La casa dell’agonia – Audio lettura 4

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Legge Giuseppe Tizza
«Sul rettangolo d’azzurro della finestra spiccava un vaso di geranii rossi. L’azzurro, dapprima vivo e ardente, s’era a poco a poco soffuso di viola, come d’un fiato d’ombra appena che vi avesse soffiato da lontano la sera che ancora tardava a venire.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 6 novembre 1935, poi in Una giornata, Mondadori, Milano 1937.

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Immagine dal Web.

La casa dell’agonia

Legge Giuseppe Tizza

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             Il visitatore, entrando, aveva detto certamente il suo nome; ma la vecchia negra sbilenca venuta ad aprir la porta come una scimmia col grembiule, o non aveva inteso o l’aveva dimenticato; sicché da tre quarti d’ora per tutta quella casa silenziosa lui era, senza più nome, «un signore che aspetta di là».

             Di là, voleva dire nel salotto.

             In casa, oltre quella negra che doveva essersi rintanata in cucina, non c’era nessuno; e il silenzio era tanto, che un tic-tac lento d’antica pendola, forse nella sala da pranzo, s’udiva spiccato in tutte le altre stanze, come il battito del cuore della casa; e pareva che i mobili di ciascuna stanza, anche delle più remote, consunti ma ben curati, tutti un po’ ridicoli perché d’una foggia ormai passata di moda, stessero ad ascoltarlo, rassicurati che nulla in quella casa sarebbe mai avvenuto e che essi perciò sarebbero rimasti sempre così, inutili, ad ammirarsi o a commiserarsi tra loro, o meglio anche a sonnecchiare.

             Hanno una loro anima anche i mobili, specialmente i vecchi, che vien loro dai ricordi della casa dove sono stati per tanto tempo. Basta, per accorgersene, che un mobile nuovo sia introdotto tra essi.

             Un mobile nuovo è ancora senz’anima, ma già, per il solo fatto ch’è stato scelto e comperato, con un desiderio ansioso d’averla.

             Ebbene, osservare come subito i mobili vecchi lo guardano male: lo considerano quale un intruso pretenzioso che ancora non sa nulla e non può dir nulla; e chi sa che illusioni intanto si fa. Loro, i mobili vecchi, non se ne fanno più nessuna e sono perciò così tristi: sanno che col tempo i ricordi cominciano a affievolirsi e che con essi anche la loro anima a poco a poco s’affievolirà; per cui restano lì, scoloriti se di stoffa e, se di legno, incupiti, senza dir più nulla nemmeno loro.

             Se mai per disgrazia qualche ricordo persiste e non è piacevole, corrono il rischio d’esser buttati via.

             Quella vecchia poltrona, per esempio, prova un vero struggimento a vedere la polvere che le tarme fanno venir fuori in tanti mucchietti sul piano del tavolinetto che le sta davanti e a cui è molto affezionata. Lei sa d’esser troppo pesante; conosce la debolezza delle sue corte cianche, specialmente delle due di dietro; teme d’esser presa, non sia mai, per la spalliera e trascinata fuor di posto; con quel tavolinetto davanti si sente più sicura, riparata; e non vorrebbe che le tarme, facendogli fare una così cattiva figura con tutti quei buffi mucchietti di polvere sul piano, lo facessero anche prendere e buttare in soffitta.

             Tutte queste osservazioni e considerazioni erano fatte dall’anonimo visitatore dimenticato nel salotto.

             Quasi assorbito dal silenzio della casa, costui, come vi aveva già perduto il nome, così pareva vi avesse anche perduto la persona e fosse diventato anche lui uno di quei mobili in cui s’era tanto immedesimato, intento ad ascoltare il tic-tac lento della pendola che arrivava spiccato fin lì nel salotto attraverso l’uscio rimasto semichiuso.

             Esiguo di corpo, spariva nella grande poltrona cupa di velluto viola sulla quale s’era messo a sedere. Spariva anche nell’abito che indossava. I braccìni, le gambine si doveva quasi cercarglieli nelle maniche e nei calzoni. Era soltanto una testa calva, con due occhi aguzzi e due baffetti di topo.

             Certo il padrone di casa non aveva più pensato all’invito che gli aveva fatto di venirlo a trovare; e già più volte l’ometto si era domandato se aveva ancora il diritto di star lì ad aspettarlo, trascorsa oltre ogni termine di comporto l’ora fissata nell’invito.

             Ma lui non aspettava più adesso il padrone di casa. Se anzi questo fosse finalmente sopravvenuto, lui ne avrebbe provato dispiacere.

             Lì confuso con la poltrona su cui sedeva, con una fissità spasimosa negli occhietti aguzzi e un’angoscia di punto in punto crescente che gli toglieva il respiro, lui aspettava un’altra cosa, terribile: un grido dalla strada: un grido che gli annunziasse la morte di qualcuno; la morte d’un viandante qualunque che al momento giusto, tra i tanti che andavano giù per la strada, uomini, donne, giovani, vecchi, ragazzi, di cui gli arrivava fin lassù confuso il brusio, si trovasse a passare sotto la finestra di quel salotto al quinto piano.

             E tutto questo, perché un grosso gatto bigio era entrato, senza nemmeno accorgersi di lui, nel salotto per l’uscio semichiuso, e d’un balzo era montato sul davanzale della finestra aperta.

             Tra tutti gli animali il gatto è quello che fa meno rumore. Non poteva mancare in una casa piena di tanto silenzio.

             Sul rettangolo d’azzurro della finestra spiccava un vaso di geranii rossi. L’azzurro, dapprima vivo e ardente, s’era a poco a poco soffuso di viola, come d’un fiato d’ombra appena che vi avesse soffiato da lontano la sera che ancora tardava a venire.

             Le rondini, che vi volteggiavano a stormi, come impazzite da quell’ultima luce del giorno, lanciavano di tratto in tratto acutissimi stridi e s’assaettavano contro la finestra come volessero irrompere nel salotto, ma subito, arrivate al davanzale, sguizzavano via. Non tutte. Ora una, poi un’altra, ogni volta, si cacciavano sotto il davanzale, non si capiva come, né perché.

             Incuriosito, prima che quel gatto fosse entrato, lui s’era appressato alla finestra, aveva scostato un po’ il vaso di geranii e s’era sporto a guardare per darsi una spiegazione: aveva scoperto così che una coppia di rondini aveva fatto il nido proprio sotto il davanzale di quella finestra.

             Ora la cosa terribile era questa: che nessuno dei tanti che continuamente passavano per via, assorti nelle loro cure e nelle loro faccende, poteva andare a pensare a un nido appeso sotto il davanzale d’una finestra al quinto piano d’una delle tante case della via, e a un vaso di geranii esposto su quel davanzale, e a un gatto che dava la caccia alle due rondini di quel nido. E tanto meno poteva pensare alla gente che passava per via sotto la finestra il gatto che ora, tutto aggruppato dietro quel vaso di cui s’era fatto riparo, moveva appena la testa per seguire con gli occhi vani nel cielo il volo di quegli stormi di rondini che strillavano ebbre d’aria e di luce passando davanti la finestra, e ogni volta, al passaggio d’ogni stormo, agitava appena la punta della coda penzoloni, pronto a ghermire con le zampe unghiute la prima delle due rondini che avrebbe fatto per cacciarsi nel nido.

             Lo sapeva lui, lui solo, che quel vaso di geranii, a un urto del gatto, sarebbe precipitato giù dalla finestra sulla testa di qualcuno; già il vaso s’era spostato due volte per le mosse impazienti del gatto; era ormai quasi sull’orlo del davanzale; e lui non fiatava già più dall’angoscia e aveva tutto il cranio imperlato di grosse gocce di sudore. Gli era talmente insopportabile lo spasimo di quell’attesa, che gli era perfino passato per la mente il pensiero diabolico d’andar cheto e chinato, con un dito teso, alla finestra, a dar lui l’ultima spinta a quel vaso, senza più stare ad aspettare che lo facesse il gatto. Tanto, a un altro minimo urto, la cosa sarebbe certamente accaduta.

             Non ci poteva far nulla.

             Com’era stato ridotto da quel silenzio in quella casa, lui non era più nessuno. Lui era quel silenzio stesso, misurato dal tic-tac lento della pendola. Lui era quei mobili, testimonii muti e impassibili quassù della sciagura che sarebbe accaduta giù nella strada e che loro non avrebbero saputa. La sapeva lui, soltanto per combinazione. Non avrebbe più dovuto esser lì già da un pezzo. Poteva far conto che nel salotto non ci fosse più nessuno, e che fosse già vuota la poltrona su cui era come legato dal fascino di quella fatalità che pendeva sul capo d’un ignoto, lì sospesa sul davanzale di quella finestra.

             Era inutile che lui toccasse a quella fatalità la naturale combinazione di quel gatto, di quel vaso di geranii e di quel nido di rondini.

             Quel vaso era lì proprio per stare esposto a quella finestra. Se lui l’avesse levato per impedir la disgrazia, l’avrebbe impedita oggi; domani la vecchia serva negra avrebbe rimesso il vaso al suo posto, sul davanzale: appunto perché il davanzale, per quel vaso, era il suo posto. E il gatto, cacciato via oggi, sarebbe ritornato domani a dar la caccia alle due rondini.

             Era inevitabile.

             Ecco, il vaso era stato spinto ancora più là; era già quasi un dito fuori dell’orlo del davanzale.

             Lui non potè più reggere; se ne fuggì. Precipitandosi giù per le scale, ebbe in un baleno l’idea che sarebbe arrivato giusto in tempo a ricevere sul capo il vaso di geranii che proprio in quell’attimo cadeva dalla finestra.

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