Di Pietro Seddio.
“Così io caddi quella notte di giugno, che tant’altre lucciole gialle baluginavano su un colle dov’era una città, la quale in quell’anno pativa una grande moria, mia madre mi metteva al mondo prima del tempo previsto, in quella campagna solitaria dove s’era rifugiata.”

La famiglia di Luigi Pirandello
Col consenso dell’autore
Capitolo 1
Caterina Ricci Gramitto (1835-1915)
Tutte le volte che un uomo e una donna decidono di costituire una famiglia, quindi di vivere insieme, si crea, inevitabilmente, quella che viene chiamata la formazione delle famiglie allargate sapendo che oltre ai due promessi sposi, si inizia a parlare, fin da subito, delle famiglie materne così come delle famiglie paterne ed anche nel nostro caso, riferendoci a Luigi Pirandello e a Antonietta Portulano, si deve iniziare a parlare di famiglia materna riferendoci a Luigi Pirandello come a quella paterna parlando di Antonietta Portulano.
Ma prima è giusto parlare della famiglia materna e poi paterna di Caterina, madre di Luigi, Stefano padre dello scrittore.

Il nonno, materno, di Luigi Pirandello si chiamava Giovanni Ricci Gramitto, avvocato assai conosciuto e assertore dell’unità d’Italia.
Per questo nel ’48 prese parte al governo provvisorio. E quando fu restaurato il governo borbonico gli toccò scontar la prodezza pagando di persona tanto che neppure l’amnistia politica gli valse per essendo stata concessa nel regno di Napoli e Sicilia in quanto furono esclusi dalla grazia sovrana circa 43 soli cittadini in tutto il reame, considerato imperdonabili o troppo temuti, e tra costoro, non perdonati, fu inserito proprio l’avvocato Gramitto.
Fu scacciato dalla Sicilia, fu estromesse da tutti bene e con l’intera famiglia (moglie e sette figli: quattro maschi e tre femmine) si trovò ad affrontare un problema quasi insormontabile. Pur avendo un fratello prete, ma di fede borbonica, non poté contare su nessun aiuto per cui decise, costretto, di riparare a Malta che certo è assai diversa da quella che appare oggi agli occhi dei numerosi visitatori.
L’isola era assai arida, spoglia, con polverose vie e abitazioni spesso fatiscenti. Era facile comunque poter vedere una natura e fauna rigogliosa ma questa situazione non poteva certo risolvere i gravi problemi della famiglia Gramitto. Ma come a volte accade, quando tutto sembra perduto, l’avvocato conobbe proprio a Malta un sacerdote che proveniva da Agrigento e che ebbe il cuore e la forza di sostenere l’intera famiglia Gramitto per circa quattro anni. Già è facile poter considerare la differenza abissale tra due preti: il fratello dell’avvocato e il parroco di Agrigento che si trovava anche a lui a Malta per motivi poco noti. Il destino che sembrava essere diventato benevolo, di colpo si rivoltò contro quella famiglia di sventurati, e a pagare il peso più enorme fu proprio l’avvocato che si spense lasciando la famiglia in una situazione non invidiabile.
Ma fu trovato il testamento, poi fu identificata anche la tomba così come nella biblioteca furono ritrovati giornali del tempo. Ma fu evidente che l’avvocato cercò di trasmettere la passione per l’unità d’Italia e si può dire che proprio i figli maschi lottarono per esaudire il desiderio del padre che aveva pagato un pesante tributo. La famiglia a quel punto ritornò in patria e questa volta lo zio canonico aprì le porte della sua casa accogliendo non solo la vedova, ma provvedendo a fare studiare tutti i ragazzi. Alla fine degli studi Francesco, il maggiore e Rocco si laurearono in legge. Vincenzo divenne sacerdote, fino a quando, rispettando le volontà dl padre non abbandonò l’abito talare arruolandosi con Garibaldi insediandosi con i Mille a Marsala. Una delle figlie, Caterina (futura madre di Luigi, lo scrittore) di notte aveva badato a cucire la bandiera che fu portata in giro dal figlio più piccolo unitamente a Raimondo Lupo e altri sei giovani che non ebbero paura di scendere in piazza dove si trovavano migliaia di soldati di guarnigione pronti a far fuoco contro i rivoltosi.
Attaccati dai militari i giovani furono costretti a fuggire perdendosi per le campagne fino a quando riuscirono a raggiungere Garibaldi che si trovava a Palermo. Innocenzo, l’ultimo, divenne garibaldino fino a quando non si arruolò nell’esercito regolare italiano. Rocco, intanto, era stato condannato a morte tanto che lo zio prete subì una perquisizione domiciliare e durante quei momenti, presente la giovane Caterina, fu avvicinata da un gendarme che cercò di tranquillizzare la ragazza spaventata a morte.
Grazie a quel prete, che iniziava a diventare vecchio, la famiglia dei Ricci Gramitto, era sopravvissuta e fu, alla fine, testimone della santa morte di quello zio che fu inumato proprio nella Cattedrale di Agrigento dove per anni era stato canonico. Si dice (è stato riportato l’episodio) che dopo molti anni la salma è stata spostata e comunque aperta e con grande stupore quella figura era rimasta intatta nel tempo e non furono pochi a considerare “santo” il canonico. La situazione cominciò a migliorare e proprio Rocco poté fare ritorno a casa portandosi lo stivale forato del generale Garibaldi. Caterina intanto continuò a vivere in quella famiglia: piccolina, bianca di pelle, capelli intrecciati neri, molto rispettosa e assai religiosa tanto che in seguito sarà da guida al figlio Luigi che certo, crescendo, iniziò a dare molti pensieri e preoccupazioni alla dolce madre che comunque lo amò e per lo stesso ebbe un interesse materno particolarissimo. Si dice che la spiritualità di questa piccola donna sia stata capace di costruire, nel figlio, un baluardo non indifferente tanto da presentare al mondo un valido scrittore capace di essere insignito del Premio Nobel.

È necessario, prima di proseguire la disamina soffermare l’attenzione sul rapporto che legò Caterina ed il figlio che certamente segnò e tracciò un percorso nel quale i due si trovarono protagonisti unici e indiscussi e questo lo si rileva leggendo la famosa Novella “Colloqui con i personaggi” dei quali si parlerà più avanti. La famiglia di Luigi fu costretta, a causa del colera che venne a colpire la città di Agrigento, traslocare in località “Cavusu”, (in campagna) dove possedevano una casetta e questa abitazione consentì di non subire le negative conseguenze del morbo che tante vittime aveva prodotto proprio ad Agrigento e in alcune zone limitrofe.
Quando il Nostro venne alla luce, Caterina si era sposata con Stefano Pirandello formando una famiglia delle quale, è inevitabile, ne parleremo in modo articolato e particolare. Ma ora, ci si sofferma su come la madre, in un momento particolare, ebbe la forza di partorirlo e di questo evento proprio Luigi ne ha dato riscontro.
“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un pino solitario in una campagna d’olivi saraceni, sotto l’ardente azzurro dl cielo affacciato sul mare africano… Or bene, io fui, quella notte come una di quelle lucciole, on so come né di dove caduto a piè di quel grande pino solitario… Io, dunque son figlio del Caos e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una campagna che trovasi presso un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Cavusu dagli abitanti di Girgenti”.
Questo evento si realizzò il 28 giugno 1867 quando il piccolo Luigi emise i primi vagiti presentandosi al mondo intero che certo, minimamente avrebbe pensato che quel piccolo, infreddolito, sarebbe diventato il celebrato scrittore, vincitore del Nobel, Luigi Pirandello.
Questo particolare evento sarà ricordato dal protagonista in una serie di scritti, famosissimi, quali ad esempio il romanzo “I vecchi e i giovani”, o le novelle “Scialle nero” e poi “Uno, nessuno e centomila”, non dimenticando il vero primo romanzo scritto durante la malattia della moglie Antonietta: “Il fu Mattia Pascal”.
Quando il colore abbandonò quelle zone, la famiglia Pirandello ritornò ad Agrigento abitando in via San Pietro (ora si chiama: Via Pirandello), e poi a Porto Empedocle, in località Marina. Continuerà gli studi ad Agrigento frequentando anche il Liceo Ginnasio “Empedocle” del capoluogo.
Quel luogo, quella casetta, quella campagna, quel pino solitario, hanno costituito un amalgama indistruttibile, quasi punto di partenza giacché, nel tempo, luogo e tempo sono rimasti indelebili e non mancando alla sua smania di ricordare, ecco cosa ebbe a scrivere:
“Casa romita in mezzo a la natia
campagna, aere qui su l’altipian
d’azzurro argille, a cui sommesso invia
fervor di spume il maro aspro africano,
te sempre vedo, sempre, da lontano,
se penso al punto in cui la vita mia
s’aprì piccola al mondo immenso e vano:
da qui – dico – da qui presi il via.
Da questo sentieruolo fra gli olivi,
di mentastro, di salvie profumato,
m’incamminai pe’l mondo ignoto e franco.
E tanto e tanto o fiorellini schivi
tra l’erma siepe, tanto ho camminato
per ricondurmi a voi deluso e stanco”.
Già da queste ultime parole emerge il pensiero dominante che ha accompagnato per tutta la vita lo scrittore che in più occasioni ha dichiarato di “vivere un involontario soggiorno sulla terra”.
Traspare, in modo evidente, fin da queste primi concetti d’analisi, l’amarezza di un uomo che sente il peso di una catarsi interiore anelando perché possa far ritorno a casa come un uomo qualunque non più ingobbito dalle fatiche e quindi pronto ad assaporare quella pace che da sempre cercava, si, da sempre, fin da quando si era trovato, ancora ragazzino, a seguire i suggerimenti della governante Stella che lo accudiva da mattina e sera e che ha segnato un vivere del quale è rimasto sempre vittima tanto che fu convinto che ogni personaggi portasse dentro un proprio suo dramma, quindi conseguenziale la sua domanda: “e che cos’è il proprio dramma per un personaggio?”.
“Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragione d’essere del personaggio: è la sua funzione vitale: necessaria per esistere”.
Sia già un’idea precisa formatasi nel tempo, dopo aver trascorso, come risaputo, giovinezza complicata, per niente semplice volendo ricordare Maria Stella la governante e voler anche ricordare come avvenne quella nascita.
“Così io caddi quella notte di giugno, che tant’altre lucciole gialle baluginavano su un colle dov’era una città, la quale in quell’anno pativa una grande moria, mia madre mi metteva al mondo prima del tempo previsto, in quella campagna solitaria dove s’era rifugiata. Un mio zio andava con lanternino in mano per quella campagna in cerca d’una contadina che aiutasse mia madre a mettermi al mondo Ma già mia madre s’era aiutata da sé ed io ero nato prima che quel mio zio ritornasse con la contadina. Raccattata dalla campagna, la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città sul colle, lo penso… che sarà cosa certa per altri che dovevo nascere là e non altrove e che non potevo nascere dopo né prima”.
Da questa prima descrizione possiamo già individuare quale percorso dovrà effettuare questo piccolo nato nella sperduta campagna agrigentina mentre nella città imperversava il colera. Un destino veniva a delinearsi e fin dai primi vagiti molto probabilmente la madre e Maria Stella, soprattutto, iniziarono a capire cosa potesse diventare quel piccolo ammasso di carne coperto alla men peggio stante la non florida situazione finanziaria.
Per comprendere quindi, il mondo dello scrittore, dove oltre ai personaggi da lui ideati e resi quasi umani, ci sono stati i veri personaggi ossia i suoi stretti familiari che hanno avuto un peso determinante nella formazione etica, sociale, politica, religiosa dello stesso.
Questa riflessione non deve però farci perdere l’orientamento dal quale si deve sempre partire e proprio acutamente, la professoressa Maria Alaimo, studiosa dello scrittore, ha così stigmatizzato la formazione dello scrittore:
“Così Pirandello, il quale dalla casa natale di pietra e di terra, era balzato, come da un grembo viso, nel mondo, fino alle più lontane ribalte della gloria, ha voluto con l’ultimo ritorno alla morte, ricongiungersi, riaffiggersi alle radici della vita primogenia. Ha sentito, così, di apporre, alla propria vicenda esistenziale sulla terra, un suggello unitario di morte e di vita. Anche se, essendo il suo spirito, pur nell’austero travaglio cui soggiacque, chiuso al riconoscimento di una superiore realtà che trascenda ogni realtà terrestre, labile e transuente, tale suggello debba intendersi entro il raggio di una luce tutta e solamente umana”. [1]
[1] Maria Alaimo, La Casa dell’Uomo, Cit. in Pirandello, Lions Club Agrigento.
È anche stato evidenziato che l’Autore, per sempre, portò dentro al cuore la sua Sicilia della quale descrisse pregi (pochi) e difetti (molti), ma sempre con quella obiettività che lo rese celebre ed unico nel suo genere.
Se si vuole avere la precisa percezione della sua capacità interiore basta leggere le sue novelle oltre che assistere alle rappresentazioni delle sue opere teatrali.
La famiglia, per come la concepì, fu l’epicentro universale nel quale cercò di vivere riuscendo a carpire ogni frammento di vita, anelito riuscendo a dare ad ogni personaggio, da lui creato, un afflato di vita eterna quella stessa che aveva registrato nei suoi genitori, nei suoi parenti più intimi, nella moglie ed anche nei figli con i quali visse un rapporto anche conflittuale come si avrà modo, più aventi, di evidenziare.
Quindi, in definitiva, la Sicilia, terra a volte inospitale ma dove sono germogliate antiche e prolifiche testimonianze pervenute grazie alla presenza di molteplici etnie che hanno lasciato un patrimonio storico quasi unico e indistruttibile.
E quindi, acutamente, sottolineando questo aspetto, il critico Gaspare Giudice, nel suo testo: “Pirandello”, ha così scritto:
“La Sicilia dell’infanzia di Pirandello era anche la Sicilia dell’omertà e della complementare allusività semantica. Solo superficialmente Pirandello sembra fuori da queste siciliane abitudini che, infatti, non si affacciano esplicitamente quasi mai nelle pagine. Di fatto, invece, in una profonda latebra, avviene la trasposizione: quel senso di reticenza, di segretezza, di allusività, di esplosività che è l’aspetto che si esteriorizza di quell’animo, diviene il segreto stesso, la frequenza fedele dello stile di Pirandello prosatore e soprattutto drammaturgo: allusivo, spezzato, ammiccante, tortuoso e improvvisamente esplosivo”. [2]
[2] Gaspare Giudice, Pirandello, Ed. Utet
Già da queste frasi si può avere una precisa idea della formazione che il giovane scrittore acquisì nel periodo in cui iniziò a vivere al Caos, poi ad Agrigento, poi a Palermo, ed ancora a Roma per finire gli studi universitari a Bonn dove riuscì ad ottenere la laurea per poi fare ritorno in Sicilia.
Ma quella era la prima parte della sua vita ancora tutta da scrivere.
Ovvio che l’amore per questa Girgenti fu sempre presente e come già detto, in più occasioni ne parlò ora con affetto ora con disprezzo affermando che quella era una città abitata da “serpi”.
Si può dire tranquillamente che molti non lo perdonarono tanto che anche dopo morto hanno sempre parlato di questo grande figlio della Sicilia con distacco e a volte con sufficienza.
E poi, tanto per dirla subito, l’evento che lo vide protagonista allorquando si dichiarò fascista tanto da iscriversi al relativo partito diventando amico e ammiratore del Duce. Questo “peccato” lo perseguitò ed ancora oggi se ne parla perché non si pensava che quell’uomo che tanto aveva scritto, potesse scivolare così in basso, e soprattutto dopo qualche giorno l’atroce morte di Giacomo Matteotti.
Il mondo che coinvolse il suo intelletto ebbe la “presunzione” si poter giudicare eventi, personaggi, situazioni, con una precisione inattaccabile e fu per questo che dalla sua penna furono scritte pagine importantissime, spesso contrastanti tanto che dovette combattere quotidianamente con una serie di persone non esclusi i propri familiari sempre attenti a seguirlo, certamente, ma qualora se ne presentava il caso, a contestarlo, e su questo argomento, il rapporto tra il padre Stefano e lo scrittore si è sempre arricchito di storie che per lunghi anni hanno coinvolto i due fino a quando il vecchio genitore, ormai quasi cieco, fu accolto nella casa del figlio scrittore fino a quando non esalò l’ultimo respiro.
La sostanziale differenza tra Caterina Ricci Gramitto e Stefano Pirandello ha sempre costituito materia di profonda analisi e non sempre si è avuto la certezza che quegli eventi rispondessero a verità, soprattutto se si analizzava (e la si analizza ancora oggi) la personalità di Stefano Pirandello. Come vedremo più avanti le due personalità spesso si sono scontrate e seppur il carattere di Luigi non si poteva confrontare con quello del padre, riottoso, burbero, caporione, si può affermare che qualche gene paterno era presente nello scrittore il quale, molto probabilmente assorbì i molteplici geni della madre nei confronti della quale ebbe un amore viscerale.
I figli, si è sempre detto, sono eredi dei padri. Portano nel cuore i naufragi e le gioie. Portano negli occhi le allegorie e le affabulazioni di infanzie vissute raccontate e diventate ricordo. I figli e i padri. Ivan Sergeevič Turgenev ha raccontato con le pieghe della sofferenza questo cammino nel suo romanzo del 1862: “Vuoi essere felice? Impara prima a soffrire”. Una letteratura che riscopre il sottosuolo, la miseria e la nobiltà. Restiamo sempre eredi senza però lasciarci complicare la vita da Freud. Perché abbiamo bisogno dell’attraversamento del dolore e di vivere la sopportazione. Bisogna sopportare e lasciarsi macerare dalle macerie. Non bisogna mai “elaborare”.
Possiamo iniziare a sostenere alcune certezze facendo riferimento a tutti i familiari di Pirandello così già da delineare i supporti caratteriali che li hanno, da sempre, contraddistinti. Convivere con le essenze, le mancanze, la morte e il suicidio, sempre. Emergono chiaramente questi aspetti rileggendo non solo la vita di Luigi, ma di tutti quei familiari che, nella storia della sociologia siciliana, occupano un posto ben definito e distinto. Come tante altre importanti famiglie siciliane.
Occorre saper convivere con la morte pur sapendo che la vita è una insistenza costante nel teatro del quotidiano. Per uno scrittore il suicidio consiste anche nell’aver rotto una pietra di roccia in mezzo a un deserto. Siamo indifesi ma siamo anche nella fragilità dello specchio del doppio e della maschera.
Pirandello è un gioco infernale che cerca di innescare un intreccio tra il padre è i figli. Trasferisce se stesso e ciò che ha ereditato dal padre e dalla madre ai propri tre figli: Stefano, Fausto, Lietta.
Cominciamo a dire che i tre figli di Luigi di Pirandello non smettono mai di rappresentarsi sullo scenario tragico della vita della famiglia. A partire dalla moglie di Pirandello la rappresentazione diventa il tragico e l’ironico di vite spezzate. Antonietta e l’inquieto che si trasforma in follia e Luigi cerca di renderla maschera di sé stesso con una recita tra personaggio e assurdo del personaggio stesso. Lietta è lo specchio infranto nella metafisica wildiana che porta dentro le stanze dell’anima il senso del suicidio. Tenta il suicidio per un grave contrasto con la madre. Pirandello scrivendo alla sorella nel 1916 sottolinea:
“La sciagurata donna che m’e’ moglie, dopo aver martoriato dacché e’ tornata dalla Sicilia la mia povera Lietta, ora, in preda a una delle sue più terribili crisi – così Pirandello da Roma alla sorella Lina che abitava a Firenze – s’e’ voltata con inaudita ferocia contro di lei. E la mia povera bambina, presa d’orrore, in un momento di sconforto, s’e’ chiusa in camera e ha tentato d’uccidersi. Per fortuna il colpo non e’ partito dalla rivoltella perché la capsula non è esplosa”.
Fausto e Stefano sono la rabbia e la malinconia. La scrittura e la pittura. L’arte pura. Ma l’arte può superarla quella morte che si porta dentro? Lo stesso Luigi supera l’attrazione verso il suicidio ma si porta dentro un destino di morte perpetuo. La corazza della pietra di roccia diventa devozione del vento nel mito. Tutto è come se nascesse dal mito. Il mito diventa rivelazione. Lo dice bene il figlio Fausto, nato a Roma il 17 giugno del 1899 e morto a Roma il 30 novembre del 1975, in un libro di annotazioni dal titolo “Piccole impertinenze”.
Impertinenze che sono la conoscenza di una trasparenza del dolore. Una autobiografia nel quale il padre è voce che incide: “Forse ha creduto di vivere la sua vita poiché non sa di che muoia. Muore come si campa”.
Stefano, nato a Roma il 14 giugno del 1895 e morto a Roma il 5 febbraio del 1972, drammaturgo, narratore e poeta che vive, nella vita e nei suoi scritti, un costante senso di morte:
“Morire non si può. / E nascere neppure. In verità, / come da sempre nati, / come per sempre vivi, siamo qua”.
Importante resta il Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la Grande Guerra: “Il figlio prigioniero”.
La moglie Antonietta Portulano non è la Penelope del suo sogno omerico. Già qui si rompe un incanto. Pirandello ha bisogno non più della poesia e della narrativa ma della rappresentazione perché ha bisogno del colloquio e della scena per liberare il labirinto della propria coscienza. L’incontro con Marta Abba sembra risvegliare Luigi perché si illude di aver trovato la sua Arianna. Ma non sarà così.
Marta Abba sarà il suo inferno. La riappacificazione con i figli, ma soprattutto con Lietta, perché con Stefano e Fausto i rapporti sono Colloqui di esistenza, è una affabulazione di devozione della chiusura del cerchio lunare.
La luna è il mistero ma anche la fine stessa del mistero. Il suo scrivere è inventare ma è soprattutto uno scendere in un sottosuolo per chiedere alle anime della morte il senso della vita.
La “lunazione” panica di un padre che raccoglie i figli intorno alla inquietudine delle distrazioni e del mito. Proprio Fausto pone all’attenzione tre elementi nel suo scritto: i protagonisti, gli inventori, le comparse.
In Fausto si legge:
“Ciascuno di noi non sa troppo bene che cosa abbia dentro e alla fine come si rendano intellegibili i nostri ‘umori’, perché insomma ciascuno di noi riveli un certo suo ‘stile’, il proprio modo di essere di ciascuno di noi che si è formato chissà perché e come quella sua certa ‘idea’ della realtà, e perché si trovi ad essa in una certa realtà di supposizioni. // E per rivelare quel che non può sapere di sé stesso si dà a rivelare quel che crede di conoscere credendo che sia di tutti il medesimo. Lo stile sarà allora quel che non volutamente egli specifica di sé stesso pensando di specificare a tutti quello per cui discorrere”.
Credo che sia una delle osservazioni più attinenti sull’opera di Pirandello chiosata addirittura dal figlio Fausto. Una visione articolata tra il conoscere e il credere di conoscere. Un turbare di pensiero. La vita stringente e inquietante. Nella lettera di Luigi alla sorella Lina si legge:
“Mi trovo in uno dei più tristi frangenti della mia vita” (15 aprile del 1916).
Questi tristi frangenti, comunque, hanno caratterizzato non solo il viaggio esistenziale della vita di Luigi e della famiglia Pirandello, ma le sue inquietudini sono entrate nel suo sottosuolo letterario e filosofico “condizionando” il percorso della sua scrittura. Si è testimoniato costantemente scavando nei “colori” della memoria” (Fausto) avendo come riferimento la teatralità di un vissuto che è penetrazione in quel Dostoevskij che è “sottosuolo” e bellezza in un concetto che è pirandelliano: “Io sono solo, e loro invece sono tutti”.
E ancora: “Ma l’uomo dove va? Quanto meno, ogni volta si nota in lui un che d’impacciato nel momento in cui raggiunge cosiffatti fini. Il fatto di raggiungerli gli piace, ma averli raggiunti non proprio, e questo, certo, è straordinariamente ridicolo”.
Il ridicolo è oltre la stessa ironia in Pirandello perché è il tragico, appunto, del sottosuolo della memoria, nel quale i personaggi sono, l’assurdo e destino. La vita è sempre un lento suicidio del tempo e la morte del tempo quotidiano è far morire la vita, ma è la morte che si consuma. Siamo sempre dei suicidi. Nessuno potrà fermarci nell’uccidere i giorni.
Lo scrittore riesce a trasformare la dimensione dell’onirico in una visione dell’angoscia. La sua biografia è nella sua scrittura! La biografia come inquietante morire! In sostanza questa è proprio l’essenza della sua tematica e cosciente di questa realtà non condivisa, avrà modo di ripetere più volte che lui sta vivendo una vita del tutto involontaria tanto da pensare di soggiornare (spera per poco) su questa terra.
Ma di fronte a tanta solitudine, inquietudine, delusione, dolore, ecc., esiste per lui (e meno male che c’è) l’amore della madre che rimane un faro sempre acceso e allorquando la stessa lascia questa terra, nella mente del figlio rimane presente tanto che la rivedrà nell’ombra del suo studio e con lei instaurerà un mirabile colloquio che, grazie al resoconto, diventa un’opera d’arte che niente e nessuno potrà mai scalfire.
Possiamo allora affermare, trovandoci d’accordo con molti studiosi che hanno analizzato questo aspetto che accomuna due anime: quella della madre e quella del figlio
che il tempo della mancanza è il tempo dell’assenza. Il tempo del vuoto diventa il tempo della differenza tra la presenza e l’incapacità di afferrare il senso delle cose.
Tutto ciò che un giorno è stato si trasforma in una ferita che si esprime con un viaggio nella malinconia. La malinconia è l’estremo senso del silenzio. Non usa parola altisonanti. Se serve piuttosto dello sguardo, del volto, delle mani nei movimenti e dei gesti.
La mancanza e l’assenza sono ferite dell’anima, ma restano tagli incisi nel profondo degli occhi che fissa l’esterno e custodisce il profondo. Si diventa maschere nude. La perdita della madre è un nascondimento della realtà che non è più tale ma trasgredisce a vuoto.
La perdita della madre, così drammaticamente avvertita dal figlio disperato, diventa una assenza che si trasforma in accompagnamento oltre le ombre che camminano nella coscienza.
Luigi Pirandello nei “Colloqui coi personaggi scava tra le ombre e tra le ombre la madre ha una grecità che ha una onirica visione metafisica e un vissuto archetipico grazie al quale si annulla ogni interpretazione del tempo. Non è più assenza.
È consapevolezza della presenza spirituale che allontana la ruga della presenza reale-materiale.
La madre in Pirandello, bisogna sottolineare non è mai una maschera nuda. Piuttosto è un volto assente perché continua a vivere, con la sua assenza, nel suo volto presente a sé stesso e presente ad un gioco di specchi che si incastra in un riflesso ontologico, in cui la parola, il dialogare o il colloquiare, ha un portato sacro.
Per anni ha condotto la vita sempre accanto (quasi succube) al marito che si è comportato in maniera non perfetta tanto da essere indicato, dal figlio, come uno scioperato avendo un trascorso che spesso mise in grave difficoltà l’intera famiglia.
Questo comportamento del padre, in perfetta antitesi con la madre, ha dato allo scrittore la consapevolezza che la madre, alla fine, diventa sacralità. E questo lo si evince leggendo un passaggio del famoso colloquio:
“- D’esser forte, Mamma, mi dici, in questo momento di prova suprema per tutti? Forse sì… ma tu, Mamma? Proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, ove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno, quando più cupa e fredda mi doleva la vita, per rischiararmi e riscaldarmi al lume e al calore dell’amor tuo, che mi rifaceva ogni volta bambino…”.
C’è un asterisco metaforico in questo Pirandello. Quello del legame tra l’adulto e il ritornar bambino. È sempre il tempo che si frappone tra il sublime della nostalgia e l’interiorità della realtà che riporta costantemente alla Assenza. Siamo nella stanza delle “emozioni ferite” e si interrompe quell’archeologia del silenzio (Eugenio Borgna) che ha dominato il contemplare della distanza-lontananza. La cifra del suo viaggio letterario è un infinito che gioca costantemente con le emozioni e le emozioni diventano personaggi.
In questo incontro si è cercato di creare un confronto tra il senso del destino nella letteratura e la letteratura come avventura in una ricerca che è fatta di silenzi, di linguaggi, di parole e di colloqui. Si vive sempre oltre, ma si vive, comunque, se si stesse in un teatro che è la rappresentazione del dramma umano tra l’ironia e l’assurdo.
Dal romanzo al novellare, dalla poesia al teatro è tutto un legare lo sguardo della maschera con gli occhi e il volto. Dunque, un viaggiare nello spazio di un tempo che sembra illimitato ma è soltanto indefinibile. Pirandello è la maschera nuda ma è anche il volto che si ritrova nello specchio. L’anima è fatta di stanze. Si vive in ogni stanza e si tocca, in ogni stanza, la parete della solitudine e le pareti della malinconia. Un vissuto che non può essere catturabile mediante la descrizione.
Ancora la madre nel Colloquio:
“… la vita, figlio, tu lo sai, noi la diamo ai figli perché la vivano loro e ci contentiamo se qualcosa ancora di riflesso ne venga a noi; ma non ci sembra più nostra; la nostra, per noi, dentro, resta sempre quella che non demmo ma che ci fu data, a nostra volta; quella che, per quanto nel tempo s’allunghi, serba dentro pur sempre il primo sapore d’infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d’allora com’essi la avevano fatta per noi… Tu puoi saperlo, quale fu questa mia vita, perché tante volte io te ne parlai, ma altro è viverla, figlio, una vita…”.
Una vita! Una vita nella ferita che diventa inesorabile trauma di esistenze con le quali Pirandello ha raccontato la sua attraverso il destino dei personaggi in un teatro che non ha pareti, ma soltanto uno spazio indefinito e indefinibile. Da questo spazio l’assenza si fa destino e nelle assenze le ombre sono chiaroscuri che hanno voci che non smetteranno di portare echi che segnano scavi d’anima. Così:
“Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…”.
Tra figlio e mamma c’è la parola e lo sguardo. Tra il parlare e il guardare ci sono i segni che sono linee di inquietudine. In Pirandello, comunque, si agita e si abita una triangolarizzazione tra la madre, Antonietta, la moglie, e Marta Abba. Ma la metafora dell’ombra è soltanto lo specchiarsi nel volto della madre. Ed è soltanto lei che non diventa maschera. La madre è il volto. Antonietta e Marta Abba sono la maschera nel teatro dei personaggi che vivono in cerca d’autore. Dalla pazzia all’amore e dal sentiero d’amore alla malinconia. La madre resta la malinconia. Così il tempo di Pirandello è nella malinconia dell’attesa del dialogare tra il personaggio Pirandello e la madre.
E questo tempo è mancanza, assenza, vuoto, distanza, lontananza. Ma non diventa mai una maschera. Resta il volto. Non un volto. Il volto. La madre è il volto.
La ‘chiusa’ del Colloquio è una “esercizio” spirituale che resta e le parole della madre sono un concluso tempo, ma anche una speranza che annuncia un richiamo profetico:
“Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle”.
Un vissuto che resta tale in quanto vissuto. Poi il resto è una tenda dietro la quale può esserci il nulla come può esserci l’orizzonte che raccoglie gli infiniti. Pirandello è un giocatore che ben conosce sia la recita che la tragedia.
Questo nel tutto e il nulla è una vacua linea solcata tra le ombre che insistono nel viaggiare pirandelliano. E poi oltre… Ma bisogna arrivarci in questo oltre. Abitarlo e osservare cosa è rimasto dietro e cosa si legge tra i punti sospensivi che metaforizzano un annuncio o una attesa. Con Pirandello si va sempre oltre… Il senso della sacralità è un misterioso cammino. Continueranno, il sacro e il mistero, a viaggiare non solo nelle parole ma soprattutto nella vita di Pirandello.
Nel Colloquio con la madre si intrecciano non i ricordi, ma le memorie che si fanno tempo.
“Mamma io non stacco un solo momento il mio pensiero da te e ti vedo come se ti fossi davanti e mi struggo di non poterti baciare codeste sante mani, che tante cure e tante carezze mi diedero quando forse d’un tuo conforto e d’una tua carezza non sentivo il disperato bisogno che sento adesso! Ma non credere, mamma mia, che il mio animo non sia forte. Io resisto con coraggio alla prova; ma sento che meglio resisterei se ti fossi vicino, se tu con gli occhi amorosi mi sostenessi di tanto in tanto”.
“… Non sono io forse viva sempre per te?
– Oh, Mamma, sì! – io le dico. – Viva, viva, sì… ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t’immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu se qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…”.
L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronte, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre. Mi alzo; m’accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d’acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s’abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli.
Ma essi godono femmineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. È un moto d’onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
“Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle”.
La madre è la Mater che portiamo nell’anima ed è anima quando non c’è più. Questo non esserci più resta una contraddizione. Profonda. Segnata nella roccia. Roccia di mare.
Pietro Seddio
INDICE
La famiglia di Luigi Pirandello: Nota introduttiva
Capitolo 1: Caterina Ricci Gramitto
Capitolo 2: Stefano Pirandello
Capitolo 3: Maria Stella
Capitolo 4: Calogero Portolano
Capitolo 5: Antonietta Portulano
Capitolo 6: Rosolina Pirandello
Capitolo 7: Stefano Pirandello
Capitolo 8: Fausto Pirandello
Capitolo 9: Lietta Pirandello
Capitolo 10: Il problema dell’eredità con i figli
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