuna improvvisa m’ha sempre rialzato e ritirato a galla, e il mio petto oppresso s’è rigonfiato di vita, e la benedizione dell’estro mi ha illuminato la fronte. Il mio spirito è ancora tanto ricco, e così pronta l’ideazione: mi mancano le forze perché il cuore è bujo e chiuso, dacché nessuna parola Tua più vi spira un po’ di luce e lo riapre”.

Fosse a causa di questo senso di prigionia, fosse a causa di altro che non sappiamo, la riannodata vicinanza di Luigi e di Stefano, nella casa di via Bosio, si sarebbe dovuta interrompere sul finire del 1936. In una delle ultime lettere alla Abba, del 25 ottobre 1936, dopo averle parlato, tra l’altro, del terzo atto dei Giganti da finire e del ritorno della figlia Lietta, le scrive:

“Io ho disdetto l’appartamento per la fine di quest’anno, e conto d’andarmi in un albergo per non stare con nessuno dei miei tre figli. Ma questa non può essere una sistemazione per me. Lo capisco, ma non ne vedo altre. Rimettermi alla mia età con una valigia in mano, è ben duro. Ma che fare? Potessi almeno lavorare!”,

Pirandello non arrivò alla fine dell’anno e morì, si può dire, con quella valigia nuovamente in mano, in un gesto di rinnovato distacco dal figlio.

Sarà anche per questo che Stefano visse la scomparsa improvvisa del padre in maniera ancora più traumatica, perché emotivamente più ambivalente, come da lui stesso testimoniato (nella lettera del 15 gennaio 1942 a Bompiani nella quale scriveva, come abbiamo già visto: «non capivo più che ci fosse da fare nella vita. Poi ho cominciato a grado a grado a sentirmi nascere io»).

Una testimonianza in proposito ci viene anche da Paola Masino che conobbe Pirandello – già prima della sua relazione con Bontempelli – e che nell’anniversario della morte lo sognò. Non si trattava di un sogno, scrive la Masino nel racconto che ne fa, ma di un’apparizione che Pirandello le raccomandò di non raccontare a nessuno, dicendole tra l’altro:

“Muore chi vuole morire, ma io non volevo, non ho mai voluto morire. Ho ancora tante cose da dire, e voglio dirle io, con il mio nome e cognome. Non credo alle storie delle eredità spirituali. […] Quelli che sfruttano qualche scintilla sfuggita alla mia fucina, cosa vuoi che facciano? Sono epigoni, gente che non ha midollo spinale, non son vivi per sé stessi, vivono una vita d’accatto, posticcia, portano abiti smessi da altri”. (Paola Masino, Io, Massimo e gli altri, Milano, Rusconi, 1995, p. 62.)

 Nel gioco di specchi di quegli sguardi era difficile distinguere chi più avesse bisogno di aiuto e anche qui, dunque, il problema dell’identità nel rapporto padre-figlio si manifesta con una certa, sia pur lieve e nascosta ironia – come in ‘Un padre ci vuole’ – e con una paradossalità qui indistinguibile, se non al momento di scoprire che lo scritto è apocrifo, di mano di Stefano.

“Stringiti al figlio, stringiti al padre, / padre e figlio resti. / E il mondo è un giro / che ripassa, dentro”,

aveva scritto Stefano in una delle sue poesie più belle, intense ed ispirate.

Un gioco d’identità, dentro un altro gioco d’identità, quello degli apocrifi.

Gioco speculare a quello del ‘Quando si è qualcuno’, dell’anziano e celeberrimo scrittore, trasparente alter ego pirandelliano, che rivivificava la propria opera nascondendo la propria identità dietro quella di un presunto giovane poeta.

Pietro Seddio

INDICE

La famiglia di Luigi Pirandello: Nota introduttiva
Capitolo 1: Caterina Ricci Gramitto
Capitolo 2: Stefano Pirandello
Capitolo 3: Maria Stella
Capitolo 4: Calogero Portolano
Capitolo 5: Antonietta Portulano
Capitolo 6: Rosolina Pirandello
Capitolo 7: Stefano Pirandello
Capitolo 8: Fausto Pirandello
Capitolo 9: Lietta Pirandello
Capitolo 10: Il problema dell’eredità con i figli

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