Legge Giuseppe Tizza.
«Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date.»
Prime pubblicazioni: La lettura, maggio 1916, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.
La camera in attesa
Voce di Giuseppe Tizza
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Si dà pur luce ogni mattina a questa camera, quando una delle tre sorelle a turno viene a ripulirla senza guardarsi attorno. L’ombra, tuttavia, appena le persiane e le vetrate della finestra sono richiuse e raccostati gli scuri, si fa subito cruda, come in un sotterraneo; e subito, come se quella finestra non sia stata aperta da anni, il crudo di quest’ombra s’avverte, diventa quasi l’alito sensibile del silenzio sospeso vano sui mobili e gli oggetti, i quali, a lor volta, par che rimangano sgomenti, ogni giorno, della cura con cui sono stati spolverati, ripuliti e rimessi in ordine.
Il calendario a muro presso la finestra è certo che rimane col senso dello strappo d’un altro fogliolino, come se gli paja una inutile crudeltà che gli si faccia segnar la data in quell’ombra vana e in quel silenzio. E il vecchio orologio di bronzo, in forma d’anfora, sul piano di marmo del cassettone, pare che avverta la violenza che gli fanno costringendolo a staccare ancora là dentro il suo cupo tic-tac.
Sul tavolino da notte, però, la boccetta dell’acqua, di cristallo verde dorato, panciuta, incappellata del suo lungo bicchiere capovolto, pigliando di tra gli scuri accostati della finestra dirimpetto un filo di luce, sembra ridere di tutto quello sgomento diffuso nella camera.
C’è, in realtà, alcunché di vivo e d’arguto su quel tavolino da notte.
ad accendere la candela, anch’essa da quattordici mesi confitta nella bugia di ferro smaltato, in forma di trifoglio, col manichetto e il bocciuolo d’ottone.
Nell’attesa della fiamma che deve consumarla, s’è ingiallita quella candela sul trifoglio della bugia, come una vergine matura. E c’è da scommettere che le due figurine monellescamente smorfiose della scatola di fiammiferi la paragonino alle tre sorelle stagionate che vengono un giorno per una a ripulire e a rimettere in ordine la camera.
Via, benché intatta ancora, povera vergine candela, dovrebbero cambiarla le tre sorelle, se non proprio ogni giorno come fanno per l’acqua della boccetta (che anche perciò è così viva e pronta a ridere a ogni filo di luce), almeno a ogni quindici giorni, a ogni mese, via! per non vederla così gialla, per non vedere in quel giallore i quattordici mesi che sono passati senza che nessuno sia venuto ad accenderla, la sera, su quel tavolino da notte.
È veramente una dimenticanza deplorevole, perché non solo l’acqua della boccetta, ma cambiano tutto quelle tre sorelle: ogni quindici giorni le lenzuola e le foderette del letto, rifatto con amorosa diligenza ogni mattina come se davvero qualcuno vi abbia dormito; due volte la settimana, la camicia da notte, che ogni sera, dopo rimboccate le coperte, vien tratta dal sacchetto di raso appeso col nastrino azzurro alla testata della lettiera bianca, e distesa sul letto con la falda di dietro debitamente rialzata. E han cambiato, oh Dio, finanche le pantofole davanti la poltroncina a pie del letto. Sicuro: le vecchie buttate via, dentro il comodino, e al loro posto, lì su lo scendiletto, un pajo nuove, di velluto, ricamate dall’ultima delle tre. E il calendario? Quello lì, presso la finestra, è già il secondo. L’altro, dell’anno scorso, s’è sentito strappare a uno a uno tutti i giorni dei dodici mesi, uno ogni mattina, con inesorabile puntualità. E non c’è pericolo che la maggiore delle tre sorelle, ogni sabato alle quattro del pomeriggio, si dimentichi d’entrare nella camera per ridar la corda a quel vecchio orologio di bronzo sul cassettone, che con tanto risentimento rompe il silenzio ticchettando e muove le due lancette sul quadrante piano piano, che non si veda, come se voglia dire che non lo fa apposta, lui, per suo piacere, ma perché forzato dalla corda che gli danno.
Le due figurine smorfiose della scatola evidentemente non vedono, come possono vederlo il vecchio orologio di bronzo col bianco occhio tondo del quadrante e il calendario dall’alto della parete col numero rosso che segna la data, il lugubre effetto di quella camicia da notte stesa lì sul letto e di quelle due pantofole nuove in attesa su lo scendiletto davanti la poltroncina.
Quanto alla candela confitta lì sul trifoglio della bugia, oh essa è così diritta e assorta nella sua gialla rigidità, che non si cura del dileggio di quelle due figurine smorfiose e del riso della panciuta boccetta, sapendo bene che cosa sta ad attendere lì, ancora intatta, così ingiallita.
Che cosa?
Il fatto è che da quattordici mesi quelle tre sorelle e la loro madre inferma credono di potere e di dovere aspettare così il probabile ritorno del fratello e figliuolo Cesarino, sottotenente di complemento nel 25° fanteria, partito (ormai son più di due anni) per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Da quattordici mesi, è vero, non hanno più notizia di lui. C’è di più. Dopo tante ricerche angosciose, suppliche e istanze, è arrivata alla fine dal Comando della Colonia la comunicazione ufficiale che il sottotenente Mochi Cesare, dopo un combattimento coi ribelli, non trovandosi né tra i morti né tra i feriti né tra i prigionieri, di cui si è riuscito ad aver notizia certa, deve ritenersi disperso, anzi scomparso senz’alcuna traccia.
Il caso ha destato in principio molta pietà in tutti i vicini e conoscenti di quella mamma e di quelle tre sorelle. A poco a poco però la pietà s’è raffreddata ed è cominciata invece una certa irritazione, in qualcuno anche una vera indignazione per questa che pare «una commedia», della camera cioè tenuta così puntualmente in ordine, finanche con la camicia da notte stesa sul letto rimboccato; quasi che con questa «commedia» quelle quattro donne vogliano negare il tributo di lagrime a quel povero giovine e risparmiare a se stesse il dolore di piangerlo morto.
Troppo presto han dimenticato vicini e conoscenti che essi, proprio essi, all’arrivo della comunicazione del Comando della Colonia, quando quella madre e quelle tre sorelle s’eran pur messe a piangere morto il loro caro levando grida strazianti, le han persuase a lungo e con tanti argomenti uno più efficace dell’altro a non disperarsi così. Perché piangerlo morto – hanno detto – se chiaramente in quella comunicazione s’annunziava che l’ufficiale Mochi tra i morti non s’era trovato? Era disperso; poteva ritornare da un momento all’altro: ma anche dopo un anno, chi sa! Nell’Africa, ramingo, nascosto… E sono stati pur essi a sconsigliare e quasi impedire che quella madre e quelle tre sorelle si vestissero di nero, come volevano anche nell’incertezza. – No, di nero – hanno detto; perché quel malaugurio? E alla prima speranza di quelle poverine che s’esprimeva ancora in forma di dubbio: – Chi sa… sì, forse è vivo –, si sono affrettati a rispondere:
– Ma sarà vivo sì! E vivo certamente!
Ebbene, non è naturale adesso che, mancando davvero ogni fondamento di certezza alla supposizione che il loro caro sia morto, e accolta invece, come tutti hanno voluto, l’illusione che sia vivo, quella povera mamma inferma, quelle tre sorelle diano quanto più possono consistenza di realtà a questa illusione? Ma sì, appunto, lasciando la camera in attesa, rifacendola con cura minuziosa, traendo ogni sera dal sacchetto la camicia da notte e stendendola su le coperte rimboccate. Perché, se si son lasciate persuadere a non piangerlo morto, a non disperarsi della sua morte, devono per forza far vedere a lui, vivo per loro, a lui che veramente può sopravvenire da un momento all’altro, che ecco, tanto esse ne sono state certe, che gli hanno finanche preparato ogni sera la camicia da notte lì sul letto, sul suo lettino rifatto ogni mattina, come se egli davvero la notte vi abbia dormito. Ed ecco là le nuove pantofole che Margheritina, aspettando, non si è contentata soltanto di ricamare, ma ha voluto anche far mettere su da un calzolajo, perché egli appena tornato le trovi pronte al posto delle vecchie.
Scusate tanto:
– O che non son forse morti il vostro figliuolo, la vostra figliuola, quando sono partiti per gli studii nella grande città lontana?
Ah, voi fate gli scongiuri? mi date sulla voce, gridando che non sono morti nient’affatto? che saran di ritorno a fin d’anno e che intanto ricevete puntualmente loro notizie due volte la settimana?
Calmatevi, sì, via, lo credo bene. Ma come va che, passato l’anno, quando il vostro figliuolo o la vostra figliuola ritornano con un anno di più dalla grande città, voi restate stupiti, storditi davanti a loro; e voi, proprio voi, con le mani aperte come a parare un dubbio che vi sgomenta, esclamate:
– Oh Dio, ma sei proprio tu? Oh Dio, come s’è fatta un’altra!
Non solo nell’anima, un’altra, cioè nel modo di pensare e di sentire; ma anche nel suono della voce, anche nel corpo un’altra, nel modo di gestire, di muoversi, di guardare, di sorridere…
E, con smarrimento, vi domandate:
«Ma come? erano proprio così i suoi occhi? Avrei potuto giurare che il suo nasino, quand’è partita, era un pochino all’insù…».
La verità è che voi non riconoscete nel vostro figliuolo o nella vostra figliuola, ritornati dopo un anno, quella stessa realtà che davate loro prima che partissero. Non c’è più, è morta quella realtà. Eppure voi non vi vestite di nero per questa morte e non piangete… ovvero sì, ne piangete, se vi fa dolore quest’altro che vi è ritornato invece del vostro figliuolo, quest’altro che voi non potete, non sapete più riconoscere.
Il vostro figliuolo, quello che voi conoscevate prima che partisse, è morto, credetelo, è morto. Solo l’esserci d’un corpo (e pur esso tanto cambiato!) vi fa dire di no. Ma lo avvertite bene, voi, ch’era un altro, quello partito un anno fa, che non è più ritornato.
Ebbene, precisamente come non ritorna più alla sua mamma e alle sue tre sorelle questo Cesarino Mochi partito da due anni per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date. E dunque realmente può bastare alla mamma e alle tre sorelle di Cesarino Mochi la vita ch’egli seguita ad avere per esse, qua nella realtà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse.
Ah, non c’è pericolo per quella mamma e per quelle tre sorelle ch’egli ritorni un altro, com’è avvenuto per il vostro figliuolo a fin d’anno.
La realtà di Cesarino è inalterabile qua nella sua camera e nel cuore e nella mente di quella mamma e di quelle tre sorelle, che per sé, fuori di questa, non ne hanno altra.
– Titti, quanti ne abbiamo del mese? – domanda dal seggiolone la mamma inferma all’ultima delle tre figliuole.
– Quindici, – risponde Margherita, alzando il capo dal libro; ma non ne è ben certa e domanda a sua volta alle due sorelle: – Quindici, è vero?
– Quindici, sì, – conferma Nanda, la maggiore, dal telajo.
– Quindici, – ripete Flavia che cuce.
Su la fronte di tutt’e tre s’incide, per quella domanda della madre a cui hanno risposto, la stessa ruga.
Nella quiete della vasta sala da pranzo luminosa, velata da candide tendine di mussolo, è entrato un pensiero, che di solito, non per istudio, ma istintivamente è tenuto lontano dalle quattro donne: il pensiero del tempo che passa.
Le tre sorelle hanno indovinato il perché di questo pensiero pauroso nella mente della madre inferma, abbandonata sul seggiolone; e perciò han corrugato la fronte.
Non è già per Cesarino.
C’è un’altra, c’è un’altra – non qua, nella casa, ma che della casa, forse domani, chi sa! potrebbe essere la regina – Claretta, la fidanzata del fratello – c’è lei, sì, purtroppo, che fa pensare al tempo che passa.
La mamma, domandando a quanti si è del mese, ha voluto contare i giorni che son passati dall’ultima visita di Claretta.
Veniva prima ogni giorno la cara bambina (bambina veramente, Claretta, per quelle tre sorelle anziane) quasi ogni giorno, con la speranza che fosse arrivata la notizia; perché era certa, più certa di tutte, lei, che la notizia sarebbe presto arrivata. E allora entrava festosa nella camera del fidanzato e vi lasciava sempre qualche fiore e una lettera. Sì, perché seguitava a scrivere lei, come al solito, ogni sera, a Cesarino. Le lettere, invece di spedirle, ecco, veniva a lasciarle qua perché le trovasse, Cesarino, subito appena arrivato.
Il fiore avvizziva, la lettera restava.
Pensava forse Claretta, nel trovare sotto il fiore vizzo la lettera del giorno precedente, che anche il profumo di questa era svanito senz’avere inebriato nessuno? La riponeva nel cassetto della piccola scrivania presso la finestra, e al suo posto lasciava la nuova e sopra vi posava un fiore nuovo.
Durò a lungo, per mesi e mesi, questa cura gentile. Ma un giorno la piccina venne, con più fiori, sì, ma senza lettera. Disse che aveva scritto la sera precedente, oh anche più a lungo del solito, e che ogni sera avrebbe seguitato a scrivere, ma in un taccuino, perché la mamma le aveva fatto notare ch’era un inutile sciupio di carta da lettere e di buste.
Veramente era così: ciò che importava era il pensiero di scrivere ogni giorno; che poi scrivesse in carta da lettere o nel taccuino, era lo stesso.
Se non che, con quella lettera cominciò anche a mancare la visita giornaliera di Claretta. Dapprima tre volte, poi due, poi prese a venire una sola volta per settimana. Poi, con la scusa del lutto per la morte della nonna materna, stette più di quindici giorni senza venire. E alla fine, quando – non spontaneamente, ma condotta dalle sorelle – rientrò per la prima volta, vestita di nero, nella camera di Cesarino, avvenne una scena inattesa, che per poco non fece scoppiare d’angoscia il cuore di quelle tre poverine. Tutt’a un tratto, così vestita di nero, appena entrata, si rovesciò sul lettino bianco di Cesarino, rompendo in un pianto disperato.
Perché? che c’entrava? Rimase stordita, come smarrita, dopo, di fronte allo stupore angoscioso, al tremore di quelle tre sorelle pallide, livide; disse che non sapeva lei stessa com’era stato, come le era avvenuto… Si scusò; ne incolpò il suo abito nero, il dolore per la morte della nonna… Riprese, a ogni modo, a venire una volta la settimana.
Ma le tre sorelle provavano ora un certo ritegno a condurla nella camera in attesa; ed ella né c’entrava da sé, né chiedeva alle tre sorelle che ve la conducessero. E di Cesarino quasi non parlavano più.
Tre mesi fa, venne di nuovo vestita di abiti gaj, primaverili, risbocciata come un fiore, tutta accesa e vivace come da gran tempo le tre sorelle e la loro povera mamma non l’avevano più veduta. Recò tanti, tanti fiori e volle lei stessa con le sue mani portarli nella camera di Cesarino e distribuirli in vasetti su la piccola scrivania, sul tavolino da notte, sul cassettone. Disse che aveva fatto un bel sogno.
Rimasero con l’affanno, oppresse e quasi sgomente di quella vivacità esuberante, di quella rinata gajezza della bambina, le tre sorelle sempre più pallide e più livide. Sentirono, appena cessato il primo stordimento, come l’urto d’una violenza crudele, l’urto della vita che rifioriva prepotente in quella bambina e che non poteva più esser contenuta nel silenzio di quell’attesa, a cui esse con le religiose cure delle loro mani gracili e fredde davano ancora e tenacemente volevano dar sempre una larva di vita, tanta che bastasse a loro. E non fecero nessuna opposizione quando Claretta, facendosi rossa rossa, disse che le era nata una grande curiosità di sapere che cosa aveva scritto a Cesarino nelle sue prime lettere di più d’un anno fa, chiuse nel cassetto della scrivania.
Più di cento dovevano essere quelle lettere, centoventidue o centoventitré. Le voleva rileggere; le avrebbe poi conservate lei, per Cesarino, insieme coi taccuini. E a dieci per volta se l’era tutte riportate a casa.
Da allora le visite si sono diradate. La vecchia mamma inferma, guardando fiso il bracciolo del seggiolone, conta i giorni che son passati dall’ultima visita; ed è curioso, che tanto per lei, quanto per le tre figliuole con la fronte corrugata, questi giorni s’assommino e si facciano troppi, mentre per Cesarino che non torna, il tempo non passa mai; è come se fosse partito jeri, Cesarino, anzi come se non fosse partito affatto, ma fosse solo uscito di casa e dovesse rientrare da un momento all’altro, per sedersi a tavola con loro e poi andare a dormire nel suo lettino lì pronto.
Il crollo è dato alla povera mamma dalla notizia che Claretta s’è rifatta sposa.
Era da attendersela, questa notizia, poiché già da due mesi Claretta non si faceva più vedere. Ma le tre sorelle, meno vecchie e perciò meno deboli della mamma, s’ostinano a dire di no, che questo tradimento non se l’aspettavano. Vogliono a ogni costo resistere al crollo, esse, e dicono che Claretta s’è fatta sposa con un altro, non perché Cesarino sia morto ed ella non abbia perciò veramente nessuna ragione più d’aspettarne ancora il ritorno, ma perché dopo sedici mesi s’è stancata d’aspettarlo. Dicono che la loro mamma muore, non perché il nuovo fidanzamento di Claretta le abbia fatto crollare l’illusione sempre più fievole del ritorno del suo figliuolo, ma per la pena che il suo Cesarino sentirà, al suo ritorno, di questo crudele tradimento di Claretta.
E la mamma, dal letto, dice di sì, che muore di questa pena; ma negli occhi ha come un riso di luce.
Le tre figliuole glieli guardano, quegli occhi, con invidia accorata. Ella, tra poco, andrà a vedere di là se lui c’è; si leverà da quest’ansia della lunghissima attesa; avrà la certezza, lei; ma non potrà tornare per darne l’annunzio a loro.
Vorrebbe dire, la mamma, che non c’è bisogno di quest’annunzio, perché è già certa lei che lo troverà di là, il suo Cesarino; ma no, non lo dice; sente una grande pietà per le sue tre povere figliuole che restano sole qua e hanno tanto bisogno di pensare e di credere che Cesarino sia ancora vivo, per loro, e che un giorno o l’altro debba ritornare; ed ecco, vela dolcemente la luce degli occhi e fino all’ultimo, fino all’ultimo vuol rimanere attaccata all’illusione delle tre figliuole, perché anche dal suo ultimo respiro quest’illusione tragga alito e seguiti a vivere per loro. Con l’estremo filo di voce sospira:
– Glielo direte che l’ho tanto aspettato…
Nella notte i quattro ceri funebri ardono ai quattro angoli del letto, e di tratto in tratto hanno un lieve scoppiettio che fa vacillare appena la lunga fiamma gialla.
Tanto è il silenzio della casa, che gli scoppiettìi di quei ceri, per quanto lievi, arrivano di là alla camera in attesa, e quella candela ingiallita, da sedici mesi confitta sul trifoglio della bugia, quella candela derisa dalle due figurine smorfiose della scatola di fiammiferi, ad ogni scoppiettio pare che abbia un sussulto da cui possa trar fiamma anche lei, per vegliare un altro morto qui, sul letto intatto.
È per quella candela una rivincita. Difatti, quella sera, non è stata cambiata l’acqua della boccetta, né tratta dal sacchetto e stesa sulle coperte rimboccate la camicia da notte. E segna la data di jeri il calendario a muro.
S’è arrestata d’un giorno, e pare per sempre, nella camera, quell’illusione di vita.
Solo il vecchio orologio di bronzo sul cassettone seguita cupo e più sgomento che mai a parlare del tempo in quella buja attesa senza fine.
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