Di Michela Mastrodonato.
Pubblichiamo il saggio con cui l’autrice dà il suo contributo all’identificazione dei Sei personaggi e del loro autore, e alla geniale operazione stilistica che Pirandello lì propone.
La Divina Commedia “da fare”:
Dante autore dei Sei Personaggi
Naturalmente c’è sempre di mezzo Dante. Si tratta di un articolo pubblicato sulla Rivista accademica “Italian Quarterly” della Rutgers University di New York nel numero di Settembre 2021, anticipazione di un libro con cui più distesamente l’autrice svela una volta per tutte il mistero (dantesco) della pièce più enigmatica e famosa di Pirandello.
Pubblicato per gentile concessione dell’Autrice cui sono riservati tutti diritti.
È proibita la diffusione in qualsiasi modalità salvo consenso dell’Autrice stessa.
da «Italian Quarterly», Issue 58, Winter-Spring 2021
ABSTRACT
L’analisi allegorica dei Sei svela la fabula di Catone Uticense e della sua Marzia, moglie di due mariti e madre di quattro figli: famoso caso giuridico di locatio ventris ben noto a Dante, che proprio sul punto di abbandonare il Convivio scorge nella vicenda di Catone e Marzia un disegno allegorico che declina le tre “etadi” dell’anima umana. Se, dunque, i Sei dialogano allegoricamente con i multipli destini dell’anima dantesca, allora l’autore che essi corteggiano è forse l’istanza autoriale par excellence: Dante stesso, sorpreso nel punto di tempo in cui concepisce la sua nuova (divina) “commedia da fare.”
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Ai Sei personaggi in cerca d’autore sono ancora appiccate le maschere ‘speciali’ che Pirandello ha pensato per loro cento anni fa, “lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca” (41). Tuttavia, esiste la possibilità che dietro questi “fantocci” (44) respirino esistenze storicamente vissute da cui Pirandello può aver tratto ispirazione per esprimere il suo tormento artistico; ed è possibile che dietro la maschera delle statuarie ipostasi del Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina, si celino identità e dolori con un nome e una ragione poetica.
A voler accendere, dunque, un fanale, come direbbe Pirandello, sulla sostanza artistica dei Sei, converrà prendere le mosse dalla relazione che unisce il Padre e la Madre, coppia insolita al punto da costituire di per sé un indizio prezioso.
Catone Uticense e Marzia
Solo due coniugi hanno storicamente vissuto i casi di questo Padre e di questa Madre, nel senso che solo un marito ha notoriamente spinto la moglie a lasciare il tetto coniugale e un primo figlio in tenera età (“lo abbandonò di due anni” osserva la Figliastra, 51) per convolare a nozze con un altro uomo. Solo una moglie dà poi tre figli al secondo marito e, una volta vedova, torna presso il primo che la riaccoglie con i tre nuovi nati. Senza trascurare che il primo marito brilla per la sua sobria ma piacevole loquela, per uno spiccato moralismo con “aspirazioni a una certa solida sanità morale” (56, 62) e un certo “flair for theatricality” (Van der Blom, Cato and the people 49) da vero metteur en scène.
Com’è evidente si tratta di Marco Porcio Catone detto l’Uticense, posto da Dante a guardia del Purgatorio, e della sua giovane seconda moglie Marzia, figlia di primo letto di Lucio Marcio Filippo, console nel 56 AC nonché patrigno di Ottaviano Augusto (Münzer, Roman Aristocratic Parties 299); d’altronde sembra proprio che Pirandello abbia in mente le pieghe delle statue classiche quando raccomanda un “vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganze, con pieghe rigide e volume quasi statuario” (41). L’immagine delle pieghe, poi, gli è piuttosto cara per un certo spessore dantesco che Pirandello apprezza in una sua chiosa ad alcuni versi del Paradiso: “Però salta la penna e non lo scrivo: / ché l’imagine nostra a cotai pieghe, / non che ‘l parlare, è troppo color vivo” (Par. XXIV, 25-27). Così infatti egli scrive di suo pugno:
L’immaginare nostro ha le sfumature necessarie per ritrarre l’inflessioni del canto divino. Perché la fantasia umana (nonché la parola, che è tanto meno potente della fantasia) è incapace di significare un canto tanto divo, a quel modo che i colori troppo vivaci non possono ritrarre su la tela la tinta delle pieghe nelle vesti. (La Divina Commedia di Pirandello 479)
Catone è una delle leggende più fulgide della Roma antica: uomo politico e magistrato integerrimo, proverbiale la sua specchiata moralità, abilissimo oratore di rigida fede stoica (come il suo antenato Censore), detto l’Uticense perché si suicida nel 46 AC a Utica in spregio alla tirannica spada di Giulio Cesare. Grazie alla sua abnegazione all’ideale politico repubblicano e al gesto estremo con cui stoicamente pone fine alla sua vita, Catone lascia un segno indelebile nella cultura e nella letteratura latina, ispirando numerose vitae Catonis (perduta quella di Cicerone, giunta a noi integralmente quella famosa del greco Plutarco), tutte – tranne l’Anticatone di Cesare – con un’impronta agiografica che durerà fino al “santo petto” di Dante (Purg. I, 80). Senza dimenticare il monumento a Catone rappresentato dalla Farsaglia di Lucano e da molte opere di Seneca.
Catone, però, insieme a sua moglie Marzia, arriva a Dante anche per la via sotterranea delle scholae di retorica medievali, nelle quali si formava la classe dirigente d’Europa a colpi di controversiae su casi giuridici che, per la loro ambiguità, si prestavano all’apprendimento dell’arte oratoria. Tant’è che nel I canto del Purgatorio il venerando Catone, a ben vedere, non è solo. Nei paraggi, mai troppo distante da lui come nelle scholae di retorica, aleggia anche Marzia, menzionata a più riprese nel duello di parole ingaggiato da due oratori di razza come Virgilio, appena sbucato con Dante da un cunicolo infernale, e Catone stesso, guardiano intransigente col ferreo mandato di fermare chiunque tenti di uscire da quel buco.
Marzia, anche lei “sancta” secondo Lucano (Farsaglia, II, 327), nell’antichità è infatti famosa quanto Catone, venerata tra le più eroiche matrone romane per essere stata costretta a rinunciare al piccolo figlio e al primo marito, e poi per essere tornata a condividere con Catone gli anni della resistenza armata a sostegno dell’agonizzante Repubblica.
Ma veniamo ai fatti. Secondo Plutarco, Catone sposa in seconde nozze la giovane Marzia e lei gli dà un figlio maschio. Dopo poco, però, nella casa dell’Uticense arriva la richiesta che metterà a soqquadro tutta la cultura occidentale: Quinto Ortensio Ortalo (grammatico e illustre oratore) chiede a Catone la mano di quella giovane moglie; richiesta ancora più sconcertante perché Marzia è incinta. Il fatto è che Ortensio, oltre a voler stringere legami di sangue con l’illustre famiglia dei Catoni, ha bisogno di eredi maschi che l’età fertile di lei può procurargli. Catone, per ragioni che hanno tormentato generazioni di classicisti, accetta la proposta e ingiunge alla moglie di sposare Ortensio. Persuasiva l’ipotesi di Münzer, secondo il quale “Cato, for Hortensius, was not some member of society whose wife excited his lust, but the closest and dearest relative of Quintus Servilius Caepio, when the latter’s widow, the orator’s daughter, was mourning her youg life away” (315). In sostanza Catone si sarebbe sentito moralmente obbligato a cedere Marzia, per risarcire Ortensio della morte di suo fratello Cepione (marito della figlia Ortensia, decisa a non risposarsi).
Per noi, però, è interessante notare che Plutarco, tradotto da Girolamo Pompei in un’edizione presente nella biblioteca di Pirandello (Barbina 106), così descrive questo insolito ménage familiare: “Ma questa parte nella vita di Catone è cosa che ci fa star perplessi ed incerti, come è il gruppo nelle rappresentazioni drammatiche” (Vite degli uomini illustri 554). Con “incerti,” Pompei traduce il greco ἂπορον, ‘paradosso,’ ‘stravaganza;’ e con “gruppo nelle rappresentazioni drammatiche” egli traduce il greco di Plutarco ἐν δράματι (Catone 294). Insomma, i casi di Catone e Marzia sono talmente assurdi ed estremi che meriterebbero un’opera drammaturgica tutta loro. Che Pirandello abbia accolto il suggerimento?
Tra le fonti classiche solo Plutarco segnala la gravidanza di Marzia, e Pirandello potrebbe aver sviluppato questo spunto drammatico attraverso il personaggio della Figliastra, figura inquieta, fuori posto, assetata di vendetta, intorno alla quale si agita lo spettro di una paternità naturale. Perché mai, d’altronde, un uomo sentirebbe il bisogno di spiare all’uscita di scuola una bambina nata a casa di un altro padre? Perché mai le offrirebbe doni? Solo perché è figlia dell’ex-moglie? Forse sì, forse no. Certo è che proprio da questa ambiguità deriva l’intensità drammatica dell’incesto mancato nel “retrobottega” (Sei 53) di Madama Pace.
Ma Plutarco ci parla a lungo anche di Munazio Rufo, amico e famiglio molto devoto a Catone, autore anche di una vita Catonis. Munazio è un assistente subalterno, sorta di segretario intimo, come precisa l’etimo suggerito dal Tommaseo: “quegli che ha invero le confidenze più intime e segrete.” (Cfr. Dizionario Tommaseo-Bellini alla voce segretario. Il dizionario è presente ne La biblioteca di Pirandello 140) Ebbene con Marzia, secondo Plutarco, Munazio condivide intese nascoste e giochi di “sguardi intelligenti” che, seppure innocenti, possono dare adito a sospetti simili a quelli nutriti dal Padre: “Veda, signore, c’era con me un pover’uomo, mio subalterno, mio segretario, pieno di devozione, che se la intendeva in tutto e per tutto con (indicherà la Madre)” (Sei 55). Pirandello, cioè, potrebbe, per il suo segretario, aver contaminato i ruoli di Ortensio e Munazio che tra l’altro, nel fuoco della guerra civile, per ordine di Catone porta a vivere il piccolo primogenito di Marzia presso i Bruzi (Catone 475), cioè nelle campagne calabresi: “Per farlo crescere sano e robusto, a contatto della terra! … in campagna” (Sei 56), precisa il Padre. E l’amore per la terra non è una sorpresa nella casa dei Catoni, se De re rustica è il titolo di un famoso trattato scritto dal Censore antenato dell’Uticense. (Anche una biografia di Marco Porcio Catone il Censore scritta in latino da Jacopus Cortese è presente ne La biblioteca di Pirandello 103).
La Madre dei Sei non sa “parlare,” non ha la maestria del marito oratore, è un’”umile donna” (54), e questo è piuttosto coerente con l’umiltà, diciamo, giuridica di Marzia che obbedisce muta a Catone subendo passivamente la dolorosa locatio ventris (la cessione a un altro uomo della coniuge incinta) frequente nella Roma arcaica e ancora documentata nel I secolo CE (Sannicandro 89 n25). Quanto invece ai tratti fisici e all’abbigliamento della Madre, la fonte privilegiata di Pirandello sembra essere la stessa fonte di Dante, e cioè il poeta Lucano. Nella Farsaglia, infatti, in una Roma drammaticamente percorsa da terrori fratricidi, reduce dal funerale di Ortensio appena tumulato, “relicto Hortensi busto” (II, 327), Marzia irrompe nella casa di Catone, “inrupit Marcia” (II, 328), con abiti luttuosi, “sicut erat, maesti servat lugubria cultus” (II, 365), implorando di essere di nuovo sua moglie. Chiede stoicamente nozze caste, immuni da piacere carnale, avendo il suo ventre già dato figli a due mariti, “geminos maritos” (II, 339), poiché “costretta” da Catone stesso, “iussa” (II, 339). Ideale figura femminile di amore puro.
L’ossessione del teatro
Un’altra affinità elettiva tra il Padre pirandelliano e l’Uticense è il talento teatrale. La cura di Catone per la performance pubblica era estrema. Egli studiava accanitamente, simulando da solo ad alta voce le strategie dell’actio affidate al tono di voce, alla gestualità, all’espressività del volto. Pirandello direbbe: “Già; ma la voce, il gesto” (Sei 73) … Ecco, già…l’aria, il tono…” (86). Non diversamente il Padre è capace di mutare attitudine in modo repentino, “a volte sarà mellifluo, a volte avrà scatti aspri e duri” (42). Inoltre non nasconde una certa “passione che diventa sempre, da sé, appena si esalti, un po’ teatrale” (65). Ma anche Catone fu con grande verve un agonotèta (Catone, XLVI), sorta di capocomico che costituiva compagnie teatrali, forniva trame e indicazioni sceniche, metteva in palio il premio e dirigeva gli attori.
Nell’abbigliamento, poi, il Padre non smentisce l’austerità stoica senza fronzoli e i colori dimessi delle eccentriche vesti di Catone che, a differenza degli altri romani viri, sulla classica tunica bianca non indossava una porpora rossa bensì “oscura” (Le vite degli uomini illustri di Plutarco 531-32). Come il Padre, che “vestirà calzoni chiari e giacca scura” (Sei 42). Quanto all’età e ai tratti somatici, il Padre è “sulla cinquantina, stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo … occhi azzurri” (42), e noi sappiamo che l’Uticense nasce nel 95 BCE e si suicida a Utica il 12 aprile del 46 BCE, a cinquant’anni. Grazie ai busti marmorei di arte romana giunti fino a noi, sappiamo che era stempiato, e lo immaginiamo con capelli fulvi, cioè rossicci, e occhi azzurri poiché, racconta Plutarco, il suo antenato Censore era appunto “di volto rossiccio, e d’occhi azzurri” (Le vite dei romani più illustri 109, Edizione presente ne La biblioteca di Pirandello 106.).
Però sono due gli indizi che paradossalmente cuciono il Padre pirandelliano alla figura di Catone Uticense: il primo appare nella Prefazione del ’25, ed è un’espressione squisitamente dantesca ma deformata alla maniera pirandelliana: “Mi trovai davanti un uomo … dall’aria aggrottata e dagli occhi scontrosi per mortificazione” (19). Quest’“aria aggrottata,” infatti, ha molto a che fare con le “grotte” (Purg. I, 47) del I canto del Purgatorio, regno del diuturno “rimorso,” là dove il guardiano Uticense accoglie con probabili occhi “scontrosi” due viandanti sbucati dalle viscere della terra, che certo non immaginavano di trovarsi davanti uno che si è mortificato suicidandosi. Il secondo indizio è ancora più divertente e riguarda la stenografia:
IL SUGGERITORE: “Stenografare?”
IL CAPOCOMICO: (con lieta sorpresa) “Ah benissimo! Conosce la stenografia?
IL SUGGERITORE: “Non saprò suggerire; ma la stenografia…” (Sei 69)
Forse non tutti sanno che l’unica orazione di Catone sopravissuta integralmente, ch’egli pronunciò contro Catilina, è arrivata fino a noi proprio grazie a un resoconto stenografico, cioè a una trascrizione fatta in simultanea con un sistema di “abbreviatura,” “distinta abilità nello scrivere con prestezza” con “piccioli e brevi tratti” che “conteneano di molti caratteri” (Le vite dei illustri uomini di Plutarco 553). Aveva da poco inventato questo sistema tachigrafico di segni, un liberto di Cicerone di nome Tirone, da cui il nome “note tironiane.” E il Catone di Plutarco (XXIII, 3) è l’unica fonte antica di questa affascinante notizia (Catone 390 n129).
Le stagioni dell’anima
Ma l’avere individuato il legame profondo che unisce i Sei personaggi a Catone Uticense, non è che l’inizio del percorso critico che si vorrebbe qui proporre. Quello di Pirandello è infatti un laboratorio artistico autentico, in cui egli spinge in profondità la sua vis metamorfica; quindi questo antico ménage familiare non può che essere il punto di partenza di una vera operazione drammaturgica, complessa e raffinata, grazie alla quale scorgere territori ideali vastissimi, popolati da ombre insieme dantesche e pirandelliane.
Quella dei Sei è, dunque, la storia di una Madre che ha avuto quattro figli da “due uomini” (Sei 51), “vedova” di un marito “vivo” (50). Ma perché questa scelta? Che cosa ha voluto rappresentare Pirandello mettendo in scena questi due fantocci suggeriti dal I canto del Purgatorio e dalla storia della Roma tardorepubblicana?
Sappiamo che Dante assimila Catone a un venerando padre, depositario delle umanissime quattro virtù cardinali. Lo vede come un “veglio solo / degno di tanta reverenza in vista, / che più non dee a padre alcun figliuolo” (Purg. I, 31-33). Ma sappiamo anche che nel Convivio egli si spinge ben oltre, proponendo – sulle orme di Lucano – una lettura allegorica di tutta la vicenda. Dante vede cioè nelle diverse età di Marzia e nelle diverse stagioni della sua vita accanto a Catone, il destino dell’anima umana dal momento della sua creazione fino al ritorno nelle braccia di Dio:
13. E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere: per la quale Marzia s’intende la nobile anima.
14. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l’adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute.
15. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova fatta – per lo quale vedovaggio si significa lo senio – tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.
16. E che dice Marzia a Catone? “Mentre che in me fu lo sangue,” cioè la gioventute, “mentre che in me fu la maternale vertute,” cioè la senettute, che bene è madre de l’alte [vertu]di, sì come di sopra è mostrato, “io” dice Marzia “feci e compiei li tuoi comandamenti,” cioè a dire che l’anima stette ferma a le civili operazioni. Dice: “E tolsi due mariti,” cioè a due etadi fruttifera sono stata.
17. “Ora” dice Marzia “che ’l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo»; cioè a dire che la nobile anima, cognoscendosi non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le membra corporali. E dice Marzia: “Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio”; che è a dire che la nobile anima dire a Dio: ‘Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua.’
18. E dice Marzia: “Due ragioni mi muovono a dire questo: l’una si è che dopo di me si dica ch’io sia morta moglie di Catone; l’altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti.”
19. Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d’esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua azione. Oh sventurati e male nati, che innanzi volete partirvi d’esta vita sotto lo titolo d’Ortensio che di Catone! Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi. (Convivio, IV, 28, 13-19)
Si noti subito che scacciare è il verbo con cui Dante traduce expulsa (Farsaglia II, 345) di Lucano, lo stesso su cui Pirandello insiste per tre volte: “LA MADRE: Ma se m’hai scacciata! IL PADRE: Ecco, la sente? Scacciata! Le è parso ch’io l’abbia scacciata!” (Sei 54). Ma si osservi soprattutto come questa lettura allegorica di Dante mostri una certa affinità elettiva con l’idea tutta novecentesca, e non solo pirandelliana, dell’anima come plurimo slancio vitale, “fusione continua” (Uno, nessuno e centomila 38), l’idea di un’interiorità capace di ospitare più personalità in grado di determinare variamente il nostro destino nel tempo. E proprio nel solco di questa suggestione, i Sei svelano il loro spessore dantesco. Di più, appaiono essi stessi questo spessore, come se Pirandello applicando il paradigma di Catone e Marzia, avesse inteso squadernare nello spazio scenico, le diverse le stagioni spirituali e le dimensioni artistiche vissute da Dante nel tempo della sua esistenza.
Il giovinetto con la rivoltella
Dante visse e attraversò la dimensione dello squallore, abisso sordido, orrido, deserto. (Cfr. il Dizionario Etimologico Pianigiani alla voce squallido.) Visse il tempo di una desolazione senza luce e senza speranza, rappresentato nella “selva selvaggia” del I canto dell’Inferno, allegoria del postremo traviamento.
Ebbene, a giudicare dalle scelte lessicali, Pirandello potrebbe aver incarnato quest’età della disperazione e del traviamento nello “squallido Giovinetto di quattordici anni … dall’aria timida, afflitta e quasi smarrita” (Sei 42), un “imbecillino” (48) connotato da indizi danteschi meritevoli di un’occhiata più da presso.
“Terribili squalore” (Eneide VI, 299) è infatti la connotazione che Virgilio dà al demone Caronte dell’Eneide; imbecille, poi, indica la mancanza di vigore spirituale; (Cfr. il Dizionario Tommaseo-Bellini alla voce imbecille.) ed è Dante a suggerire, nel Convivio, che l’imbecillità sia una pericolosa debolezza morale che espone l’anima agli assalti della “malizia”; si pensi al protagonista suicida della novella L’imbecille (Novelle per un anno I, 402-8).
Ma proprio questa debolezza è lo status dell’età “adolescente:”
la buona natura … dà a la vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto
… così l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. (Convivio, IV, 24, 10)
L’“imbecillitade” è per Dante tipica dell’adolescente, che è imbecille perché malsicuro nei princìpi morali e incline a traviare verso l’“erronea vita.” E siccome la “puerizia, non dico d’etate ma d’animo” (Convivio I, 4, 2), affligge “la maggiore parte de li uomini” i quali “vivono secondo senso e non secondo ragione,” deduciamo che l’uomo smarrito nella “selva selvaggia” sia idealmente come un “adolescente”; un ragazzino troppo debole per resistere alla tentazione di togliere il disturbo.
Potrebbe essere questa la ragione per cui il Giovinetto pirandelliano è un “imbecillino” “stupido” e “sciocco,” cioè senza senno, una “creaturina” che non riesce a “tener ritto il capo che ogni volta ricasca giù” (Sei 104). Sulla scena dei Sei egli incarna forse quella certa età d’animo di Dante, quella condizione esistenziale afona, deprivata di facoltà linguistica, sprovvista di intelletto ed esposta al traviamento nella “selva erronea di questa vita.” Il silente Giovinetto è, infatti, preda della stessa folle attrazione suicidale che in un luogo similmente alberato spinge Dante ad aggirarsi circospetto, “per la sua follia” (Purg. I, v.59), nella sua selva.
Nello stile, sia per Dante che per Pirandello, la follia è perdita di sé che spinge a errare smarriti in uno scenario di cupa vegetazione, che per il Giovinetto è un lugubre giardino notturno allestito con uno “spezzato d’alberi” (Cfr. “tutto spezzato al fondo l’arco sesto” (Inf. XXI,108).) in cui finisce per “aggirarsi come un’ombra … nascondendosi dietro gli usci” (Sei 101), anzi “dietro gli alberi” (103), con una “rivoltella” (108) in tasca, sul punto di fare “la più grossa delle corbellerie, proprio da quello stupido che è” (48).
Ma anche questa rivoltella è, a ben vedere, un oggetto molto dantesco, poiché oltre al significato moderno di pistola, essa ha anche l’antico significato di viottola che esce dalla strada comune: traviamento, smarrimento della “diritta via,” perdizione che si annida nella tentazione suicidale.
Messa così, il Giovinetto porta sulla scena la dimensione disperata in cui Dante, quasi “folle,” non ragiona (Inf. II, 35-36): un fragile quattordicenne con l’“aria di mendico” (Sei 107) che agli occhi del drammaturgo e dantista Pirandello, è il fantoccio perfetto per incarnare un certo Dante, quello “peregrino” che “quasi mendicando” pativa “essilio e povertate” (Convivio, I, 3, 4).
L’anima (an)neggata: la bambina
Un attimo prima del colpo di rivoltella, muore la Bambina: creatura semplice e indifesa, intenta solo a giocare con i fiorellini, “tutti quei ‘pittoli pittoli’” (Sei 102), appena affacciata alla vita e già spezzata. Può essere un caso? Esiste un nesso tra il suicidio da rivoltella del Giovinetto e la morte della Bambina? Certo, la piccola muore qualche istante prima dello sparo:
IL FIGLIO. Attraversando il giardino… […] a un tratto m’arrestai, perché dietro quegli alberi vidi una cosa che mi gelò: il ragazzo, il ragazzo che se ne stava lì fermo, con occhi da pazzo, a guardare nella vasca la sorellina affogata. […] Feci per accostarmi; e allora… (Rintronerà dietro gli alberi, dove il Giovinetto è rimasto nascosto, un colpo di rivoltella). (Sei 111)
Dante è attentissimo (come Pirandello) alla vita della nostra anima: alla sua nascita, alla maturazione, alla sua sciagurata caduta, al suo muto spegnersi nel silenzio degli abissi o al suo lieto ritorno tra le braccia di Dio. E se Dante può aiutarci a capire il misterioso finale dei Sei personaggi, può farlo forse in Purgatorio XVI, quando Marco Lombardo racconta il precipitare di un’anima fanciulla:
se ‘l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l’anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore. (Pg. XVI, 85-94).
Quando l’anima umana esce dalle mani di Dio è come una bambina che gioca incantata, trascorrendo leggera da un’emozione all’altra. È “semplicetta,” insegue fiduciosa solo ciò che la di-verte, ma si mette in pericolo se una “guida” o un “freno” non corregge il “suo amore.” Già Manzoni, nel famoso incipit dedicato alla mortificazione inflitta a Gertrude dal Principe Padre, descrive il blasfemo traviamento dei giovani spiriti. I più giovani, infatti, cadono prede dell’“astuzia interessata” che “spia” il “fiore appena sbocciato” (Promessi sposi 180) per approfittarne impunemente. Non diversamente, Pirandello esalta la “vivace tenerezza” della Bambina che “gioca ignara” (Sei 102), inseguendo fiori “pittoli pittoli” (102), mentre il Giovinetto la “spia.” (Il lemma “spia” è dantesco e appare nel contesto dell’“anima semplicetta.”) La “fascia di seta nera alla vita” (punto vita, ma anche vita) allude al triste presagio che incombe sull’anima Bambina, poiché, “senza guida o fren,” cioè senza nessuno che badi a lei, gioca improvvidamente ad “acchiappare anatrelle”:
LA FIGLIASTRA. no, Rosetta mia, no! La mamma non bada a te, per quella canaglia di figlio là! Io sono con tutti i miei diavoli in testa … una vasca … per poterci giocare, eh? Ma no, sarà per gli altri un gioco; non per te, purtroppo, che sei vera, amorino, e che giochi per davvero in una vasca vera, bella, grande, verde, con tanti bambù che vi fanno l’ombra, specchiandovisi, e tante tante anatrelle che vi nuotano sopra, rompendo quest’ombra. Tu la vuoi acchiappare, una di queste anatrelle… (Sei 107)
Di passata scopriamo che la Bambina si chiama “Rosetta” (107), piccola rosa, e per Dante perfino “lo prun rigido e feroce” può portare una “rosa” “in su la cima” (Par. XIII, 134): perfino il pruno, albero dei suicidi per eccellenza (Inf. XIII, 108).
Quanto alle “anatrelle,” non sarebbe così pericoloso cercare di acchiapparne una, a meno che non si tratti di un’“anitra” dantesca, che sfuggendo all’attacco rapace del falcone, “di botto” s’“attuffa” sott’acqua: “non altrimenti l’anitra di botto, / quando ‘l falcon s’appressa, giù s’attuffa, / ed ei ritorna su crucciato e rotto” (Inf. XXII, 130-32).
Se dunque la Bambina è frutto della metamorfosi che Pirandello infonde nell’anima “semplicetta” di Purgatorio XVI, il Giovinetto si uccide nel suo notturno giardino-selva proprio perché assiste all’annegamento-necatio della sua stessa anima: scena non casualmente allestita in un bacino di acqua ferma, simile allo specchio di un lago. Nella lunga notte della selva, infatti, Dante vive drammaticamente l’immobilità della sua anima quasi recisa, un’anima sul punto di regredire allo stato vegetativo; avverte cioè il suo cuore sospeso come l’acqua immobile di un lago: “la paura … che nel lago del cor m’era durata
/ la notte ch’i’ passai con tanta pieta” (Inf. I, 19-21).
Dante l’ha vista e guardata a lungo questa sua povera anima morente, priva di luce e di speranza; poiché è l’anima del suicida a morire per prima, annegando perché negata dalla creatura disperata e perduta. Il corpo, poi, la segue come un contorto corollario.
Noi sappiamo che, nella sua selva, Dante non cede; sappiamo che alle prime luci dell’alba il “lago del cor” si rianima, Virgilio giunge in suo aiuto e alla fine del viaggio egli sarà salvo. Tuttavia in quei momenti Dante “combatte” (Inf. II, 107) contro la morte della sua anima e del suo corpo, ed è proprio il momento eterno di questa tentazione suicidale vissuta “a spiare” “nascondendosi tra gli alberi” del traviamento, che Pirandello fissa nel ruolo del Giovinetto.
Nel ‘retrobottega’ di Dite
Lo spazio claustrofobico e rovesciato dell’Inferno, nella mente di Luigi Pirandello può somigliare a un retrobottega: quello di Madama Pace. Costei non è un personaggio, non fa parte né del gruppo dei Sei, né della compagnia d’attori agli ordini del Capocomico. La “megera d’enorme grassezza” (77), (come non pensare alla furia Megera di Inferno IX?) si materializza sulla scena come un diabolus ex machina, “attratta dagli oggetti stessi del suo commercio” (76) E allo stesso modo si dileguerà alla fine.
Il suo retrobottega si nasconde dietro a quello che “in apparenza” è un negozio di abiti. In realtà nell’ombra, dietro un “paravento” (69), c’è la sartoria in cui Madama Pace asservisce le donne, obbligandole a un vile baratto:
LA FIGLIASTRA. Sarta fina, se lor signori lo vogliono sapere! Serve in apparenza le migliori signore, ma ha tutto disposto, poi, perché queste migliori signore servano viceversa a lei.
LA MADRE. Mi crederà, signore, se le dico che non mi passò neppur lontanamente per il capo il sospetto che quella megera mi dava lavoro perché aveva adocchiato mia figlia…
LA FIGLIASTRA. Povera mamma! Sa, signore, che cosa faceva quella lì, appena le riportavo il lavoro fatto da lei? Mi faceva notare la roba che aveva sciupata, dandola a cucire a mia madre; e diffalcava, diffalcava. Cosicché, lei capisce, pagavo io, mentre quella poverina credeva di sacrificarsi per me e per quei due, cucendo anche di notte la roba di Madama Pace! (61).
Questa “atélier” è insomma un luogo di baratteria, mondo rovesciato che vive “di notte” e in cui si briga copertamente per creare “”Robes et Manteaux,”” abiti a cappotti.
Vi lavorano “sarte,” mestiere vicino al Maligno nell’immaginario medioevale (Le Goff 55), ma Pirandello potrebbe avere generato l’immagine di queste “sarte” che lavorano senza sosta nell’oscurità, dalla grandiosa similitudine di Inferno XXI, quando Dante si affaccia sull’abisso di Malebolge e gli par di vedere la concitazione affaccendata del leggendario cantiere navale dell’Arsenale di Venezia.
Anche lì ci sono “sarte,” sebbene nel senso di “cordami marinari”: “chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte; / chi terzeruolo e artimon rintoppa” (Inf. XXI, 3-15). Ma il caso vuole che a questi versi sia dedicato un meraviglioso passo del saggio La Commedia dei Diavoli e la Tragedia di Dante, in cui Pirandello descrive tutto il daffare che in vita si diedero i barattieri, che…in vita con ogni sorta di maneggi e di intrighi rifecer nuova la loro fortuna, o guasta la racconciarono, la rimpalmarono, e turarono i buchi alla lor barca che faceva acqua, ribattendola da prora e da poppa, e cercarono tutti i mezzi per arrivare al loro scopo (i remi), tessendo insidie (volgendo sarte), or con grandi or con piccole imprese rappezzate (l’artimone e il terzeruolo) (385)
Volgere sarte (le sartìe, le corde marinaresche) per Pirandello è insomma un’azione allegorica che allude alla tessitura di insidie. E da sorvegliato stilista quale era, egli gioca forse alla metamorfosi creando le sarte schiave di Madama Pace, “sarta fina” pure lei.
L’atélier di questa “megera” che parla in “modo affatto inintellegibile” (78), “dal sinistro canto” direbbe Dante (Inf., IX, 46), è a ben vedere una prigione, (“per Madama … c’è la galera!” 78), un covo di baratto, lenocinio e naturalmente di lussuria, un vizio che fu anche di Dante secondo Boccaccio (Trattatello 26).
Osservati da vicino, poi, i tratti fisici e l’attitudine di questa eccentrica Madama, alludono in modo più o meno dissimulato proprio a Dite, principe del Male, immobilizzato al centro della terra poiché incastrato nella “ghiaccia” (Inf. XXXIV, 29) di un altro lago gelato: Cocito. Sarà per questo che il Figlio si gela assistendo all’annegamento-suicidio? Sarà per questo che, umoristicamente, la megera si chiama Madama Pace? Il Maligno è la radice da cui procede “ogne lutto” (Inf. XXXIV, 36), ma è statico poiché ha bisogno che le sue prede gli vadano incontro volontariamente, è “quel mal voler che pur mal chiede / con lo ‘ntelletto” (Purg. V, 112-13), e Madama Pace è statica, circondata da oggetti di scena piuttosto infernali, a corredo del quasi amplesso tra il Padre e la Figliastra: la “vetrina dei mantelli” (Sei 53), un “divano-letto” “verde,” una specchiera; un “paravento” (ma i “paraventi” sono “tanti” in questo retrobottega), e una “busta cilestrina” (Sei 75) in cui finiscono le cento lire del mercimonio.
Il “divano letto,” luogo del misfatto, è “verde”: verde come la sciarpa del Figlio, verde come la vasca in cui annega la Bambina, e verde come il fascio di luce che ingigantisce sulla scena le ombre dei Sei alla fine della pièce. Ma verde è anche il “divano” in cui sprofonda “nero e grasso” Sebastiano Quantorzo, socio vorace nell’Uno, nessuno e centomila. Un verde insistente, dunque, la cui radice infernale è vistosamente virgiliana, poiché nell’Eneide il demone Caronte traghetta Enea e la Sibilla al di là dell’Acheronte e li depone su una sponda di molle limo: un letto vegetale di verde erba palustre, “informi limo glaucaque exponit in ulva” (Eneide VI, 416).
Anche il “divano” ha un etimo malizioso, ben messo in luce dal Tommaseo che lo deriva dal turco Divan, “Consiglio decisionale del mondo mussulmano.” Nell’accezione pirandelliana, dunque, il “divano letto verde” potrebbe alludere all’alcova di Dite in cui, poi, non può mancare la “specchiera,” correlativo allegorico del “lago del cor.”
E infine abbiamo il “paravento” che fa il paio con il vistoso “ventaglio di piume” della Madama (Sei 77), entrambi geniali metamorfosi di origine dantesca: agli occhi di Dante, infatti, Lucifero “par da lungi un molin che ‘l vento gira” (Inf. XXXIV, 6), poiché le sue sei ali di pipistrello hanno il telaio di giganteschi ventagli. Il ventaglio pirandelliano, d’altronde, è sempre correlativo allegorico di perdizione, e non solo nella famosa novella “Il ventaglino” (Novelle per un anno I, 151). Anche nella terribile “Benedizione” il luciferino Don Marchino, che lascia morire un bambino e benedice una capra, apre le mani a “ventaglio” almeno “una ventina di volte al giorno” (Novelle per un anno III, 186- 93). Perfino nell’opera giovanile Liolà, la buona zia Ninfa racconta alle ragazze del paese di aver perso l’omelia della messa perché dis-tratta dai “ventagli delle signore”: “Tentazione del diavolo. … Il diavolo, figliuole mie! Come se mi si fosse seduto accanto per farmi notare come si facevano vento le signore … E avevo un bel farmi la santa croce, non riuscii a scacciare quella tentazione” (Liolà 25-26).
Nel “retrobottega” di Madama Pace c’è anche una “busta cilestrina,” destinata a contenere le “cento lire” con cui il Padre deve pagare la prestazione sessuale della Figliastra. Dopo la lonza e il leone, ecco la lupa, fascinazione del denaro, coazione al ricatto dell’arricchimento. È una busta color “cilestro,” azzurra, lo stesso colore degli “occhi azzurri ovati” del Padre dei Sei, come gli occhi “vitrei e azzurrini” di papà Moscarda (Uno, nessuno e centomila 46). L’azzurro è d’altronde la tinta che brilla sulle “tasche” appese al collo degli usurai di Inferno XVII: il “leone azzurro” dei Gianfigliazzi e la “scrofa azzurra” degli Scrovegni (un altro leone e un’altra lonza). In questi astucci tenuti a mo’ di collare, infatti, gli usurai custodivano il loro libretto rosso (titolo di un’altra spietata novella pirandelliana, lupesca e luciferina). Astuccio o custodia da intendersi anche, secondo il Tommaseo, busta per le lettere:
IL CAPOCOMICO: Lei provveda intanto una busta, possibilmente cilestrina …
IL TROVAROBE: Da lettere?
IL CAPOCOMICO e IL PADRE: Da lettere, da lettere.
L’anima luciferina di Madama Pace è anche nel vestito di “seta rossa sgargiante” con cui la “megera” appare avanzando dall’“uscio in fondo” (Sei 77); forse lo stesso “uscio d’i morti” visitato da Beatrice (Purg. XXX, 139), a patto di leggere sgargiante nel senso di “squarciante,” come l’abito di sangue dell’antropofago Lucifero che “da ogne bocca dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla” (Inf. XXXIV, 55-56).
Infine, Madama Pace parla in spagnolo. La lingua spagnola appartiene sempre, in Pirandello, a personaggi malefici, figure oscure intorno alle quali tira aria di perdizione.
Per esempio, Mattia Pascal al Casinò di Montecarlo incontra una donna con una rosa rossa mandata a tentarlo da “un signore bassotto, bruno, barbuto, con gli occhi un po’ loschi, spagnuolo all’aspetto,” che “in quella sua lingua mezzo spagnuola e mezzo Dio sa che cosa” lo invita a giocare ancora e ancora fino a far “saltare la banca!” (Fu Mattia Pascal 91). Di quest’uomo dalla “risata strana, che voleva parer maliziosa,” Mattia si libera “dando una spallata” (94), e forse non a caso dal momento che le due facce laterali di Lucifero si congiungono a quella centrale “sovresso ‘l mezzo di ciascuna spalla” (Inf. XXXIV, 41). Non solo, più tardi Mattia ha un diverbio con un certo pittore spagnolo che finisce sul giornale nel report del suo finto suicidio.
Che la lingua spagnola possa rappresentare una traccia del Maligno è tutto da dimostrare. Ma certo se il “molino” (con la o) presso cui Mattia Pascal medita il suicidio nel “podere della Stìa” (75), lo stesso dove affiora il cadavere di cui si appropria, ha a che fare con la gigantesca sagoma di Lucifero di Inferno XXXIV, 6, allora forse la lingua spagnola omaggerebbe proprio Miguel de Cervantes. L’autore del Don Chisciotte, infatti, ha reso giustizia alla potenza metaforica di Dante con l’allegoria di Dite più imponente della letteratura mondiale, con terrificanti mulini a vento assaltati dall’idealismo di un uomo15 con cui Pirandello condivide lo “status perenne di nostalgia dell’assente” (Fava Guzzetta, Pirandello: la passione a rischio 136).
Il che non attenua la forza dell’irresistibile richiamo manzoniano dei Promessi sposi, archetipo della nostra prosa moderna, in cui il Male parla spagnolo.
Non stupisce, quindi, che in extremis ad evitare il peggio irrompa la Madre “velata di nero” (Sei 45), in abiti luttuosi come Marzia, ma anche “velata” come Beatrice (Purg, XXX, 65), come lei foriera di “salute” (Purg. XXX, 80-81); “umile” come una casta madre (Par. XXXIII, 2), decisa a contrastare il traviamento lussurioso indotto dall’anima sensitiva che vive, conosce e giudica “secondo senso e non secondo ragione” (Dante, Convivio, I, 4, 3). Perché in quel retrobottega l’anima perduta nella lussuria è quella del Padre, ridotto a un bruto che non vede; e l’anima tentatrice lussuriosa è quella della Figliastra, che riduce il Padre in uno stato di brutale cecità:
IL PADRE. La donna … chiude subito gli occhi … dice all’uomo: “Accècati, io son cieca!”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LA MADRE. Bruto, bruto, non vedi? (Sei 60, 94)
Il figlio “sdegnoso” e la madre della “salute”
Il Figlio è in questa pièce figura dello “sdegno,” sentimento che Dante mette sempre a dimora nelle anime nobili e altere, consapevoli del proprio valore e poco inclini a indietreggiare: “alma sdegnosa” (Inf. VIII, 44) è Dante stesso, e Farinata degli Uberti (Inf. X,41), Guido Cavalcanti (Inf. X, 63), Pier delle Vigne (Inf. XIII, 70), Sordello (Purg. VI, 62), il falcone “disdegnoso e fello” (Inf. XVII, 132) che, nel canto degli usurai e dei padri pragmatici, cala lentamente, con “cento rote,” neghittoso, e atterra “da lunge” soffrendo una tragica subalternità al falconiere padre-padrone.
Come questo falcone, il Figlio dei Sei personaggi non è certo la creatura che il Padre avrebbe desiderato. Egli è assorto e chiuso “in camera” (Sei 108-10), “appartato” (96) in un luogo tutto interiore, squisitamente ideale. Ritroso e scontroso, egli afferma con amarezza una diversa visione del mondo. E chissà che Pirandello non abbia in mente l’avido falconiere del XVII canto, quando descrive la trappola usuraia di Madama Pace che “diffalcava, diffalcava” (61).
Lo “sdegno” è un sentimento adulto. Gli uomini sdegnosi dissentono mettendo a distanza la radice del loro malessere. Non indietreggiano di un millimetro a costo di soccombere, ma non usano violenza per affermarsi. Lo “sdegno” è il vissuto di Dante esiliato che rinuncia a imporsi con la forza, restando però irremovibile nel suo modo altro di concepire la politica e il mondo. Probabilmente lo “sdegno” è anche la sua dimensione emotiva rispetto al padre Alighiero, tanto diverso da lui.)
Non diversamente, anche lo “scontroso” Figlio pirandelliano è animato da uno spirito di ribellione verso il Padre (“e che ne sai tu, come sono? quando mai ti sei curato di me?” 64) che arriva alla colluttazione fisica quando il Padre lo butta a terra: anche lui a terra, come Fetonte, come Icaro e il falcone, anche lui “disdegnoso e fello” (dal francese medievale fellon, “che si sottrae al comando del suo signore”), incarnazione di uno sdegno adulto che si ribella al modello paterno, cadendo in una contorsione morale pericolosissima:
IL FIGLIO. Non può costringermi nessuno!
IL PADRE. Ti costringerò io! …
IL FIGLIO. È inutile! Io non mi presto. … Non faccio nulla! …
IL PADRE. (appressandosi al Figlio, violentissimo) Tu la farai! per tua madre! per tua madre!
IL FIGLIO. (più che risoluto) Non faccio nulla!
IL PADRE. (afferrandolo per il petto, e scrollandolo) Per Dio, obbedisci! Obbedisci! Non senti come ti parla! Non hai viscere di figlio?
IL FIGLIO. (afferrandolo anche lui) No! No! e finiscila una buona volta! …
IL PADRE. (senza lasciarlo) Devi obbedire! Devi obbedire!
IL FIGLIO. (colluttando con lui e alla fine buttandolo a terra presso la scaletta, tra l’orrore di tutti) Ma che cos’è codesta frenesia che t’ha preso? Non ha ritegno di portare davanti a tutti la sua vergogna e la nostra! Io non mi presto! non mi presto! E interpreto così la volontà di chi non volle portarci sulla scena. (110)
Durante tutta la pièce questo Figlio sdegnoso e perduto in rabbiosa ribellione è inseguito da una Madre che cerca in tutti i modi di recuperarlo a sé. Nei suoi rispetti, egli mostra un’inclinazione scostante, e sostiene sempre di non aver mai vissuto con lei alcuna “scena” (“Non c’è stata nessuna scena fra me e lei!” [108]). Il che può voler dire solo una cosa: che egli non ha mai davvero incontrato questa donna, chiunque ella rappresenti. E il momento di questo non incontro ha luogo nello scenario immaginario di una certa “camera”:
IL CAPOCOMICO. Ma ora bisogna pur farla questa scena tra lei e lui! È indispensabile!
LA MADRE. Per me, signore, io sono qua! Magari mi desse lei il modo di potergli parlare un momento, di potergli dire tutto quello che mi sta nel cuore …
LA MADRE. (c.s.) Per carità! Per carità! …
IL FIGLIO. (con sdegno): … Non è vero, signore! Non c’è stata nessuna scena fra me e lei! (Indicherà la Madre). Se lo faccia dire da lei stessa, come è stato.
LA MADRE. Sì, è vero, signore! Io ero entrata nella sua camera.
IL FIGLIO. Nella mia camera, ha inteso? Non nel giardino!
LA MADRE. Sissignore, nella sua camera, non potendone più. Per votarmi il cuore di tutta l’angoscia che m’opprime. Ma appena lui mi vide entrare …
IL FIGLIO. nessuna scena! Me ne andai; me n’andai per non fare una scena. Perché non ho mai fatto scene, io; ha capito? …
IL CAPOCOMICO. Ma dica, dica lei almeno che cosa c’è stato! Lo dica a me! Se n’è uscito dalla sua camera, senza dir nulla? (108-10)
Questa “camera” è una chiave dantesca. Ricorre per ben cinque volte, in modo quasi ossessivo mentre ci si affanna a ricostruire un non incontro che, però, deve esserci pur stato tra questo Figlio e questa donna velata, se qualcuno sta cercando di farne una scena. Ricorre sempre con questa “camera” anche un aggettivo possessivo (sua o mia), e spesso il “cuore” della Madre, un quadro indiziario coerente con la sacra “camera” della Vita nuova in cui Dante delira di Beatrice; “secretissima camera de lo cuore” in cui, come il Figlio, egli è “sempre chiuso, appartato” (Sei 96), spazio intimo “de lo cuore,” luogo liminare in cui il delirio poetico si confonde con il sonno, con il sogno, con le lacrime, e in cui dimora il più ancestrale degli spiriti vitali danteschi:
lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente; … lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto. … e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera … E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; … mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo. (La vita nuova, I-III)
Forse gli incontri con Beatrice in questa “secretissima camera de lo cuore” non sono vere scene; forse non è una vera scena quella di lei che si nutre del cuore rovente e pulsante di Dante. Ma in che altro modo, se non alla maniera metamorfica di Pirandello, portare sul palcoscenico il delirio della sacra “camera de’ suoi pensieri” (Convivio, IV, 30, 5), e cioè dell’”anima” stessa, in cui “alberga la filosofia” e la sapienza (IV, 30, 6)? Senza trascurare il fatto che la Vergine Maria, come ogni madre, è per Dante “camera del Figliuolo di Dio” (IV, 5, 5). Per cui il Padre puntualmente esclama: “Non hai viscere di figlio?” (Sei 110).
Coerentemente, il sorriso di Beatrice nella Commedia ha la luce dell’amore materno, nutrito di quella “carità” che è espressione suprema della scintilla divina, il che rende Beatrice signora indiscussa delle sette virtù cardinali e teologali (Purg. XXXI, 100-108). E come Beatrice, la Madre pirandelliana non si stanca di inseguire il Figlio (“Per carità! per carità!” Sei 110), cercando di raggiungerlo, di ricondurlo a sé, di strapparlo alla perdizione. Verso di lei il Figlio ha in volto “un’accigliata indifferenza” (42), ritroso, come Dante nel tempo della sua perdizione; e protervo nel respingere i suoi richiami: “più lei è così supplice, più tenta d’entrargli nel cuore, e più quello lì si tien lontano: ‘as-sen-te!’ Che gusto!” (Sei 96).
Beatrice ha invano vigilato su Dante supplicandolo in sogno di rinsavire, e nel XXX del Purgatorio proprio questa sordità gli rinfaccia, come farebbe una “madre al figlio” (Purg XXX, 79-80). Per lui ha sconfinato e visitato l’inferno, “l’uscio d’i morti” (Purg. XXX, 124- 39), ma solo per un attimo, poiché il Bene non può incontrare il Male: “Non è possibile, non è possibile che la mamma stia qui! … Non possono stare insieme!”… “Yò aqui no fado più nada con tua madre presente” (Sei 80).
Anche la Madre pirandelliana, dunque, senza incontrare la megera, lascia le sue “vestige” (Par. XXXI, 80-81) irrompendo nel retrobottega di Madama Pace, una Madre- Marzia che incarna l’anima intellettiva dantesca amata da Dio: anima tornata alla sua casa divina dopo aver dato i suoi frutti, come ogni madre, come la Vergine Maria. E come Beatrice, figura anche materna nell’immaginario di Dante, che in extremis irrompe per qualche istante nel rovescio del mondo per scongiurare l’oscenità della perdizione.
Sarà per questo che il Padre per lei suggerisce il nome “Amalia” (Sei 72)? A-malia, che un alfa privativo rende nemica del Male.
La vis metamorfica
Il quasi incesto tra il Padre e la Figliastra (“Eh, ma siamo stati proprio lì lì, sai!” 53), cioè la flagrante perdita di ogni luce di umanità, è ricostruita da Pirandello con la morbosa attenzione a dettagli oggettuali di ascendenza dantesca e infernale. Il Padre porta con sé l’irriducibile ambiguità dell’Uticense: egli è pater familias, modello e produttore di regole giuste, ma è anche deviante, incline a cedere al richiamo delle “viziose delettazioni” (Convivio, I, 1, 3): l’eros consumistico, il denaro, l’imposizione violenta del potere. Con Dante, potremmo insomma dire che questo Padre bifronte ha la “faccia d’uom giusto … e d’un serpente tutto l’altro fusto” (Inf. XVII, 10-12) come Gerione, demone che si materializza nel canto dedicato agli usurai e, più in generale, al faticoso rapporto tra figli idealisti e padri di mondo. Nel “retrobottega,” tana del Maligno, il Padre mostra dunque il suo volto osceno, lì “condotto dalla miseria della sua carne ancora viva” (60).
L’incontro con la Figliastra è il misfatto di un uomo che cede alla lussuria, con dialoghi intarsiati di orrori danteschi, a cominciare dallo scambio di battute sul cappellino, per finire ai “cappellini posati per un momento su questi attaccapanni” (76).
Questi cappellini, tanto insistiti, hanno infatti un certo sentore cruento di Antenora, la regione infernale dove Dante scorge Ugolino addentare la nuca dell’Arcivescovo Ruggieri: “due ghiacciati in una buca, / sì che l’un capo a l’altro era cappello” (Inf. XXXIII, 125-26): “Ma su una bella, cara testolina come la sua, vorrei che figurasse un più degno cappellino. Vorrà ajutarmi a sceglierne qualcuno, poi, qua tra questi di Madama?” (Sei 82).
Con questo sentore, il retrobottega di Madama Pace diventa un luogo di dannati assiepati uno sull’altro come “tanti cappellini” sui ganci di “tanti attaccapanni” (76), come i brandelli sanguinosi infilzati agli uncini con cui i demoni addentano la “carne” dei barattieri (Inf. XXVII, 56-57) e la rituffano nella pegola di pece bollente.
Seguendo l’attitudine dantesca a oggettivare dimensioni interiori, allude all’ipocrisia e al tradimento anche il “mantello” che il Padre chiede con insistenza alle attrici. I “Manteaux” evocano infatti il “faticoso manto” (Inf. XXIII, 23) di piombo rivestito d’oro che “l’ipocriti tristi” (Inf. XXIII, 92) trascinano lenti, ma anche il barattiere uncinato e sollevato come una “lontra” (Inf. XXII, 36), o quello scuoiato dal demone Rubicante pazzo (Inf., XXXII 40-41).
L’apice della tensione arriva però con la scena dell’abbraccio. La Figliastra vuole a tutti i costi recitarla con le braccia nude perché, guarda caso, in quell’istante si vede “pulsare qui, nel braccio qui, una vena” (Sei 93). La stessa immagine che Dante sceglie per esprimere lo stato di estrema prostrazione spirituale in cui la lupa lo precipita: “ella mi fa tremar le vene e i polsi” (Inf. I, 88-90).
È difficile sottrarsi, dunque, all’avvertimento di un continuo gioco linguistico di metamorfosi umoristica che Pirandello ingaggia con il linguaggio espressionistico dantesco, un gioco che arriva spesso al segreto autocompiacimento (“ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo” (Sei 40).
Ma la deformazione metamorfica del sostrato dantesco diventa in un paio di casi perfino gustosa: nell’uscita della Figliastra “Si dissuga, signore, si dissuga tutto!” (102), eco del famoso “suco” con cui si apre la Caina; “S’io avessi le rime aspre e chiocce … io premerei di mio concetto il suco / più pienamente” (Inf. XXXII, 1-5); ma anche nei “baffetti folti quasi acchiocciolati” del Padre (Sei 42), che di quelle rime chiocce sembrano parenti stretti; con l’aggiunta magari di una sfumatura lussuriosa, non per nulla anche Angelo Moscarda, ancora soggiogato dal fascino erotico della moglie, è “mogio, mogio, rinchioccito tra le gonnelle di Dida” (Uno, nessuno e centomila 86).
Assumendo la lettura allegorica del Convivio, Pirandello sembra aver declinato nelle tre figure femminili dei Sei, i possibili destini dell’anima aristotelica; e nelle tre maschili, l’actio mondana di figure allegoriche che danno corpo e sangue alle tre “etadi” esistenziali di Dante, rappresentazioni in cui “literal and allegorical, dramatic and philosophical, coesist” (Ascoli, Mirror and Veil 40), sposando armonicamente “senso della vita “ e “valore universale” (Prefazione ai Sei Personaggi, 21). Così la Bambina allegorizza l’anima vegetativa (Convivio, IV, 7, 14) del Giovinetto suicida, anzitempo an-negata nel giardino-selva dei suicidi; la Figliastra incarna l’anima sensitiva del vizioso Padre, lui allegoria dell’inutile “rimorso” (Sei 41), lei anima dalle “troppe incontinenze!” (101), allegoria della “vendetta” (41) che si abbatte su chi ha fallato sia pure una sola volta, risucchiato dalla lonza nella tana del Maligno; e infine la Madre incarna l’anima intellettiva che in quella tana fa irruzione come Beatrice nell’Inferno, “allegoria del dolore” per l’anima che si perde, come Marzia in casa di Catone, Madre casta che delle nozze esige “lo nome solo del maritaggio” (Convivio, IV, 28, 17), “nomen inane conubii” (Farsaglia, II, 342-43), in cui Dante vede l’anima che torna al suo Fattore, “umile e alta” come la Vergine eccelsa (Par. XXXIII, 2).
Dopo l’ultima pagina
Pirandello accoglie il retaggio forse più moderno di Dante, poeta “della dissociazione tutta novecentesca tra soggetto che esperisce e soggetto che – scrivendo – giudica quell’esperienza” (Grignani 70). Ma la sua attitudine nei confronti di Dante sembra andare ben oltre le modalità di assimilazione esplorate da Barański (The Power of Influence), e ben oltre le intertestualità dantesche nutrite dai grandi letterati di tutti tempi. Dante brilla piuttosto come sorgente primigenia cui Pirandello aderisce artisticamente per una profonda affinità elettiva di natura stilistica e poetica, fin quasi all’identificazione.
In Sei personaggi in cerca d’autore Pirandello sembra insomma scomporre e drammatizzare non un evento umano qualunque bensì l’evento Dante, ne personifica le diverse istanze, dà volto alle età e alle stagioni dell’animo suo, e ai diversi destini spirituali rappresentati nella Commedia. E in questa operazione egli legge Dante da autentico dantista.
Ma a questo punto del discorso, senza taccia d’irriverenza, s’impone un’ultima domanda. La pagina del Convivio che legge allegoricamente la vicenda di Catone e Marzia, è l’ultima pagina del trattato che Dante interrompe per dedicarsi alla stesura della Commedia. È credibile che un simile dettaglio sia sfuggito a uno come Pirandello? O esiste la possibilità che egli in quest’ultima pagina dantesca su Catone e Marzia abbia visto la premonizione di una “commedia da fare” (Sei 46), una grandiosa opera capace di contenere l’epopea di un’anima riconquistata a Dio dopo periglioso traviamento? È possibile, insomma, che Pirandello abbia indovinato in quell’ultima pagina del Convivio la primissima avvisaglia di una “commedia nuova?”
Se così fosse, i Sei personaggi sarebbero questa “commedia da fare,” un’opera in cui Pirandello ha inteso mettere in scena proprio quel momento: il momento umbratile in cui Dante, innanzi all’ultima pagina del Convivio appena scritta, “nella malinconia di quel suo scrittojo,” concepisce la sua divina “commedia da fare,” “abbandonato su una poltrona,” senza “girare la chiavetta della luce”- dettaglio più trecentesco che novecentesco – affinché l’“ombra brulicasse” (Sei 100) di quei personaggi rimasti poi allo stato embrionale.
E allora è possibile che “i personaggi d’un romanzo usciti per prodigio dalle pagine del libro che li conteneva” (Prefazione ai Sei 21), siano proprio usciti dal libro del Convivio, e abbiano assediato Pirandello con la tentazione di “figurare da autore,” di vestire i panni del Capocomico-poeta, i panni di Dante stesso, luminoso “maestro” e insostituibile (Ascoli, Dante and Making 301) “autore” (Inf. I, 85) di una divina “commedia da fare” (Sei 2).
Non in una “camera” sacra come quella che chiude il Convivio. Diciamo piuttosto, con uno dei tremendi diminutivi danteschi che Pirandello ama tanto, in un “camerino” (Sei 66):
IL PADRE: Vedrà che scene verranno fuori!
IL CAPOCOMICO: Mi tenta… Mi tenta. Proviamo un po’. Venga qua con me nel camerino.
…
L’ATTRICE GIOVANE: La vanità! La vanità di figurare da autore…” (66-67)
MICHELA MASTRODONATO,
DOTTORE DI RICERCA
SORBONNE UNIVERSITÉ, PARIGI
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