145. La cattura – Novella

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Prima pubblicazione: Aprutium, 1918 (numero straordinario dedicato alle Armate di Terra, di Cielo e di Mare, senza indicazione di mese).
«S’insinuava livida, quella luce, appena appena, di tra gli anfratti cretosi della grotta e gli alleviava l’incubo delle violenze sofferte, che ora gli apparivano come sognate: violenze cieche, da bruti, al suo corpo che non si reggeva più, caricato su le spalle ora dell’uno ora dell’altro, buttato a terra e trascinato o sollevato per le mani e per i piedi.»

Novella dalla Raccolta “La giara” (1928)

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La cattura
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La cattura – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
La cattura – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
La cattura – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
La cattura – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri

2. La cattura – 1918

             Il Guarnotta seguiva col corpo ciondolante l’andatura dell’asinella, come se camminasse anche lui; e per poco veramente le gambe, coi piedi fuori delle staffe, non gli strisciavano sulla polvere dello stradone.

             Ritornava, come tutti i giorni a quell’ora, dal suo podere quasi affacciato sul mare, all’orlo dell’altipiano. Più stanca e più triste di lui, la vecchia asinella s’affannava da un pezzo a superare le ultime pettate di quello stradone interminabile, tutto a volte e risvolte, attorno al colle, in cima al quale pareva s’addossassero fitte, una sull’altra, le decrepite case della cittaduzza.

             A quell’ora i contadini erano ritornati tutti dalla campagna; lo stradone era deserto. Se qualcuno ancora se ne incontrava, il Guarnotta era sicuro di riceverne il saluto. Perché tutti, grazie a Dio, lo rispettavano.

             Deserto ormai come quello stradone era ai suoi occhi tutto il mondo; e di cenere come quell’aria della prima sera, la sua vita. I rami degli alberi sporgenti senza foglie dai muretti di cinta screpolati, le alte siepi di fichi d’India polverose e, qua e là, i mucchi di brecciale che nessuno pensava di stendere su quello stradone tutto solchi e fosse, se il Guarnotta li guardava, in quella loro immobilità e in quel silenzio e in quell’abbandono, gli parevano oppressi come lui da una vana pena infinita. E a crescere questo senso di vanità, come se il silenzio si fosse fatto polvere, non si sentiva neanche il rumore dei quattro zoccoli dell’asinella.

             Quanta di quella polvere dello stradone non si portava a casa ogni sera il Guarnotta! La moglie, tenendo la giacca sospesa e discosta, appena egli se la levava, la mostrava in giro alle seggiole, all’armadio, al letto, al cassettone, come per darsi uno sfogo:

             – Guardate, guardate qua! Ci si può scrivere sopra, col dito.

             Si fosse lasciato persuadere almeno a non portare l’abito nero, di panno, per la campagna! Gliene aveva ordinati tre – apposta, – tre – di fustagno.

             In maniche di camicia, il Guarnotta, quelle tre dita tozze che la moglie veniva a cacciargli, nel gesto rabbioso, quasi negli occhi, gliele avrebbe volentieri addentate. Cane pacifico, si contentava di lanciarle di traverso un’occhiataccia e la lasciava cantare. Quindici anni addietro, alla morte dell’unico figlio, aveva giurato d’andar vestito sempre di nero. Dunque…

             – Ma anche per la campagna? Ti faccio mettere il lutto al braccio negli abiti di fustagno. E basterebbe la cravatta nera, ormai, dopo quindici anni!

             La lasciava cantare. Non se ne stava forse tutto il santo giorno in quel suo podere al mare? In paese, non si faceva più vedere da nessuno, da anni. – Dunque…

             – Che dunque?

             Ma dunque, se non lo portava in campagna, dove lo avrebbe portato il lutto per il figliuolo? – Corpo di Dio, riflettere un poco almeno, prima d’aprir bocca e lasciare andare. – Nel cuore, sì: grazie tante! E che non lo portava nel cuore? Ma voleva si vedesse anche fuori… – Che lo vedessero gli alberi, già! o gli uccellini dell’aria; perché, infatti, occhi per vederselo addosso, lui, non ne aveva. E perché poi brontolava tanto la moglie? Doveva forse batterlo e spazzolarlo lei, quell’abito, ogni sera? C’erano le serve. Tre, per due persone sole. Economia? Un abito nero all’anno: ottanta, novanta lire. Eh via! Avrebbe dovuto capire, che non le conveniva far tanti discorsi. Seconda moglie! E il figlio morto era del primo letto! Senz’altri parenti, neppur lontani, alla sua morte, tutto il suo (che non era poco) sarebbe andato a lei e ai suoi nipoti. Zitta, dunque: almeno per prudenza… Ma già, sì! se avesse capito questo, non sarebbe stata quella buona donna che era…

             Ed ecco perché lui se ne stava tutto il giorno in campagna. Solo, tra gli alberi e con la distesa sterminata del mare sotto gli occhi, come da un’infinita lontananza, nel fruscio lungo e lieve di quegli alberi, nel borboglio cupo e lento di quel mare s’era abituato a sentire la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita.

             Era giunto ormai a meno d’un chilometro dal paese. Dalla chiesetta dell’Addolorata su in cima gli arrivavano lenti e blandi i rintocchi dell’Avemaria, allorché, d’improvviso, a una brusca svoltata dello stradone:

             – Faccia a terra!

             E dall’ombra si vide saltare addosso tre appostati, con la faccia bendata, armati di fucile. Uno abbrancò l’asina per la cavezza; gli altri due, in un batter d’occhio, lo strapparono di sella, giù a terra; e mentre uno con un ginocchio su le gambe gli legava i polsi, l’altro gli annodava dietro la nuca un fazzoletto ripiegato a fascia, passato sopra gli occhi.

             Ebbe appena il tempo di dire:

             – Figliuoli, a me?

             Fu tirato su, spinto, strappato, trascinato di furia per le braccia, fuori dello stradone, giù per la costa petrosa, verso la vallata.

             –    Figliuoli…

             –    Zitto, o sei morto!

             Più delle spinte e degli strappi, l’ansito, l’ansito di quei tre per la violenza che commettevano, gì’incuteva terrore. Per avere quell’ansito di belve, doveva esser tremendo ciò che s’erano proposto di fare sopra di lui.

             Ma ucciderlo, almeno subito, forse non volevano. Se per mandato o per vendetta, lo avrebbero ucciso là, su lo stradone, dall’ombra dove si tenevano appostati. Dunque, lo catturavano, per ricatto.

             – Figliuoli…

             Stringendogli più forte le braccia e scrollandolo, gì’intimarono di nuovo di tacere.

             –    Ma almeno allentatemi un po’ la benda! Mi serra troppo gli occhi… non posso…

             –    Cammina!

             Prima giù, poi su, e avanti, e indietro; poi giù di nuovo, e poi di nuovo su e su e su. Dove lo trascinavano?

             Nel subbuglio di pensieri e di sentimenti, tra il guizzare d’immagini sinistre e l’affanno di quella corsa cieca, a sbalzi, a spintoni, tra sassi, sterpi (che stranezza!) i lumi, i primi lumi accesi nella cittaduzza ancora illuminata a petrolio, su in cima al colle – lumi delle case, lumi delle strade – come li aveva intraveduti prima che lo assaltassero e come tante volte, ritornando dal podere sempre a quell’ora li aveva intraveduti, ecco, nella strettura di quella benda che gli schiacciava gli occhi, gli apparivano (che stranezza!) precisi, proprio come se li avesse davanti e avesse gli occhi liberi. Andava, così trascinato, strappato, incespicando, con tanto terrore dentro, e se li portava, quei lumetti placidi e tristi, davanti, con sé, con tutto il colle, con tutta la cittaduzza situata lassù, dove nessuno sapeva la violenza che in quel momento si faceva a lui, e tutti attendevano quieti e sicuri ai loro casi consueti.

             A un certo punto avvertì anche l’affrettato zoccolare della sua asinella.

             – Ah!

             Trascinavano via anche la sua vecchia asinella stanca. Ma che ne capiva, povera bestiola? Avvertiva forse una furia insolita, un’insolita violenza, ma andava dove la portavano, senza capir nulla. Se si fossero fermati un momento, se l’avessero lasciato parlare, avrebbe detto loro con calma, ch’era pronto a dare tutto quello che volevano. Poco più gli restava da vivere, e non valeva proprio la pena per un po’ di danaro – di quel danaro che non gli dava più nessuna gioja – passare un momento come quello.

             –    Figliuoli…

             –    Zitto, cammina!

             –    Ma non ne posso più! Perché mi fate questo? Sono pronto…

             –    Zitto! Parleremo poi… Cammina!

             Lo fecero camminare, così, un’eternità. A un certo punto, fu tanta la stanchezza, tanto lo stordimento di quel fazzoletto che gli serrava la testa, che si sentì mancare e non comprese più nulla.

             Si ritrovò, la mattina appresso, in una grotta bassa, come disfatto in un tanfo di mucido che pareva spirasse dallo stesso squallore della prima luce del giorno.

             S’insinuava livida, quella luce, appena appena, di tra gli anfratti cretosi della grotta e gli alleviava l’incubo delle violenze sofferte, che ora gli apparivano come sognate: violenze cieche, da bruti, al suo corpo che non si reggeva più, caricato su le spalle ora dell’uno ora dell’altro, buttato a terra e trascinato o sollevato per le mani e per i piedi.

             Dov’era adesso?

             Tese l’orecchio. Gli parve che fosse fuori un silenzio d’altura. E per un momento vi si sentì come sospeso. Ma non poteva muoversi. Giaceva per terra come una bestia morta, mani e piedi legati. E le membra gli pesavano quasi gli fossero diventate di piombo; e anche la testa. Era ferito? Lo avevano lasciato lì per morto?

             No: ecco, confabulavano fuori della grotta. La sua sorte non era dunque decisa. Ma il ricordo di ciò che gli era accaduto gli si rappresentava ora, non già come d’una sciagura che gì’incombesse tuttavia e che gli suscitasse dentro qualche moto per tentare di liberarsene. No. Sapeva di non potere e quasi non voleva. La sciagura era compiuta, come avvenuta da gran tempo, quasi in un’altra vita, in una vita che forse gli sarebbe premuto di salvare, quando ancora le membra non gli pesavano così e non gli doleva tanto la testa. Ora non gl’importava più di nulla. Quella vita – pur essa miserabile – l’aveva lasciata laggiù, lontano lontano, dove lo avevano catturato: e qua ora c’era questo silenzio, così alto e vano, così smemorato.

             Quand’anche lo avessero lasciato andare, non avrebbe avuto più la forza, fors’anche neppure il desiderio di tornare laggiù a riprendersela, quella sua vita.

             Ma no, ecco: una gran tenerezza, di pietà per sé, gli risorse a un tratto e gli s’arruffò tutta dentro come in un brivido d’orrore, appena vide entrare uno di quei tre, carponi nella grotta, col viso nascosto da un fazzoletto rosso, forato all’altezza degli occhi. Gli guardò subito le mani. No, nessun’arma. Una matita nuova, di quelle da un soldo, non ancora temperata. E nell’altra mano, per terra, un rozzo foglietto di carta da lettere tutto brancicato, con la busta in mezzo. Alleggerito, senza volerlo, sorrise; mentre nella grotta entravano gli altri due, anch’essi carponi e bendati. Uno gli s’appressò e gli sciolse le mani soltanto. Il primo disse:

             – Giudizio! Scrivete!

             Gli parve di riconoscerlo alla voce. Ma sì, Manuzza; detto così perché aveva un braccio più corto dell’altro. Oh, e allora… Ma era proprio lui? Gli guardò il braccio manco. Lui, sì. E certo anche gli altri due avrebbe riconosciuti subito, se si fossero tolta la benda. Conosceva tutta la cittadinanza. Disse allora:

             – Io, giudizio? Giudizio voi, figliuoli! A chi volete che scriva? Con che debbo scrivere? con questa?

             E mostrò la matita.

             –    Perché? Non è matita?

             –    Matita, sì. Ma voi non sapete neppure come s’adopera.

             –    Perché?

             –    Ma bisognerà prima temperarla.

             –    Temperarla?

             –    Con un temperino, già, qua in punta…

             –    Temperino, niente! E Manuzza ripetè:

             –    Giudizio! giudizio, sacramento!

             –    Giudizio, sì, Manuzza mio…

             –    Ah, – gridò questi. – M’avete riconosciuto?

             –    Abbi pazienza, ti nascondi la faccia e lasci scoperto il braccio? Levati codesto fazzoletto e guardami negli occhi. Fai questo, a me?

             –    Senza tante chiacchiere, – gridò Manuzza, strappandosi con ira il fazzoletto dalla faccia. – V’ho detto giudizio! Scrivete, o v’ammazzo!

             –    Ma sì, sono pronto, – si rimise il Guarnotta. – Quand’avrete temperato la matita. Però, se mi lasciate dire… Volete danari, è vero, figliuoli? Quanto?

             –    Tre mila onze!

             –    Tre mila? Non volete poco.

             –    Voi ce l’avete! Non facciamo storie!

             –    Tre mila onze?

             –    Più! più!

             –    Anche più, sì. Ma non a casa, in contanti. Dovrei vendere case, terre. E vi pare che si possa, così, da un giorno all’altro, e senza me?

             –    Vuol dire che se le faranno prestare! – Chi?

             –    Vostra moglie e i vostri nipoti!

             Il Guarnotta sorrise amaramente e provò a rizzarsi su un gomito.

             –    Volevo dirvi questo, appunto, – rispose. – Figliuoli miei, avete sbagliato. Contate su mia moglie e sui suoi nipoti? Se volete ammazzarmi, è un conto: sono qua: ammazzatemi, e non se ne parli più. Ma se volete danari, non potete averli che da me, e a patto di lasciarmi andare a casa.

             –    Che dite? a casa? Voi? Fossimo matti! Scherzate!

             –    E allora… – sospirò il Guarnotta.

             Manuzza strappò di mano rabbiosamente il foglietto da lettere al compagno e ripetè:

             – Senza tante chiacchiere, v’ho detto, scrivete! La matita… Ah già, bisogna temperarla..^ Come si tempera?

             Il Guarnotta spiegò come; e i tre allora, dopo essersi guardati negli occhi, uscirono dalla grotta. Nel vederli uscire, così carponi, come tre bestie, non poté fare a meno di sorridere ancora una volta, il Guarnotta. Pensò che ora di là si sarebbero messi in tre a temperare quella matita, e che forse, a furia di potarla come un ramo d’albero, non ne sarebbero venuti a capo. Già, ma lui ne sorrideva, e forse la sua vita in quel punto dipendeva dalla ridicola difficoltà che quei tre incontravano in quell’operazione per loro nuova: forse, stizziti di vedersi mancare in mano la matita a pezzo a pezzo, sarebbero rientrati a fargli la prova che se i loro coltelli non erano buoni da temperare una matita, erano però buoni da scannarlo. E aveva fatto male, un errore imperdonabile aveva commesso a dichiarare a quel Manuzza d’averlo riconosciuto. – Ecco: si bisticciavano di là, sbuffavano, bestemmiavano… Certo, si passavano dall’uno all’altro quella povera matita da un soldo sempre più corta. Chi sa che coltelli avevano in mano, in quelle loro manacce scabre e cretose. Eccoli che rientravano a uno a uno, sconfitti.

             –    Legno lasco, – disse Manuzza. – Una schifezza! Voi che sapete scrivere non ce n’avreste in tasca un’altra bell’e temperata, per combinazione?

             –    Non ce l’ho, figliuoli, – rispose il Guarnotta. – Ma è inutile, v’assicuro. Avrei scritto, se mi davate da scrivere; ma a chi? A mia moglie e a quei nipoti? Quei nipoti sono suoi e non miei, capite? E nessuno avrebbe risposto, siatene pur certi; avrebbero finto di non aver ricevuto la lettera minatoria, e addio. Se volete danari da loro, non dovevate buttarvi in prima su me: dovevate invece andare da loro e accordarvi: tanto – poniamo mille onze – per ammazzarmi. Non ve l’avrebbero date nemmeno; perché la mia morte, la desiderano sì, ma sono vecchio; se la aspettano dunque da Dio gratis e senza rimorsi, tra quattro giorni. Pretendete sul serio che vi diano un centesimo, un solo centesimo, per la mia vita? Avete sbagliato. La mia vita a me soltanto può premere. Non mi preme, ve lo giuro; ma certo, morire così, di mala morte, non mi piacerebbe; e solo per non morire così, vi prometto e giuro su la sant’anima di mio figlio che appena posso, fra due, tre giorni, verrò io stesso a portarvi il danaro al posto che m’indicherete.

             –    Dopo averci denunziato?

             –    Vi giuro di no! Vi giuro che non fiaterò con nessuno! Si tratta della vita!

             –    Ora. Ma quando sarete libero? Prima di andare a casa, andrete a fare la denunzia.

             –    Vi giuro di no! Certo, dovete aver fiducia. Pensate ch’io vado ogni giorno in campagna. La mia vita è là, tra voi; e io sono stato sempre come un padre per voi. Mi avete sempre rispettato, santo Dio, e ora… Pensate che vorrei espormi al rischio d’una vendetta? Abbiate fiducia, lasciatemi ritornare a casa e state sicuri che avrete il danaro…

             Non risposero più. Tornarono a guardarsi negli occhi, e uscirono di nuovo dalla grotta, carponi.

             Per tutta la giornata non li rivide più. Li udì un pezzo, dapprima, discutere fuori della grotta; poi non udì più nulla.

             Aspettò, rivolgendo in mente tutte le supposizioni intorno a ciò che avessero potuto decidere. Gli parve certo questo: ch’era caduto in mano di tre stupidi, novizii, forse, anzi senza dubbio al loro primo delitto.

             Ci s’erano buttati come ciechi, senza considerare prima le sue condizioni di famiglia; solo pensando ai suoi danari. Ora, convinti dello sbaglio commesso, non sapevano più, o non vedevano ancora, come cavarsene. Del giuramento che non sarebbero stati denunziati, nessuno dei tre si sarebbe fidato; meno di tutti Manuzza ch’era stato riconosciuto. E allora?

             Allora, non gli restava da augurarsi altro, che a nessuno dei tre sorgesse il pentimento dello stupido atto compiuto invano, e insieme il desiderio di cancellarlo per rimettersi sulla buona via; che tutti e tre, invece, risoluti a vivere fuori d’ogni legge, a commettere altri delitti, non dovessero intanto curarsi di cancellare ogni traccia di questo primo e di gravarsene inutilmente la coscienza. Perché, riconosciuto lo sbaglio e risoluti a restare tre birbaccioni al bando, potevano fargli salva la vita e lasciarlo andare senza curarsi della denunzia; ma, se volevano ritornare sulla buona via, pentiti, allora per forza, a impedire la denunzia di cui si tenevano certi, dovevano assassinarlo.

             Ne seguiva, che Dio doveva dunque ajutarlo ad aprir loro la mente; perché riconoscessero che nessun profitto si ricava a voler restare galantuomini. Cosa non difficile con loro, visto che la buona intenzione di gettarsi alla perdizione l’avevano dimostrata, catturandolo. Ma c’era da temere pur troppo del disinganno che avevano dovuto provare così a prima giunta, toccando con mano il grosso sbaglio commesso appena incamminati sulla nuova via. E fa presto un disinganno a cangiarsi in pentimento e in voglia di ritrarsi da un cammino che cominci male. Per tirarsene indietro, cancellandovi ogni orma dei primi passi, la logica, sì, portava a commettere un delitto; ma, a volerlo scansare, la stessa logica non li avrebbe portati ad avventurarsi per quel cammino in cerca d’altri delitti? E allora, meglio quest’uno qua a principio, che poteva restar nascosto e senza traccia, che tanti là allo scoperto e allo sbaraglio. A costo di quest’uno, potevano avere ancora speranza di salvarsi, se non di fronte alla loro coscienza, di fronte agli uomini; a volerlo scansare, si sarebbero certo perduti.

             Conclusione di queste tormentose riflessioni: la certezza che oggi o domani, forse quella notte stessa, nel sonno, lo avrebbero assassinato.

             Attese, fino a tanto che nella grotta non si fece bujo.

             Allora, al pensiero che quel silenzio, e la stanchezza potessero su lui più della paura di cedere al sonno, sentì dalla testa ai piedi un fremito di tutto il suo istinto bestiale che lo spingeva, pur così con le mani e i piedi ancora legati, a uscir fuori della grotta a forza di gomiti, strisciando come un verme per terra; e dovette penar tanto a persuadere a quel suo istinto atterrito di fare quanto meno rumore fosse possibile; perché poi, tanto, che sperava sporgendo il capo come una lucertola fuori della tana? Niente! vedere il cielo almeno, e vederla lì fuori, all’aperto, con gli occhi, la morte, senza che gli fosse inflitta a tradimento nel sonno. Questo, almeno.

             Ah, ecco… Zitto! Era lume di luna? Luna nuova, sì, e tante stelle… Che serata! Dov’era? Su una montagna… Che aria e che altro silenzio! Forse era il monte Caltafaraci, quello, o il San Benedetto… E allora, quello là? Il piano di Consòlida, o il piano di Clerici? Sì, e quella là verso ponente doveva essere la montagna di Carapezza. Ma allora quei lumetti là, esitanti, come sprazzi di lucciole nella chiaria opalina della luna? Quelli di Girgenti? Ma dunque… oh Dio, dunque era proprio vicino? E gli pareva che lo avessero fatto camminare tanto… tanto…

             Allungò lo sguardo intorno, quasi gì’incutesse paura la speranza che quelli lo avessero lasciato lì e se ne fossero andati.

             Nero, immobile, accoccolato come un grosso gufo su un greppo cretoso della montagna, uno dei tre, rimasto a guardia, si stagliava preciso nella chiara soffusione dell’albor lunare. Dormiva?

             Fece per sporgersi un po’, ma subito lo sforzo gli s’allentò nelle braccia alla voce di colui, che, senza scomporsi, gli diceva:

             – Vi sto guardando, don Vice! Rientrate, o vi sparo.

             Non fiatò, come se volesse far nascere in colui il dubbio d’essersi ingannato, rimase lì quatto a spiare. Ma colui ripetè:

             –    Vi sto guardando.

             –    Lasciami prendere una boccata d’aria, – gli disse allora. – Qua si soffoca. Mi volete lasciare così? Ho sete.

             Colui si scrollò minacciosamente:

             – Oh! se volete restare costì, dev’essere a patto di non fiatare. Ho sete anch’io e sono digiuno come voi. Silenzio, o vi faccio rientrare.

             Silenzio. E quella luna che rivelava tanta vista di tranquilli piani e di monti…

             e il sollievo di tutta quell’aria, almeno… e il sospiro lontano di quei lumetti là del suo paese…

             Ma dov’erano andati gli altri due? Avevano lasciato a questo terzo l’incarico d’ucciderlo durante la notte? E perché non subito? Che aspettava colui? Aspettava forse nella notte il ritorno degli altri due?

             Fu di nuovo tentato di parlare, ma si trattenne. Tanto, se avevano deciso così…

             Volse gli occhi al greppo dove colui stava seduto: lo vide ricomposto nel primo atteggiamento. Chi era? Alla voce, poc’anzi, gli era parso uno di Grotte, grosso borgo tra le zolfare. Che fosse Fillicò? Possibile? Buon uomo, tutto d’un pezzo, bestia da lavoro, di poche parole… Se era lui veramente, guaj! Così taciturno e duro, se era riuscito a smuoversi dalla bontà, guaj.

             Non potè più reggere; e, con una voce quasi involontaria, vuota d’ogni intenzione, quasi dovesse arrivare a colui come non proferita dalla sua bocca, disse senza domandare:

             – Fillicò…

             Colui non si mosse.

             Il Guarnotta attese un pezzo e ripeté con la stessa voce, come se non fosse lui, con gli occhi intenti a un dito che faceva segni sulla rena:

             – Fillicò…

             E un brivido, questa volta, gli corse la schiena perché s’immaginò che questa sua ostinazione, di proferire il nome quasi senza volerlo, dovesse costargli, di rimando, una schioppettata.

             Ma neanche questa volta colui si mosse; e allora egli esalò in un sospiro d’estrema stanchezza tutto l’orgasmo della disperazione e abbandonò per terra il peso morto della testa come se veramente non avesse più forza né voglia di sorreggerlo. Lì, con la faccia nella rena, con la rena che gli entrava nella bocca come a una bestia morta, senza più curarsi del divieto che colui gli aveva fatto di parlare, né della minaccia d’una schioppettata, si mise allora a parlare, a farneticare senza fine. Parlò della bella luna che ora, addio, sarebbe tramontata; parlò delle stelle che Dio aveva fatto e messo così lontane perché le bestie non sapessero ch’erano tanti mondi più grandi assai della terra; e parlò della terra che soltanto le bestie non sanno che gira come una trottola e disse, come per uno sfogo personale, che in questo momento ci sono uomini che stanno a testa all’ingiù e pure non precipitano nel cielo per ragioni che ogni cristiano che non sia più creta della creta, cretaccia ma proprio di quella vile su cui Dio santo ancora non ha soffiato, dovrebbe almeno curarsi di sapere.

             E in mezzo a questo farnetichio si ritrovò d’improvviso che parlava davvero d’astronomia come un professore a colui che, a poco a poco, gli s’era accostato, ch’era anzi venuto a sederglisi accanto, lì presso l’entrata della grotta, e ch’era proprio lui, sì, Fillicò di Grotte, che le voleva sapere da tanto tempo quelle cose, benché non se ne persuadesse bene e non gli paressero vere: lo zodiaco… la via lattea… le nebulose…

             Già. Così. Ma perché quando uno non ne può più, che le ha proprio esaurite tutte nella disperazione le sue forze, altro che questo gli può avvenire di buffo! si può mettere come niente, anche sotto la mira di un fucile, a nettarsi le unghie attentamente con un fuscellino, badando che non si spezzi e non si pieghi, o a tastarsi in bocca, sissignori, i denti che gli sono rimasti, tre incisivi e un canino solo; e sissignori, a pensare seriamente se sono tre o quattro i figliuoli del bottajo, suo vicino di casa, a cui da quindici giorni è morta la moglie.

             – Parliamo sul serio. Ma dimmi un po’: che ti pare che sono, per la Madonna, un filo d’erba?… questo filo d’erba qua che si strappa così, come niente? Toccami! Di carne sono, per la Madonna! e un’anima ho, che me l’ha data Dio come a te! Che mi volete scannare mentre dormo? No… sta’ qua… senti… te ne vai? Ah, finché ti parlavo delle stelle… Senti che ti dico: scannami qua a occhi aperti, non mi scannare a tradimento nel sonno… Che dici? Non vuoi rispondere? Ma che aspetti? Che aspettate, si può sapere? Denari, non ne avrete; tenermi qua, non potrete; lasciarmi andare, non volete… Volete ammazzarmi? E ammazzami, corpo di Dio, e non se ne parli più!

             A chi diceva? Quello era già andato a riaccoccolarsi sul greppo come un gufo, per dimostrargli che di questo – era inutile – non voleva sentir parlare.

             Ma dopo tutto, che bestia anche lui! Non era meglio che lo uccidessero nel sonno, se dovevano ucciderlo? Anzi, più tardi, se ancora non si fosse addormentato, sentendoli entrare carponi nella grotta, avrebbe chiuso gli occhi per fingere di dormire. Ma già, che occhi! al bujo, poteva anche tenerli aperti. Bastava che non si movesse, quando sarebbero venuti a cercargli la gola, a tasto, come a un pecore

             Disse:

             – Buona notte. E si ritrasse.

             Ma non lo uccisero.

             Riconosciuto lo sbaglio, né liberare lo vollero e neppure uccidere. Lo tennero lì.

             Ma come, per sempre?

             Finché Dio avrebbe voluto. Si rimettevano a Lui: presto o tardi, a seconda che Egli avrebbe voluto fare più o meno lunga la penitenza per lo sbaglio d’averlo catturato.

             O che intendevano insomma? che egli morisse da sé, lassù, di morte naturale? Intendevano questo?

             Questo, sì.

             –   Ma che Dio e Dio, allora! Pezzi d’animali, non m’ucciderà mica Dio, m’ucciderete voi così, tenendomi qua, morto di fame, di sete, di freddo, legato come una bestia, in questa grotta, a dormire per terra, a fare per terra qua stesso, come una bestia, i miei bisogni!

             A chi diceva? S’erano rimessi a Dio, tutti e tre; e come se parlasse alle pietre.

             Intanto, morto di fame, non era vero; dormire per terra, non era vero. Gli avevano portato lassù tre fasci di paglia per fargliene una lettiera, e anche un loro vecchio cappotto d’albagio, perché si riparasse dal freddo. Poi, pane e companatico ogni giorno. Se lo levavano di bocca, lo levavano di bocca alle loro creature e alle loro mogli per darlo a lui. E pane faticato col sudore della fronte, perché uno, a turno, restava lì di guardia, e gli altri due andavano a lavorare. E in quello ziretto là di terracotta c’era acqua da bere, che Dio solo sapeva che pena a trovarla per quelle terre assetate. Quanto poi a far lì per terra i suoi bisogni, poteva uscire dalla grotta, la sera, e farli all’aperto.

             –    Ma come? davanti a te?

             –    Fate. Non vi guardo.

             Di fronte a quella durezza stupida e irremovibile si sarebbe messo a pestare i piedi come un bambino. Ma che erano, macigni? che erano?

             –    Riconoscete d’avere sbagliato, sì o no? Lo riconoscevano.

             –    Riconoscete di doverlo scontare, questo sbaglio?

             Sì, non uccidendolo, aspettando da Dio la sua morte e sforzandosi d’alleviargli per quanto potevano il martirio che gli davano.

             – Benissimo! Ma questo è per voi, pezzi d’animali, per il male che voi stessi riconoscete d’aver commesso! Ma io? che c’entro io? che male ho commesso io? Sono sì o no la vittima del vostro sbaglio? E fate scontare anche a me, che non c’entro, il male che voi avete commesso? Devo patire io così, perché voi avete sbagliato? Così ragionate?

             Ma no: non ragionavano affatto, loro. Stavano ad ascoltarlo, impassibili, con gli occhi fermi e vani, nelle dure facce cretose. E qua la paglia… e lì il cappotto… e lo ziretto dell’acqua… e il pane col sudore della fronte… e venite a cacare all’aperto.

             Non si sacrificavano forse, uno alla volta, a star lì di guardia e a tenergli compagnia? E lo facevano parlare delle stelle e delle cose della città e della campagna, delle buone annate d’altri tempi, quando c’era più religione, e di certe malattie delle piante che prima, quando c’era più religione, non si conoscevano. E gli avevano portato anche un vecchio Barbanera, trovato chi sa dove, perché ingannasse l’ozio, leggendo; lui che aveva la bella fortuna di saper leggere.

             – Che diceva, che diceva quello stampato, con tutte quelle lune e quella bilancia e quei pesci e quello scorpione?

             Sentendolo parlare, si svegliava in loro un’ingorda curiosità di sapere, piena di meraviglie grugnite e di sbalordimenti bambineschi, a cui egli, a poco a poco, cominciava a prender gusto, come a una cosa viva che nascesse da lui, da tutto ciò che in quei discorsi con loro traeva, come nuovo, anche per sé, dal suo animo ormai da tanti anni addormentato nella pena della sua incresciosa esistenza.

             E sentiva, sì, che ormai cominciava a essere una vita anche per lui, quella; una vita a cui aveva preso ad adattarsi, caduta la rabbia davanti a una ineluttabilità che non gliela faceva più pensare precaria, quantunque incerta, strana e come sospesa nel vuoto.

             Già per tutti là, al suo podere lontano affacciato sul mare, e nella città di cui nella notte vedeva i lumi, egli era morto. Forse nessuno s’era mosso a far ricerche, dopo la sua scomparsa misteriosa; e seppur lo avevano ricercato, lo avevano fatto senza impegno, non premendo a nessuno di ritrovarlo.

             Col cuore ridotto più arido e squallido della creta di quella grotta, che gl’importava ormai di ritornare vivo là, a quella vita di prima? aveva veramente qualche ragione di rimpianto per tutte le cose che qua gli mancavano, se il riaverle là doveva essere a costo dell’amara noja di prima? Non si trascinava là, in quella vita col peso addosso, d’un tedio insopportabile? Qua, almeno, ora stava sdrajato per terra e non si trascinava più.

             Le giornate gli passavano, in quel silenzio d’altura, quasi fuori del tempo, vuote d’ogni senso e senza scopo. In quella vacuità sospesa anche la stessa intimità della coscienza gli cessava: guardava la sua spalla e la creta accanto della grotta, come le sole cose che esistessero; e la sua mano, se vi fissava gli occhi, come se esistesse, così solo per se stessa; e quel sasso e quello sterpo, in un isolamento spaventoso.

             Se non che, avvertendo a mano a mano che quanto gli era occorso non era poi per lui tutta quella sciagura che in principio, per la rabbia dell’ingiustizia, gli era apparsa, cominciò anche ad accorgersi che davvero era una ben dura e grave punizione, a cui da se stessi quei tre s’erano condannati, il tenerlo ancora in vita.

             Morto com’era già per tutti, restava vivo solo per essi, vivo e con tutto il peso di quella vita inutile, di cui egli ora, in fondo, si sentiva liberato. Potevano buttarlo via come niente, quel peso che non aveva più valore per nessuno, di cui nessuno più si curava; e invece, no, se lo tenevano addosso, lo sopportavano rassegnati alla pena che da loro stessi s’erano inflitta, e non solo non se ne lagnavano, ma veramente facevano di tutto per rendersela più gravosa con le cure che gli prodigavano. Perché, sissignori, gli s’erano affezionati, tutti e tre, come a qualche cosa che appartenesse a loro, ma proprio a loro soltanto e a nessun altro più, e dalla quale misteriosamente traevano una soddisfazione, di cui, seppur la loro coscienza non sentiva il bisogno, avrebbero per tutta la vita avvertito la mancanza, quando fosse venuta loro a mancare.

             Fillicò un giorno portò su alla grotta la moglie, che aveva un bimbo attaccato al petto e una ragazzetta per mano. La ragazzetta recava al nonno una bella corona di pan buccellato.

             Con che occhi erano rimaste a mirarlo, madre e figlia! Dovevano essere passati già parecchi mesi dalla cattura, e chi sa come s’era ridotto: la barba a cespugli sulle gote e sul mento; sudicio, strappato… Ma rideva per far loro buona accoglienza, grato della visita e del regalo di quel buon pane buccellato. Forse però era appunto il riso in quella sua faccia da svanito, che faceva tanto spavento alla buona donna e alla ragazzetta.

             –    No, cannella, vieni qua… vieni qua… Tieni, te ne do un pezzetto; mangia… L’ha fatto mamma?

             –    Mamma…

             –    Brava! E fratellini, ne hai? Tre? Eh, povero Fillicò, già quattro figli… Portameli, i maschietti: voglio conoscerli. La settimana ventura, bravo. Ma speriamo che non ci arrivi…

             Ci arrivò. Altro che! Lunga, proprio lunga volle Dio che fosse la punizione. Per più di altri due mesi la tirò!

             Morì di domenica, una bella serata che lassù c’era ancora luce come se fosse giorno. Fillicò aveva condotto i suoi ragazzi, a vedere il nonno, e anche Manuzza, i suoi. Tra quei ragazzi morì, mentre scherzava con loro, come un ragazzino anche lui, mascherato con un fazzoletto rosso sui capelli lanosi.

             I tre accorsero a raccoglierlo da terra, appena lo videro cadere all’improvviso, mentre rideva e faceva tanto ridere quei ragazzi.

             Morto?

             Scostarono i ragazzi; li fecero andar via con le donne. E lo piansero, lo piansero, inginocchiati tutti e tre attorno al cadavere, e pregarono Dio per lui e anche per loro. Poi lo seppellirono dentro la grotta.

             Per tutta la vita, se a qualcuno per caso avveniva di ricordare davanti a loro il Guarnotta e la sua scomparsa misteriosa:

             – Un santo! – dicevano. – Oh! Andò certo diritto in paradiso con tutte le scarpe, quello!

             Perché il purgatorio erano certi d’averglielo dato loro là, su la montagna.

Raccolta La giara
01 – La giara – 1909
02 – La cattura – 1918
03 – Guardando una stampa – 1905
04 – La paura del sonno – 1900
05 – La lega disciolta – 1910
06 – La morta e la viva – 1910
07 – Un’altra allodola – 1902
08 – Richiamo all’obbligo – 1906
09 – Pensaci, Giacomino! – 1910
10 – Non è una cosa seria – 1910
11 – Tirocinio – 1905
12 – L’illustre estinto – 1900
13 – Il guardaroba dell’eloquenza – 1908
14 – Pallottoline! – 1902
15 – Due letti a due – 1909

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