La berretta di Padova – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«S’era ormai radicata in tutti l’idea che non avesse in fondo ragione di lagnarsi di niente né d’adirarsi con nessuno; giacché, se da un canto era vero che gli uomini lo avevano sempre gabbato, era innegabile dall’altro che Dio, in compenso, lo aveva sempre ajutato.»

Prima pubblicazione: Il Marzocco, 23 febbraio 1902, poi in Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902/1903.

La berretta di Padova
Immagine dal Web

La berretta di Padova

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Berrette di Padova: belle berrette a lingua, di panno, a uso di quelle che si portano ancora in Sardegna, e che si portavano allora (cioè a dire nei primi cinquant’anni del secolo scorso) anche in Sicilia, non dalla gente di campagna che usava di quelle a calza di filo e con la nappina in punta, ma dai cittadini, anche mezzi signori; se è vera la storia che mi fu raccontata da un vecchio parente, il quale aveva conosciuto il berrettajo che le vendeva, zimbello di tutta Girgenti allora, perché dei tanti anni passati in quel commercio pare non avesse saputo ricavare altro guadagno che il nomignolo di Cirlinciò, che in Sicilia, per chi volesse saperlo, è il nome d’un uccello sciocco. Si chiamava veramente don Marcuccio La Vela, e aveva bottega sulla strada maestra, prima della discesa di San Francesco.

             Don Marcuccio La Vela sapeva di quel suo nomignolo e se ne stizziva molto; ma per quanto poi si sforzasse di fare il cattivo e di mostrarsi corrivo a riavere il suo, non solo non gli veniva mai fatto, ma ogni volta alla fine era una giunta al danno perché, impietosendosi alle finte lagrime dei debitori maltrattati, per compensarli dei maltrattamenti, oltre la berretta ci perdeva qualche pezzo di dodici tari porto sottomano.

             S’era ormai radicata in tutti l’idea che non avesse in fondo ragione di lagnarsi di niente né d’adirarsi con nessuno; giacché, se da un canto era vero che gli uomini lo avevano sempre gabbato, era innegabile dall’altro che Dio, in compenso, lo aveva sempre ajutato. Aveva di fatti una cattiva moglie, indolente, malaticcia, sciupona, e se n’era presto liberato; un esercito di figliuoli, ed era riuscito in breve ad accasarli bene tutti quanti. Ora provvedeva sì gratuitamente di berrette tutto il cresciuto parentado, ma poteva esser certo che esso, all’occorrenza, non lo avrebbe lasciato morir di fame. Che voleva dunque di più? Le berrette intanto volavano da quella bottega come se avessero le ali. Gliene portavano via figli, generi, nipoti, amici e conoscenti. Per alcuni giorni egli s’ostinava a correre ora dietro a questo, ora dietro a quello, per riavere almeno, tra tante, il costo di una sola. Niente! E giurava e spergiurava di non voler più dare a credenza:

             – Neanche a Gesù Cristo, se n’avesse bisogno! Ma ci ricascava sempre.

             Ora, alla fine, aveva deciso di chiuder bottega, non appena esaurita la poca mercanzia che gli restava, della quale non avrebbe dato via neppure un filo, se non gli fosse pagato avanti.

             Ma ecco venire un giorno alla sua bottega un tal Lizio Gallo, ch’era suo compare.

             Per le sue berrette Cirlinciò non temeva del compare. Ben altro il Gallo, in grazia del comparatico, pretendeva da lui. Uomo sodo, denari voleva. E già gli doveva una buona sommetta. Ora dunque basta, eh?

             – Che buon vento, compare?

             Lizio Gallo aveva in vezzo passarsi e ripassarsi continuamente una mano su i radi e lunghi baffi spioventi e sotto quella mano, serio serio, con gli occhi bassi, sballarne di quelle, ma di quelle! Caro a tutti per il suo buon umore, non pure da Cirlinciò ch’era molto facile, ma dai più scaltri mercanti del paese riusciva sempre a ottenere quanto gli bisognasse ed era indebitato fino agli occhi, e sempre abbruciato di denari. Ma quel giorno si presentò con un’altr’aria.

             – Male, compare! – sbuffò, lasciandosi cadere su una seggiola. – Mi sento stanco, ecco, stanco e nauseato.

             E col volto atteggiato di tedio e di disgusto, disse seguitando, che non gli reggeva più l’animo a vivere così d’espedienti e ch’era troppo il supplizio che gli davano iraffacci aperti o le mute guardatacce dei suoi creditori.

             Cirlinciò abbassò subito gli occhi e mise un sospiro.

             –    E pure voi sospirate, compare; vi vedo! – soggiunse il Gallo, tentennando il capo. – Ma avete ragione! Non posso più accostarmi a un amico, lo so. Mi sfuggono tutti! E intanto, più che per me, credetemi, soffro per gli altri, a cui debbo cagionare la pena della mia vista. Ah, vi giuro che se non fosse per Giacomina mia moglie, a quest’ora…

             –    Che dite! – gli diede sulla voce Cirlinciò.

             –    E sapete che altro mi tiene? – riprese Lizio Gallo. – Quel poderetto che mi recò in dote mia moglie, pur così gravato com’è d’ipoteche. Ho speranza, compare, che debba essere la mia salvezza, per via di non so che scavi che ci vuol fare il Governo. Dicono che là sotto ci sono le antichità di Camìco. Uhm! Rottami… Che saranno? Ma, se è vero questo, sono a cavallo. E non dubitate, compare: prima di tutti, penserei a voi. Già il Governatore m’ha fatto sapere che vuol parlare con me. Dovrei andarci domattina. Ma come ci vado?

             –    Perché? – domandò, stordito, Cirlinciò.

             –    Con questi stracci? Non mi vedete? Per l’abito, forse, potrei rimediare. Mio cognato, che ha su per giù la mia stessa statura, se n’è fatto uno nuovo da pochi giorni e me lo presterebbe. Ma la berretta? Ha un testone così!

             –    Ah! Anche voi! – esclamò allora Cirlinciò spalancando tanto d’occhi.

             –    Come, anch’io? – disse con la faccia più fresca del mondo il Gallo. – Che son forse solito di andare per via a capo scoperto? Ora questa berretta, vedete? non ne vuol più sapere.

             –    E venite da me? – riprese Cirlinciò, col volto avvampato di stizza. – Scusatemi, compare: gnomo! non ve la do! non ve la posso dare!

             –    Ma io non dico dare. Ve la pagherò.

             –    Avete i denari?

             –    Li avrò.

             –    Niente, allora! Quando li avrete.

             –    È la prima volta, – gli fece notare, dolente e con calma, il Gallo, – è la prima volta che vengo da voi per una padovana

             –    Ma io ho giurato, lo sapete! Ho giurato! ho giurato!

             –    Lo so. Ma vedete perché mi serve?

             –    Non sento ragione! Piuttosto, guardate, piuttosto vi do tre tari e vi dico di andarvela a comprare in un’altra bottega.

             Lizio Gallo sorrise mestamente, e disse:

             – Caro compare, se voi mi date tre tari, lo sapete, io me li mangio, e berretta non me ne compro. Dunque, datemi la berretta.

             – Dunque, né questa né quelli! – concluse Cirlinciò, duro. Lizio Gallo si levò pian piano da sedere, sospirando:

             –    E va bene! Avete ragione. Cerco la via per uscire da questi guaj e vedo che l’unica, per me, sarebbe di morire, lo so.

             –    Morire… – masticò Cirlinciò. – C’è bisogno di morire? Tanto, la berretta dovete levarvela in presenza del Governatore.

             –    Eh già! – esclamò il Gallo. – Bella figura ci farei per istrada con l’abito nuovo e la berretta vecchia! Ma dite piuttosto che non volete darmela.

             E si mosse per uscire. Cirlinciò allora, al solito, pentito, lo acchiappò per un braccio e gli disse all’orecchio:

             – Vi do tre giorni di tempo per il pagamento. Ma non lo dite a nessuno! Fra tre giorni… badate! sono capace di levarvela dal capo, per istrada, appena vi vedo passare. Sono porco io, se mi ci metto!

             Aprì lo scaffale e ne trasse una bellissima berretta di Padova. Lizio Gallo se la provò. Gli andava bene

             – Quanto mi pesa! – disse, scotendo il capo. – Mi sentivo male, venendo qua; voi mi avete dato il colpo di grazia, compare!

             E se ne andò.

             Tutto poteva aspettarsi il povero Cirlinciò, tranne che Lizio Gallo, dopo due giorni, dovesse davvero morire!

             Si mise a piangere come un vitello, dal rimorso, ripensando – ah! – alle ultime parole del compare – ah! – gli pareva di vederselo ancora lì, nella bottega, nell’atto di tentennare amaramente il capo, – ah! – ah! – ah!

             E corse alla casa del morto, per condolersi con la vedova donna Giacomina.

             Per via, tanta gente pareva si divertisse a fermarlo:

             –    È morto Lizio Gallo, sapete?

             –    E non vedete che piango?

             Tutti in paese ne facevano le lodi e ne commiseravano la fine immatura, pur sorridendo mestamente al ricordo delle sue tante baggianate. I molti creditori chiudevano gli occhi, sospirando, e alzavano la mano per rimettergli il debito.

             Cirlinciò trovò donna Giacomina inconsolabile. Quattro torcetti ardevano a gli angoli del letto, su cui il compare giaceva, coperto da un lenzuolo. Piangendo, la vedova narrò al compare com’era avvenuta la disgrazia.

             – A tradimento, – diceva. – Ma già, volendola dire, da parecchio tempo, Lizio mio non pareva più lui!

             Cirlinciò piangendo annuiva e in prova narrò alla vedova l’ultima visita del compare alla bottega.

             – Lo so! lo so! – gli disse, donna Giacomina. – Ah, quanto se ne afflisse, povero Lizio mio! Le vostre parole, compare, gli rimasero confitte nel cuore come tante spade!

             Cirlinciò pareva una fontana.

             – E più mi piange il cuore, – seguitò la vedova, – che ora me lo vedrò portar via sul cataletto dei poveri, sotto uno straccio nero…

             Cirlinciò allora, con impeto di commozione, si profferse per le spese d’una pompa funebre. Ma donna Giacomina lo ringraziò; gli disse esser quella l’espressa volontà del marito, e che lei voleva rispettarla, e che anzi il marito non avrebbe neppur voluto l’accompagnamento funebre, e che infine aveva indicato la chiesa ove, da morto, voleva passare l’ultima notte, secondo l’uso: la chiesetta cioè di Santa Lucia, come la più umile e la più fuorimano, per chi se ne volesse andare quasi di nascosto, senza mortorio.

             Cirlinciò insistette; ma alla fine si dovette arrendere alla volontà della vedova.

             – Ma quanto all’accompagnamento – disse, licenziandosi, – siate pur certa che tutto il paese oggi sarà dietro al povero compare!

             E non s’ingannò.

             Ora, andando il mortorio per la strada che conduce alla chiesetta di Santa Lucia, avvenne a Cirlinciò, il quale si trovava proprio in testa dietro al cataletto che quattro portantini, due di qua, due di là, sorreggevano per le stanghe, di fissare gli occhi lagrimosi su quella sua fiammante berretta di Padova, che il morto teneva in capo e che spenzolava e dondolava fuori della testata del cataletto. La berretta che il compare non gli aveva pagata. Tentazione!

             Cercò più volte il povero Cirlinciò di distrarne lo sguardo; ma poco dopo gli occhi tornavano a guardarla, attirati da quel dondolio che seguiva il passo cadenzato dei portantini. Avrebbe voluto consigliare a uno di questi di ripiegare sul capo al morto la berretta e porvi sopra la coltre per fermarla.

             «Ma sì! Non ci mancherebbe altro,» rifletteva, poi, «che io, proprio io vi richiamassi l’attenzione della gente. Già forse, vedendomi qua e guardando questa berretta, tutti ridono di me, sotto i baffi.»

             Morso da questo sospetto, lanciò due occhiatacce oblique ai vicini, sicuro di legger loro negli occhi il temuto dileggio; poi si rivolse con rabbioso rammarico alla berretta dondolante. – Com’era bella! com’era fina! E ora, – peccato! – o sarebbe andata a finire sul capo a un becchino, o sottoterra, inutilmente, col compare.

             Questi due casi, e maggiormente il primo ch’era il più probabile, cominciarono a esagitarlo così, che, senza quasi volerlo, si diede a pensare se ci fosse modo di riavere quella berretta. Lanciò di nuovo qualche occhiata intorno e s’accorse che molti, procedendo, seguivano quel dondolar cadenzato, che a lui cagionava tante smanie, anzi un vero supplizio. Gli parve perfino che, prendendo quasi a materia il rumore dei passi dei portantini, quel dondolio ripetesse forte, a tutti, senza posa:

             È stato  – gabbato, È stato – gabbato…

             No, perdio, no! Anche a costo di passare l’intera nottata nascosto nella chiesetta di Santa Lucia, egli doveva, doveva riavere quella berretta ch’era sua! Tanto, che se ne faceva più il compare, morto? Era nuova fiammante! ed egli avrebbe potuto rimetterla, senz’altro, dentro lo scaffale. Poiché, perdio, non si trattava soltanto di mantenere un proposito deliberato, ma anche di non venir meno a un giuramento fatto, ecco, a un giuramento! a un giuramento!

             Così, quando il mortorio giunse (ch’era già sera chiusa) alla chiesetta fuorimano dove lo scaccino aveva preparato i due cavalietti su cui il misero feretro doveva esser deposto, mentre la gente assisteva alla benedizione del cadavere, andò a nascondersi quatto quatto dietro un confessionale.

             Come la chiesa fu sgombra, lo scaccino con la lanterna in mano si recò a chiudere il portone, poi entrò in sagrestia a prender l’olio per rifornire un lampadino votivo davanti a un altare.

             Nel silenzio della chiesa, quei passi strascicati rintronarono cupamente.

             Della solenne vacuità dell’interno sacro, nel bujo, Cirlinciò ebbe in prima tale sgomento, che fu lì lì per farsi avanti e pregare il sagrestano, che lo facesse andar via. Ma riuscì a trattenersi.

             Rifornito d’olio il lampadino, quegli si accostò pian piano al feretro; si chinò; poi, senza volerlo, volse in giro uno sguardo e, prima di ritirarsi nella sua cameruccia sopra la sagrestia a dormire, tolse pulitamente con due dita la berretta al morto, e se la filò zitto zitto.

             Cirlinciò non se n’accorse. Quando sentì chiudere e sprangare la porta della sagrestia, gli parve che la chiesa sprofondasse nel vuoto. Poi, nella tenebra, si avvisò a mala pena quel lumicino davanti all’altare lontano; a poco a poco quel barlume si allargò, si diffuse, tenuissimo, intorno. Gli occhi di Cirlinciò cominciarono a intravedere a stento, in confuso, qualche cosa. E allora, cauto, trattenendo il fiato, si provò a uscire dal nascondiglio.

             Ma, contemporaneamente, altri due che si erano nascosti nella chiesetta con lo stesso intento, s’avanzavano cheti e chinati come lui, e con le mani protese, verso il feretro, ciascuno senza accorgersi dell’altro.

             A un tratto però tre gridi di terrore echeggiarono nella chiesetta buja.

             Lizio Gallo, credendosi solo ormai, s’era levato a sedere sul cataletto, imprecando al sagrestano e tastandosi la testa nuda. A quei tre gridi, urlò, anche lui, spaventato:

             – Chi è là?

             E, istintivamente, si ridistese sul cataletto, tirandosi di nuovo addosso la coltre.

             –    Compare… – gemette una voce soffocata dall’angoscia.

             –    Chi è?

             –    Cirlinciò?

             –    Quanti siamo?

             –    Porco paese! – sbuffò allora Lizio Gallo buttando all’aria la coltre e levandosi in piedi. – Per una berrettaccia di Padova! Quanti siete? Tre? Quattro? E voi, compare?

             –    Ma come! – balbettò Cirlinciò, appressandosi tutto tremante. – Non siete morto?

             –    Morto? Vorrei esserlo, per non vedere la vostra spilorceria! – gli gridò il Gallo, indignato, sul muso. – Come! non vi vergognate? Venire a spogliare un morto, come quel mascalzone del sagrestano! Ebbene, non la ho più, vedete? se l’è presa! E dire che l’avevo promessa a uno dei portantini… Non si può più neanche da morti esser lasciati in pace, al giorno d’oggi, in questo porco paese! Speravo di farmi rimettere i debiti… Ma sì! Quanti siete? tre, quattro, dieci, venti? Avreste la forza di tenere il segreto? No! E dunque facciamola finita!

             Li piantò lì, allocchiti, intontiti come tre ceppi d’incudine, e andò a tempestare di calci e di pugni la porta della sagrestia.

             – Ohe! ohe! Mascalzone! Sagrestano!

             Questi accorse, poco dopo, in mutande e camicia, con la lanterna in mano, tutto stravolto.

             Lizio Gallo lo agguantò per il petto.

             – Va’ a ripigliarmi subito la berretta, pezzo di ladro!

             – Don Lizio! – gridò quello, e fu per cadere in deliquio. Il Gallo lo sostenne in piedi, scrollandolo furiosamente.

             –   La berretta, ti dico, sporcaccione! E vieni ad aprirmi la porta. Non faccio più il morto.

La berretta di Padova – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
La berretta di Padova – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La berretta di Padova – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
La berretta di Padova – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

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