La balia – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Sentendo sonare quel giorno il campanello della porta, e parendole dalla scampanellata che fosse il postino, s’era recata ad aprire tutta contenta, al solito; ma a un tratto, senza aver avuto neanche il tempo d’accorgersi a chi avesse aperto, s’era trovata per terra, intronata da un terribile schiaffo.»

Prima pubblicazione: Nuova Antologia, 1 giugno 1903.

La balia
Dal Film La Balia di Marco Bellocchio, 1999. Maya Sansa (Annetta, la balia). Immagine dal web.

La balia

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

******

             I. – Finalmente! – esclamò la signora Manfroni, strappando di mano alla serva la lettera da Roma tanto sospirata, nella quale il genero, Ennio Mori, doveva darle tutti i minuti ragguagli promessi, intorno al parto recente della figlia Ersilia.

             Inforcò subito gli occhiali e si mise a leggere.

             Già sapeva da telegrammi precedenti, che il parto era stato laborioso, ma che tuttavia la figlia non correva alcun rischio. Ora però la lettera le dava a sapere che qualche rischio Ersilia veramente lo aveva corso e che anzi c’era stato bisogno d’un ostetrico. Questa notizia il Mori la dava non certo per affliggere i parenti della moglie, ora che tutto, bene o male, era passato; ma per lagnarsi della caparbietà di lei che, contro i suoi saggi consigli, s’era ostinata a portare fino all’ultimo il busto troppo stretto, i tacchi delle scarpe troppo alti.

             – Asino! i tacchi!

             E parecchie volte la signora Manfroni, friggendo, ripeté quell’asino! durante la lettura. A un tratto s’impuntò, più che mai stizzita, e levò gli occhi dalla lettera e guardò in giro, quasi cercasse qualcuno con cui sfogarsi.

             – Come? come?

             Ah, la balia non doveva essere romana? O perché no, signor avvocato Mori? Le balie romane hanno troppe pretensioni? Oh guarda, l’economia adesso! Come se la dote di Ersilia non potesse permettere un tal lusso al signor avvocato socialista. Eh già! e intanto che bella figura avrebbe fatto Ersilia per le vie di Roma con a fianco una zotica contadinotta siciliana da lavare a sei e a sette acque, parata da balia!

             – Asino! Asino! Asino!

             – Ohe! Non si mangia oggi? Perché la tavola non è ancora apparecchiata?

             Il signor Manfroni entrò, vociando così, al solito. Di là aveva già sgridato la serva e la cuoca.

             –    Piano, Saverio, piano… – disse la moglie. – Sai bene che c’è sempre un mondo da fare in casa nostra.

             –    Da fare? Voi? E io?

             –    Leggiti, leggiti la bella lettera del tuo carissimo genero, piuttosto.

             –    Ersilia?

             –    Sentirai.

             Il signor Manfroni si calmò di botto; scorse la lettera; poi, ripiegandola:

             – Benissimo! Ho la balia che ci vuole.

             Aveva di questi lampi il signor Manfroni, nei quali egli per primo s’abbagliava, e a cui doveva – a suo credere – la sua ingente fortuna commerciale. Con aria derisoria e di sfida la signora Manfroni domandò:

             –    Sarebbe?

             –    La moglie di Titta Manilio.

             –    La moglie di quell’avanzo di forca?

             –    Taci !

             –    La moglie di quel capopopolo? – Taci!

             –    La moglie d’un coatto!

             –    Lasciami dire! – gridò il Manfroni. – Sei donna tu e, per tua norma, qua, Domineddio, stoppa, stoppa, cara mia, ti ci ha mésso! stoppa in luogo di cervello. Con le belle condizioni sociali, nelle quali viviamo…

             –    Come c’entrano le condizioni sociali? – domandò, stordita, la moglie.

             –    C’entrano! C’entrano! – ribatté furiosamente il signor Saverio. – Perché noi, noi che siamo riusciti col lavoro assiduo e per… come si dice? perticace, cioè, no… sì, giusto dico, perticace, a metter da banda una sostanza qualsiasi, noi, oggi, per tua norma, di fronte all’avvenire che si fa man mano più torbido e minaccioso… hai capito?

             –    No! Che vuoi che capisca?

             –    E non te lo dico io? Stoppa!

             Afferrò una seggiola, l’accostò a quella su cui stava la moglie e vi sedette in gran furia, sbuffando.

             –    Io, Titta Manilio, – riprese, sforzandosi di parlar sotto voce, perché i servi non udissero, – io, Titta Manilio, per tua norma, lo scacciai dal panificio, per le sue idee rivoluzionarie.

             –    Come quelle del signor Mori, a cui hai dato tua figlia!

             –    Lasciami dire! – urlò il Manfroni. – E perché gli ho dato mia figlia, io? Prima di tutto perché Ennio è un ottimo giovine; poi, sissignora, perché socialista! sissignora! E mi è convenuto! e mi ha fatto gioco! Sai dirmi perché sono tanto rispettato, io, da tutta quella canaglia a cui do da mangiare? Stoppa! Ma qui Ennio non c’entra. Parlavamo di Titta Manilio. Lo scacciai dal panificio. Rimasto sul lastrico, il disgraziato, si regolò in modo da farsi mandare all’isola, a domicilio coatto. Ora io, ricco, ma con qui dentro qualcosa che batte e che, per tua norma, si chiama cuore, prendo sua moglie, la ficco in un vagone di terza classe e la spedisco a Roma, balia del mio nipotino!

             Poteva avere centomila ragioni il signor Manfroni, ma aveva anche su uno zigomo un ridicolissimo porro, sul quale la moglie appuntava gelidamente uno sguardo quanto mai dispettoso, quando si vedeva costretta a sottomettersi a quelle ragioni. E il signor Manfroni, nel vedersi ogni volta guardato il porro, provava un tale urto di nervi che, per non fare uno sproposito, troncava subito la discussione. Sonò il campanello e ordinò alla serva:

             – Di’ a Lisi che venga subito qua.

             Lisi, che fungeva da cocchiere e da servotto, si presentò su la soglia senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia e la bocca aperta a un riso muto, come soleva ogni qual volta i padroni lo chiamavano al loro cospetto.

             Il signor Manfroni, fin dal primo vederlo, aveva scoperto uno straordinario ingegno in questo ragazzo.

             –    Sai dove sta la moglie di Titta Manilio?

             –    Sissignore. Ho capito! – rispose Lisi, e sollevò una spalla e si contorse, mentre un sorriso scemo gli alzava quasi il bollo in gola.

             –    Che hai capito, animale? – gli gridò il Manfroni, che non era in vena d’ammirarlo, in quel momento.

             Lisi si storcignò di nuovo, come se il padrone gli avesse fatto un bel complimento, e rispose:

             –    Vado a dirglielo, sissignore.

             –    Dille che venga subito qua. Debbo parlarle.

             E, di lì a poco, il signor Manfroni ebbe una prova lampantissima del non comune ingegno di Lisi. Figurarsi che, mentre era ancora a tavola con la moglie, vide irrompere nella stanza Annicchia, la moglie di Titta, piangente di gioja, con un bambinello in braccio di circa due mesi.

             – Ah, signorino! signorino mio! si lasci baciare la mano!

             E, così esclamando, gli s’inginocchiò ai piedi. La serva, la cuoca s’erano affacciate all’uscio per assistere alla scena, e Lisi innanzi a loro rideva, trionfante, beato.

             Tra gli occhi e le sopracciglia del signor Saverio s’impegnò una viva lotta: quelli volevano sbarrarsi per lo stordimento improvviso, e queste contemporaneamente aggrottarsi dalla rabbia. Ritrasse subito la mano che la giovine inginocchiata voleva baciargli: guardò verso l’uscio e urlò:

             –    Fuori! No, tu qua, Lisi! Che le hai detto?

             –    Che Titta verrà! – esclamò Annicchia senza levarsi. – Che me l’ha liberato Lei, signorino mio!

             Il Manfroni balzò in piedi e brandì la seggiola:

             – Aspetta, canaglia!

             Lisi scappò via come un daino.

             – Non è vero? – fece Annicchia, appassendo, rivolta alla signora Manfroni. E si rialzò lentamente. Ci volle del bello e del buono per farle intendere che la liberazione del marito non dipendeva, né poteva dipendere in alcun modo dalla volontà o dalle amicizie del signor Manfroni, il quale, se lo aveva scacciato dal panificio, ella era testimonia di quanta longanimità avesse prima dato prova, unicamente per lei che, da bambina, gli era cresciuta in casa ed era stata compagna di giuoco d’Ersilia, tant’anni.

             Mentre il marito dava queste spiegazioni, la signora Manfroni osservava la giovine e, con l’immaginazione, la parava da balia e approvava col capo, approvava come se già la vedesse con un goffo zendado rosso in testa e uno spillone dai tremuli fiori d’argento tra i biondi capelli.

             Annicchia, allorché il Manfroni le espose la ragione per cui aveva mandato Lisi a chiamarla, restò tra stordita e perplessa.

             –    E questo mio bambinello? – disse, mostrandolo. – A chi lo lascio? Se lo strinse al seno; si mise a piangere di nuovo.

             –    Tata non torna, Luzzì! non torna!

             Infine, scoprendo la faccia lacrimosa, aggiunse, rivolta alla signora Manfroni:

             –    Non lo conosce; ancora non l’ha veduto, quest’angeletto che gli è nato.

             –    Potresti darlo ad allevare, con un po’ di quello che avrai da Ersilia.

             –   Oh, per la signorina Ersilia, – s’affrettò a dire Annicchia, – si figuri con che cuore lo vorrei fare! Ma… troppo lontano! a Roma!

             Il signor Saverio spiegò lì per lì che: Partenza! Pronti! col treno e col piroscafo, non c’erano più distanze, ormai.

             –   Sissignore, – disse Annicchia, – Vossignoria, dice bene; ma io sono una povera ignorante; mi sperderei. Non ho mai dato un passo fuori del paese. E poi, – aggiunse, – Vossignoria sa che ho con me la suocera: come potrei lasciarla, povera vecchia? Siamo restate noi due sole. Titta me l’ha tanto raccomandata! E se sapesse come viviamo! io, con le braccia legate da questa creaturina; lei vecchia di settant’anni! Volevo dare ad allevare il piccino e mettermi a servizio. Già, Titta non troverà più nulla della bella roba comperata quando sposammo: roba da poverelli, si sa, ma pulita. Svenduta, a questo e a quello… Ma la vecchia non vuole ch’io vada a servizio. È superba; non vuole. Però, essendo per la signorina Ersilia, forse… Ecco, potrei tentare di dirglielo.

             –    Sì, ma la risposta, subito. Dovresti partire domattina, al più tardi. Annicchia rimase ancora perplessa.

             –    Sentirò, e Le saprò dire sì o no, – disse in fine; e andò via.

             Abitava in una viucola lì presso. Già tutte le vicine, al tanto lieto quanto falso annunzio di Lisi, s’erano affollate nella nuda casetta a pian terreno, intorno alla vecchia madre del deportato che se ne stava seduta, tutta inarcocchiata, con un fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento e le mani nodose su un rozzo scaldino di terracotta posato su le ginocchia. Lodavano quelle il buon cuore e la generosità del Manfroni, e la vecchia, con la testa bassa, emetteva di tratto in tratto come un grugnito, non si sapeva se d’assenso o di dispetto, saettando con gli occhi certi sguardi che esprimevano diffidenza e fastidio. Quando Annicchia si presentò su la soglia e con l’aspetto e con le prime parole raggelò su le labbra delle vicine le frasi ammirative per il signor Manfroni, la vecchia suocera alzò la testa e guardò in giro con sdegno le vicine; poi, all’annunzio della proposta del Manfroni, si levò in piedi.

             – Che gli hai risposto?

             Annicchia volse uno sguardo alle vicine, come per dire: Fatele intender voi, che io debbo accettare.

             – Gli ho risposto che sarei venuta a dirvelo, mamma.

             –    Non voglio! Non voglio! – gridò subito, irosa, la vecchia.

             –    Non vorrei nemmeno io; ma…

             E di nuovo Annicchia si rivolse per ajuto alle vicine. Queste allora, un po’ l’una un po’ l’altra, cercarono di persuadere alla vecchia le ragioni per cui la nuora non avrebbe dovuto perder l’occasione che le si offriva di provvedere onestamente a sé, a lei, al bambino. Una, anzi, ch’era venuta col suo figliuolo in braccio, attaccato a un’enorme poppa:

             – Qua! qua! guardate, – si mise a gridare, – ho latte per due! Me lo piglio io, il bambino… Qua, guardate!

             E, cavando il capezzolo di bocca al poppante, sollevando con una mano la mammella, fece sprizzare il latte in faccia alle comari del vicinato che, ridendo e riparandosi con le braccia, si scostarono addossandosi l’una all’altra.

             Ma la vecchia non volle piegarsi; si ribellò a tutte le insistenze, gridando alla nuora:

             – Se vai, è contro la mia volontà, e ti maledico! Ricordatene.

*******

             II. L’avvocato Ennio Mori aspettava alla stazione l’arrivo del treno da Napoli. Piccolo di statura, inagrissimo, con le spalle in capo, sbuffava, impaziente, o si grattava la faccetta ossuta, dalla tinta itterica, invasa e quasi oppressa da una barba nera troppo cresciuta, o si aggiustava le lenti che non volevano reggerglisi sul naso, o si tastava di tanto in tanto le tasche del pastrano e della giacca piene di giornali. Si accostò a un ferroviere.

             –    Scusi, il treno da Napoli?

             –    E in ritardo di quaranta minuti.

             –    Ferrovie italiane! Cose da pazzi!

             E s’allontanò, in cerca d’un posto qualunque per sedere; là in fondo, sotto l’orologio, in qualche sporgenza del muro, poiché tutti i sedili erano ingombri. Gli toccava fare anche da servitore alla balia che doveva arrivare:

             – Cose da pazzi!

             Dopo due anni di matrimonio e di dimora in Roma, sua moglie era come uscita or ora da quella tribù di selvaggi dell’estremo lembo della Sicilia: non sapeva né muoversi per casa, né uscir sola per provvedere ai bisogni minuti della famiglia; non sapeva far altro che rimproverar lui dalla mattina alla sera, sempre imbronciata, e punzecchiarlo dove più si teneva: nella logica, nella logica; e affliggerlo con la più stupida e odiosa gelosia, non per amore, ma per puntiglio. Non si sentiva amata! E sfido! Che aveva mai fatto, che faceva per essere amata? Se pareva anzi che provasse gusto a farsi odiare! Mai una parola gentile, mai una carezza, mai! e sempre armata di diffidenza, spinosa, dura, arcigna, permalosa. Ah, parola d’onore, aveva fatto un bel guadagno a sposarla!

             – Cose da pazzi!

             Sbuffò, tornò ad aggiustarsi sul naso le lenti; trasse uno dei tanti giornali e si mise a leggere.

             Ma, pure in quella lettura, come in casa trattando con la moglie, non riusciva a trovare un momento di requie; e, quasi a ogni notizia, tornava a ripetere quella sua solita frase: – Cose da pazzi! – Seguitava a leggere, tuttavia; e, ogni giorno, non si dichiarava soddisfatto, se non aveva scorso da capo a fondo tutti i fogli più in vista di Roma e di Milano, di Napoli, di Torino, di Firenze, di cui aveva sempre così piene le tasche.

             – Medicina, – soleva dire. – Mi muovono la bile.

             Troppo, però! Eh, glielo aveva detto anche il medico. Troppo sì, forse; ma poi, non leggendo i giornali, lo spettacolo diretto dell’amenissima vita italiana, la compagnia della moglie, non gli avrebbero guastato il fegato peggio? Meglio dunque i giornali.

             – E questo maledetto treno da Napoli, insomma, arriva o non arriva?

             Guardò l’orologio; scattò in piedi, smarrito. Era trascorsa più di un’ora! S’avviò di corsa verso l’uscita. Dove trovare adesso quella poveretta, che doveva essere arrivata e non sapeva l’indirizzo di casa?

             Ma la trovò, per fortuna, nell’ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco. I doganieri cercavano di confortarla; le consigliavano di andare in questura, non conoscendo essi quell’avvocato moro, di cui ella parlava.

             –    Annicchia!

             –    Signorino! – gridò la poveretta, levandosi d’un balzo, alla voce. E per poco non lo abbracciò, dalla gioja. Tremava tutta.

             –    Perduta, signorino mio, perduta… E come avrei fatto io, se Vossignoria non veniva?

             –    Ma quel degnissimo galantuomo di mio suocero, – le gridò il Mori, – non poteva scriverti l’indirizzo di casa mia su un pezzettino di carta?

             –    Ma io non so leggere… – gli fece osservare Annicchia, che si sforzava di soffocare gli ultimi singhiozzi e si asciugava le lagrime.

             –    Cose da pazzi. Avresti potuto dare l’indirizzo a un vetturino, senza che m’incomodassi io a venire. Del resto, son venuto. Ero dentro la stazione. Non mi sono accorto dell’arrivo del treno. Basta.

             Montando in vettura, le raccomandò:

             –   Non far parola a mia moglie di quest’incidente. Succederebbe un casa del diavolo.

             Trasse di tasca un altro giornale e si mise a leggere.

             Annicchia si restrinse, per occupare nella vettura quanto meno posto le fosse possibile. Provava una gran soggezione, seduta lì, accanto al padrone, sola con lui. Ma fu per poco. Era addirittura intronata dal lungo viaggio, dalle tante e nuove impressioni che le avevano tumultuosamente investito la povera anima, chiusa finora e ristretta là, nelle abituali occupazioni dell’angusta sua vita. Non ricordava più nulla; non pensava, non vedeva più nulla; sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo, da Palermo a Napoli, lo sgomento della furia del treno. Ov’era giunta? Si provava a guardar fuori della vettura; ma gli occhi le dolevano. Avrebbe avuto tanto tempo di veder Roma, la grande città dov’era il Papa! Intanto, già si trovava accanto a uno ch’ella conosceva, e tra poco avrebbe riveduto la «signorina sua» e si sarebbe di nuovo sentita quasi nel suo paese. Sorrise. Le si affacciò per un istante al pensiero il figliuolo lontano, la vecchia suocera, ma ne scacciò subito l’immagine per il bisogno istintivo di non turbarsi quel momento di sollievo dopo le lunghe sofferenze angosciose del viaggio.

             –    A Napoli, – le domandò a un tratto il Mori, – è venuto qualcuno a rilevarti sul piroscafo?

             –    Ah, sissignore! Un galantuomo! Tanto buono… – s’affrettò a rispondergli Annicchia – Anzi mi ha comandato di salutarla.

             –    Ti ha comandato?

             –    Sissignore, di salutarla.

             –    Ti avrà pregato.

             –    Sissignore; ma… un padrone mio…

             Ennio Mori sbuffò e si rimise a leggere il giornale.

             –    Medicina, medicina!

             –    Come dice? – arrischiò, timidamente, Annicchia.

             –    Niente: parlo con me.

             Annicchia rimase un po’ perplessa, poi aggiunse:

             –    Anche a Palermo è venuto alla stazione un altro galantuomo che mi ha poi accompagnata fino al vapore: tanto buono anche lui.

             –    E t’ha comandato anche lui di salutarmi?

             –    Sissignore, anche lui.

             Il Mori abbassò su le gambe il giornale, si aggiustò sul naso le lenti e le domandò, accigliato:

             –    Tuo marito?

             –    Sempre là! – sospirò Annicchia. – All’isola! Ah, se Vossignoria che sta qui a Roma, che c’è il Re…

             –    Sta’ zitta! – la interruppe, di scatto, il Mori, come se, nominando il re, quella poveretta gli avesse pestato un piede.

             –    Basterebbe una parolina… – osò d’aggiungere Annicchia, sommessamente.

             –    Cose da pazzi! – sbuffò di nuovo il Mori, così urtato, che spiegazzò il giornale che teneva su le gambe e lo buttò fuori della vettura. – Credi che ci abbiano mandato soltanto tuo marito, a domicilio coatto? Ci mandano anche noi!

             –    I signori? – domandò Annicchia, stupita e incredula. – Come ce li mandano i signori?

             –    Sta’ zitta! – replicò il Mori, a cui riusciva addirittura insopportabile quella supina ignoranza.

             E si mise, fosco, a riflettere su l’impresa disperata di dare una nuova coscienza a quell’infima gente della sua Sicilia, in cui era così profondamente radicato il sentimento della servilità.

             La carrozza, alla fine, giunse in Via Sistina, ove il Mori abitava.

             Ersilia era ancora a letto. Sotto il roseo parato a padiglione dell’ampio letto, tra il candore dei guanciali e de’ merletti, appariva più bruna di carnagione, quasi nera, immagrita com’era dalle doglie del recente parto.

             Annicchia corse ad abbracciarla festosamente.

             –    Signorina! Signorina mia! Eccomi qua… Mi pare un sogno! Come sta? Ha sofferto molto, è vero? Oh, figlia mia! Si vede… Non si riconosce più… Mah, così vuole Dio: noi donne siamo fatte per patire.

             –    Un corno! – protestò Ersilia. – Che stupide, le donne… Tutte così! Ci provate gusto, è vero? a ripetere che noi donne siamo fatte per patire. E a furia di ripeterlo, eccoli qua, i signori uomini, credono davvero, adesso, che nojaltre dobbiamo stare al loro servizio, per il loro comodo e per il loro piacere. Noi le schiave, è vero? e loro i padroni. Un corno!

             Ennio Mori, a cui era diretta la botta, ripiegò furiosamente il terzo giornale, sbuffò e uscì dalla camera. Annicchia guardò la padrona, un po’ impacciata, e disse:

             –    Anche loro, poveretti, hanno tanti guaj…

             –    Dormire, mangiare e andare a spasso. Vorrei fare un po’ il cambio, io. Ah, uomo, uomo, e cieco d’un occhio!

             –    Certo, quando abbiamo finito da poco di patire per loro…

             –    No, sempre! Li odio tutti!

             A questo punto, s’intese dall’altra stanza un grido di Ennio Mori:

             – L’universo mondo!

             A cui subito rispose un altro grido:

             – Eccomi, signorino! Mi comandi.

             Ersilia scoppiò a ridere e spiegò ad Annicchia:

             – Ho la serva sorda. Appena si grida un po’, si sente chiamata. Margherita! Margherita!

             Su la soglia si presentò la vecchia sorda, con un’aria tra di offesa e di stralunata. Di là, il Mori, con gli occhi fuori del capo, le aveva fatto un gesto… un certo gesto sguajato.

             – Senti, Margherita, – riprese Ersilia. – Questa è la balia, arrivata adesso… adesso, sì. Bene: ora tu insegnale la sua camera. Hai capito? Andrai a lavarti, – aggiunse, rivolgendosi ad Annicchia, – sei tutta affumicata.

             Annicchia sporse il capo per guardarsi nello specchio dell’armadio e subito esclamò, con le mani per aria:

             – Mamma mia!

             Il fumo della ferrovia e le lagrime versate alla stazione le avevano insudiciato il volto. Prima d’andare a lavarsi, volle però raccontare alla «signorina sua», con vivacissimi gesti e frequenti esclamazioni, che facevano sbarrare tanto d’occhi alla serva sorda, le peripezie del viaggio di mare, poi di quello in ferrovia, e come a un certo punto, sentendosi scoppiare il seno per la furia del latte, si fosse messa a piangere come una bambina. I compagni di viaggio le domandavano che avesse; ma ella si vergognava a dirlo; alla fine, quelli capirono; e allora un giovinastro le propose di succhiarle lui il latte – malcreato! – e già le stendeva, ridendo, le mani al petto. Ella, gridando, aveva minacciato di buttarsi dal finestrino del vagone. Ma poi, per fortuna, alla prima fermata del treno, un vecchio ch’era lì accanto a lei, l’aveva condotta a un altro scompartimento, dove c’era una donna che aveva con sé una bambinuccia di tre mesi, misera misera, alla quale finalmente aveva potuto dar latte, sentendosi man mano rinascere.

             Ersilia credeva d’aver già preso l’aria della «continentale» ed ebbe perciò fastidio di quelle vive, ingenue espressioni di pudor paesano.

             –    Basta, a lavarti, ora! Poi mi dirai della mamma e del babbo. Va’, va’.

             –    E il bambinello? – chiese Annicchia. – Non me lo vuol far vedere? Lo vedo e me ne vado.

             –    Là, – disse Ersilia, indicando la culla. – Ma tu no, non toccare il velo con le mani sporche. Su, Margherita, faglielo vedere.

             Tra tanta ricchezza di nastri, di veli, di merletti, Annicchia vide un mostriciattolo dal volto paonazzo, più misero di quella bimba a cui aveva dato latte in treno. Pure esclamò:

             –   Bello! Bello! Coruccio mio, dorme come un angioletto… Vossignoria vedrà quanto glielo farò diventare… Anche il mio Luzziddu era nato così, piccolo piccolo, e ora, se lo vedesse!

             S’interruppe, commossa:

             – Vado e torno, – poi disse; e seguì la serva nell’altra camera.

*******

             III. Avrebbe voluto attaccarsi subito al seno il piccino; il padrone era d’accordo con lei; ma Ersilia che doveva in tutto contrariare il marito, nossignore, volle prima che un medico esaminasse il latte.

             – C’è bisogno del medico? – disse Annicchia, ridendo. – Non vede come sto?

             Era raggiante di salute, fresca e rosea.

             Ersilia, dal letto, la guatò odiosamente, come se ella, con quelle parole, avesse voluto attirare l’attenzione del marito.

             – Il medico! Voglio subito il medico! – insistette.

             E il Mori, borbottando la sua solita frase, dovette andare per il medico.

             Questi venne verso sera, quando già Annicchia spasimava di nuovo per il seno inturgidito, e il bambino, che non riusciva ad attaccarsi a quello, del resto, arido della madre, trangosciava, affamato.

             Ennio avrebbe voluto assistere alla visita; ma la moglie lo cacciò via:

             –    Che hai da vedere? Di’ piuttosto a Margherita che porti un cucchiajo e un bicchier d’acqua.

             –    Bionda, eh?… bionda… bionda… – diceva, intanto, il medico che aveva in vezzo ripetere tre e quattro volte di seguito la stessa parola, guardando con aria astratta, come se stentasse ogni volta a fissare il pensiero.

             Annicchia, nel vedersi osservata a quel modo, diventò rossa come un papavero.

             – Bionda, eh? diciamo, gentilissima signora, – seguitava intanto il medico, bionda, è vero? gentilissima signora… Bella giovane., bella, e pare sana, anche sana… Ma bruna, eh, bruna, bruna sarebbe stata meglio… Il latte delle brune, sicuro, il latte delle brune… Basta, vediamo un po’.

             Fece alzare il capo ad Annicchia e le esaminò le glandule del collo; dopo altre osservazioni, distratto, cominciò a sbottonarle il corpetto. Annicchia, tremante di vergogna, stupita e imbarazzata, cercò di impedirglielo, riparandosi il seno con le mani.

             –    Cava, eh? cava fuori, – le disse il medico. Ersilia scoppiò a ridere.

             –    Perché… perché ri… perché ride, gentilissima signora?

             –    Ma non vede come si vergogna codesta sciocca? – gli fece notare Ersilia.

             –    Di me? Io sono il medico!

             –    Non c’è avvezza, – riprese Ersilia. – E poi le nostre donne, sa, noi siciliane non siamo mica come le donne di qua.

             –    Ah, – fece subito il medico, – capisco, capisco… so bene, so bene… più pudibonde, eh? più pudibonde… Ma io sono il medico; un medico è come il confessore. Vediamo un po’: spremi tu stessa qualche goccia in questo cucchiajo. Quanto tempo ha il tuo figliuolo?

             –    L’ho comprato, – rispose Annicchia, sforzandosi a guardarlo in volto, – che saranno due mesi.

             –    L’hai comprato? che dici?

             –    Come debbo dire?

             –    Ma fatto, figliuola mia, fatto… I figliuoli si fanno si fanno… Che c’è di male?

             Quando il medico finalmente, dopo l’esame del latte, andò via, Annicchia si abbandonò su una seggiola, sfinita, come se avesse sostenuto una tremenda fatica:

             – Ah, signorina mia, che vergogna! mi sentivo morire.

             Poco dopo, udendo vagire il bambino, corse alla culla e subito gli porse il petto.

             – Tie’, saziati, figlio bello mio, animuccia mia!

             Ersilia, dal letto, la guatò di nuovo: le vide i biondi capelli dorati, spartiti nel mezzo, in due bande che si ripiegavano sugli orecchi e le incorniciavano il volto delicato; le intravide il seno meravigliosamente bianco e formoso; e le disse, stizzita:

             –    Sarebbe stato meglio custodirlo, prima; e poi dargli il latte per addormentarlo.

             –    Lo lasci succhiare, poverino! – esclamò Annicchia. – Ha proprio fame! Se sentisse come succhia, come succhia!

             Poco dopo, nella camera accanto, destinata a lei e al piccino, non rifiniva d’esclamare, ammirando la mobilia e i cortinaggi:

             – Gesù! che cose, a Roma! che cose!

             E si sentì impacciata davanti a quel letto nuovo, così bello, apparecchiato per lei. Ricordò allora l’impaccio più vivo provato, due anni addietro, alla vista di un altro letto, nel quale per la prima volta avrebbe dovuto coricarsi non più sola; rivide col pensiero la sua casetta lontana, com’era già, allorché Titta, senza quelle ideacce cattive che lo avevano rovinato, l’aveva messa su, amorosamente, per le nozze; com’era adesso, squallida e nuda, con due seggiole appena e un letto solo, per lei e per la suocera.

             Ora la vecchia laggiù lo aveva tutto per sé, quel letto a due, poiché forse il bambino dormiva in casa della vicina. Povero Luzziddu, così piccino, là, fuori di casa, e con la mamma sua così lontana! Certo quella donna non poteva aver per lui le cure che aveva per il proprio figliuolo; e Luzziddu, messo da parte, doveva aspettar quieto quel po’ che avanzava: lui, lui che finora aveva avuto tutta per sé la mamma sua!

             Annicchia si mise a piangere; ma poi, temendo che qualcuno se n’avvedesse, asciugò le lagrime e, per confortarsi, pensò che lì presso, a guardia c’era la nonna, la quale, all’occorrenza, avrebbe saputo farsi valere, con quel suo fare cupo e imperioso. Degna madre di Titta! Ma buona, in fondo, com’era buono

             Titta; certo col tempo si sarebbe convinta che, se la nuora aveva osato disobbedirle, vi era stata costretta dalla necessità e per il bene di tutti.

             Ora, per dimostrare quasi a se stessa ch’era stato un sacrifizio il suo e che, nel compierlo, aveva pensato soltanto al bene degli altri e non al suo, avrebbe voluto dormire magari per terra e non lì, su quel letto signorile, sotto quel cortinaggio: il piccino, lì, poiché tutta quella ricchezza era profusa per lui; e lei per terra, come una cagna. Non le dava proprio l’animo di entrare sotto quelle coperte, pensando allo strame su cui giaceva il suo Luzziddu e a quello della suocera.

             Ma, di lì a pochi giorni, il goffo e pomposo abbigliamento recato dalla sarta doveva maggiormente offenderla in quel suo segreto sentimento. Erano proprio per lei tutte quelle galanterie, grembiuli ricamati, nastri di raso, spilloni d’argento? E doveva uscire così, come se dovesse andare a una mascherata?

             Ersilia, che già s’era levata di letto, si stizzì acerbamente:

             –    Uh, quante smorfie! Me l’aspettavo. Qua usa così, e così devi vestire, ti piaccia o non ti piaccia.

             –    Come comanda Vossignoria, – s’affrettò a risponderle Annicchia, per calmarla. – Mi perdoni. Vossignoria ha speso tanti bei denari per me che non merito nulla. E poi, che c’entra? Vossignoria è la padrona… Dicevo, che mi sembra curioso… perché nel nostro paese…

             –    Qua siamo a Roma, – troncò Ersilia. – Del resto, stai benissimo.

             Era vero. Il rosso acceso dello zendado dava un vivo risalto al biondo dei capelli, all’azzurro degli occhi limpidi e gaj. Ersilia era certa che, uscendo a passeggio con lei, avrebbe fatto una pessima figura; ma la vanità, l’ambizione di aver la balia parata riccamente, erano più forti in lei della stessa gelosia.

             La condusse con sé, la prima volta, in carrozza.

             Annicchia, infocata in volto dalla vergogna, teneva gli occhi bassi, sul piccino che le giaceva in grembo. Ersilia intanto notava che tutti per via si fermavano e si voltavano a mirarla.

             – Su, su, – le disse, – tieni alta la testa. Non diamo spettacolo! Pare che t’abbiano schiaffeggiata!

             Annicchia si provò ad alzare gli occhi e a tener alta la testa. A poco a poco, la maraviglia dello spettacolo insolito e grandioso della città le fece scordar la vergogna, e si mise a guardare come allocchita, dove Ersilia le indicava.

             – Gesù, Gesù, – mormorava tra sé Annicchia, – che cose grandi! che cose… Rientrò in casa, da quella prima passeggiata, stordita, quasi vacillante, con

             gli orecchi che le ronzavano, come se fosse stata in mezzo a un tumulto e avesse faticato tanto a uscirne. E si sentì di gran lunga, di gran lunga più lontana dal suo paese, come non si sarebbe mai immaginato, e quasi sperduta in un altro mondo, che non le pareva ancor vero.

             – Gesù! Gesù!

             Intanto, di là, il Mori dava a leggere alla moglie una lettera arrivata dalla Sicilia, durante l’assenza di lei.

             La signora Manfroni scriveva alla figlia che la vecchia Marnilo le aveva rimandato il denaro che ella, secondo l’accordo con Annicchia, le aveva anticipato sulla prima mesata del baliatico: la vecchia non aveva voluto neanche vederlo da lontano; piuttosto, diceva, sarebbe morta di fame o sarebbe andata a mendicare di porta in porta un tozzo di pane. Intanto, era venuta la vicina, a cui Annicchia aveva affidato il bambino, a protestare contro quella vecchia strega, che non le voleva dar nulla, neanche per provvedere ai bisogni della creaturina. La signora Manfroni aggiungeva che aveva dato a quella vicina metà della mesata, a patto però ch’ella desse ogni giorno alla vecchia, come carità che partisse da lei, un piatto di minestra per non farla proprio morir di fame. Consigliava alla figlia di non stare a mandar l’altra metà che la Manilio non avrebbe mai accettato, e concludeva dichiarandosi dolentissima d’essersi cacciata in questo impiccio per aver voluto seguire il consiglio altrui.

             –    Il tuo bel consiglio! – scattò Ersilia, ripiegando la lettera. – Non devi farne mai una giusta!

             –    Io? – rimbeccò Ennio. – E che ho forse scritto alla tua degnissima signora madre che mi scegliesse per balia la nuora d’una pazza furiosa?

             –    No; ma di volere una balia siciliana! Se non avessi avuto questa splendida idea, non ci troveremmo ora in questi impicci. Del resto, va’ là, va’ là che ti piace, e molto, la balietta siciliana! Già me ne sono accorta.

             Il Mori sgranò tanto d’occhi.

             –    La balia di mio figlio?

             –    Grida, grida: fa’ sentire tutto di là..

             –    Prima mi pungi, e poi vuoi che non gridi? Anche gelosa della balia di mio figlio, adesso? Sei pazza?

             –    Tu sei pazzo! Avessi tu tanto sale qui, quanto ne ho io! Intanto, che si fa? che dobbiamo farne, di questo denaro?

             –    Non vorrai mica, spero, spiattellarle che sua suocera lo rifiuta.

             –    Ma figurati! Darle questo dispiacere? Me ne guarderei bene!

             Il Mori perdette la pazienza e, scrollandosi rabbiosamente, andò via.

*******

             IV. Gli toccava, ora, anche questo: privarsi di fare una carezza, finanche di volgere uno sguardo al suo piccino, perché la moglie sospettava già che la balia potesse interpretar quelle carezze, quegli sguardi come rivolti a lei.

             – E perché, – gli domandava ella, infatti, – perché non ti compiaci di tuo figlio quando sta in braccio a me, e vai invece a fargli tante smorfie quando sta con quella?

             Sdegnato, avvilito di quell’ingiusto e odioso sospetto, Ennio le gridava:

             – Ma se con te non ci sta mai!

             Il bambino, ogni qual volta ella se lo prendeva in braccio, si metteva a piangere e tendeva le manine alla balia. Forse ella lo teneva male, non tanto perché non ci fosse avvezza, quanto per timore che potesse averne sporcate le ricche vesti da camera di cui faceva grande sfoggio.

             Quantunque non ricevesse mai visite e di rado uscisse di casa, pure spendeva enormemente per gli abiti, dei quali alla fine restava sempre scontenta, come di tutto e di se stessa. Si sentiva, ed era forse davvero infelice; ma di questa sua infelicità incolpava gli altri, anziché la propria indole scontrosa, l’aspro carattere, la mancanza di ogni garbo. Era convinta che se si fosse imbattuta in un altr’uomo che l’avesse amata e compresa, non avrebbe sentito tutto quel vuoto che sentiva dentro e attorno a sé. Ora le era venuto in uggia finanche il bambino, perché questi dimostrava di voler più bene alla balia che a lei. E non passava giorno che, anneghittita in quell’ozio, non piangesse di nascosto. Il marito le vedeva qualche volta gli occhi gonfi e rossi, ma fingeva di non accorgersene; schivava quanto più poteva di parlare con lei, ormai certo che, per quanto dicesse o facesse, non sarebbe riuscito a ispirarle, a comunicarle quell’affetto per la vita, di cui ella sentiva il desiderio smanioso, ma del quale nello stesso tempo la riteneva incapace. Se l’aspettava dagli altri, la vita, senza intendere che ciascuno deve farsela da sé. Del resto, se era infelice, non meno infelice era lui che doveva viverci insieme. Bella esistenza, la sua! Tutto il giorno tappato lì, nello studio. Meno male che, di tanto in tanto, venivano a trovarlo gli amici del partito, coi quali poteva almeno sfogarsi, discutere liberamente.

             Durante quelle discussioni, il vecchio scrivano dello studio era mandato in sala. S’inchinava, ogni volta, profondamente, il signor Felicissimo Ramicelli a quei signori rivoluzionarii e usciva con molta dignità. Appena varcata la soglia però, e richiuso l’uscio, strizzava un occhio, sollevava un piede e si stropicciava contentone, le mani; poi, rizzandosi le punte dei baffetti ritinti, andava a seder su la panca della sala d’ingresso, con la speranza che vi capitasse Annicchia, la bella balietta siciliana.

             Già aveva tentato d’attaccar discorso con lei:

             – Sai come mi chiamo? Felicissimo.

             Ma Annicchia pareva non capisse; gli voltava le spalle; e il signor Ramicelli diceva allora a se stesso:

             «Felicissimo, eh già! Ma di che?».

             Gli avevano imposto, come un augurio, questo bel nome superlativo. – Grazie! – ma, proprio, nella vita, non aveva trovato mai di che dichiararsi, non che felice, ma neppure appena appena contento, il signor Ramicelli. Guadagnava otto lirette al giorno, che gli sarebbero bastate forse, se non avesse avuto un vizietto… un certo vizietto…

             – Eh, come si fa? Le belle donnine…

             Queir Annicchia, per esempio, che bocconcino! Ogni qualvolta la vedeva, si sentiva toccar l’ugola. E gli pareva anche una buona ragazza: gli pareva, intendiamoci! perché tutte le balie, si sa: ragazze andate a male, roba da… da guerra, là!

             Annicchia, notando le occhiate, i lezii da scimmia del signor Ramicelli, non sapeva se dovesse riderne o aversene a male. Le sembrava tanto curioso quel vecchietto ancora così biondo! Certo, se non era già andato via col cervello, poco ci doveva mancare.

             Là, nella saletta d’ingresso, ella tentava di mettere a prova i piedini del bimbo, reggendolo sotto le ascelle. Non era ancor riuscita, dopo sei mesi, a pronunziare correttamente il nome che il Mori aveva imposto al bambino: Leonida. Lo chiamava Nònida.

             –    Ma che Nònida! – le diceva il signor Ramicelli, per stuzzicarla. – LE-O-nida.

             –    Io non so dirlo.

             –    E Felicissimo? Non sai dirlo neppure Felicissimo? Mi chiamo proprio così, sai?

             Annicchia si riprendeva in braccio il bambino e andava via dalla saletta, dicendo:

             –    Non ci credo.

             –    E neppure io, – concludeva, filosoficamente, il signor Ramicelli, che restava lì ad aspettare che la discussione nello studio terminasse.

             – Tattica… Farabutti… L’educazione del proletariato… Programma minimo… – Queste e simili espressioni giungevano, di tratto in tratto, a gli orecchi del Ramicelli, il quale scoteva malinconicamente il capo e si volgeva piuttosto a guardare verso l’uscio per cui era andata via la balia, e sospirava. Gli giungeva di là, qualche volta, una certa ninna-nanna paesana, che Annicchia cantava con voce dolce e malinconica, forse pensando al suo bambino, e guardando intanto questo che già, col suo latte, s’era fatto grosso e bello, anche più grosso di quanto aveva lasciato il suo, là! Ah, un gigante, certo, si sarebbe fatto, povero Luzziddu, se ella avesse potuto allattarlo! E invece… chi sa! Le passavano tante brutte ideacce per il capo! Spesso se lo sognava infermo, magro magro, pelle e ossa, col colluccio vizzo e un testone da rachitico che gli s’abbandonava ora su una spalluccia ora sull’altra e gl’ingrossava di punto in punto, mentr’ella stava a contemplarlo, raccapricciata, allibita: – Questo, il mio Luzziddu? così s’è ridotto? – E voleva, nel sogno angoscioso, dargli il suo latte, subito subito; ma il bambino allora la guardava con gli occhi cupi, truci della nonna, e voltava la faccia, rifiutando il seno ch’ella gli porgeva. Che strazio! Si destava col cuore in gola, e fino a giorno non riusciva a togliersi dagli occhi l’immagine del figliuolo ridotto in quello stato.

             Non ardiva più, intanto, di parlarne alla padrona che già più volte le aveva risposto male, forse perché urtata dalla sua soverchia insistenza, o forse perché temeva ch’ella – pensando troppo alla sua creaturina – trascurasse il bimbo. Ma questo no, in coscienza: non poteva, né doveva dirlo: eccolo qua Nònida, florido e vispo!

             Annicchia quasi quasi non sapeva più riconoscere nella padrona d’oggi la signorina Ersilia d’un tempo, così malamente si vedeva trattata: peggio d’una serva. Faceva di tutto per lasciarla contenta, si piegava a tanti servizii a cui non era obbligata, ora che Margherita, la sorda, era andata via; e si sforzava di parere allegra e di rincorare anche la padrona che dava in ismanie e si disperava per ogni nonnulla.

             – Eccomi qua, ci sono io, faccio tutto io, signorina mia, non si confonda. Avrebbe voluto, in compenso, un po’ più di considerazione. Per esempio,

             quando arrivavano le lettere dalla Sicilia… Gliele recava lei, tutta contenta, esultante:

             –    Signorina! Signorina!

             –    Che c’è? Hai preso un terno al lotto?

             La agghiacciava, ogni volta, con quelle parole. Stava ad aspettare ch’ella finisse di leggere la lettera, sperando che le desse subito notizia del suo bambino; ma che! nulla; doveva domandargliene lei, quando le vedeva rimettere il foglio nella busta.

             –    E di Luzziddu, niente?

             –    Sì; dice che sta bene.

             –    E mia suocera, mia suocera?

             –    Anche.

             Doveva contentarsi di queste risposte. Ma possibile che di laggiù non le mandassero a dire altro? Ah come si pentiva adesso di non avere imparato a scrivere! Aveva, sì, supposto, partendo, che la lontananza le sarebbe riuscita penosa; ma tanto poi no: era un vero supplizio, così!

             Il bambino però, tra pochi giorni, avrebbe compiuto sette mesi: a nove, per volontà del padre, doveva essere svezzato: dunque, due mesi ancora di quelle sofferenze. Pazienza!

             Non s’aspettava, confortandosi e rassegnandosi così alla mala sorte, quel che doveva accaderle proprio nel giorno che il bambino compiva il settimo mese: giorno di doppia festa, perché a Nònida era anche spuntato il primo dentuccio.

             Sentendo sonare quel giorno il campanello della porta, e parendole dalla scampanellata che fosse il postino, s’era recata ad aprire tutta contenta, al solito; ma a un tratto, senza aver avuto neanche il tempo d’accorgersi a chi avesse aperto, s’era trovata per terra, intronata da un terribile schiaffo. Titta Manilio, il marito, pallido, scontraffatto dall’ira, le era sopra, con un piede alzato, per pestarle la faccia.

             – Brutta cagna! Dov’è il tuo padrone?

             Al grido, accorsero il Mori, la moglie, il signor Ramicelli. Titta Marnilo, pallido come un morto, si accostò al Mori, gli prese il bavero della giacca e, scrollandoglielo pian piano:

             –    Mio figlio è morto, sai? Morto! – aggiunse, voltandosi verso Annicchia che aveva cacciato un urlo. – E tu ora, che vuoi fare? Me lo paghi o vuoi darmi il tuo?

             –    E pazzo! – gridò Ersilia, tremando, spaventata.

             Il Mori respinse con un urtone il Marnilo, indicandogli la porta, furente nel corpicciuolo nervoso:

             –    Via! – gridò. – Mascalzone! Esci di casa mia, subito!

             –    Che fai? – gli disse il Manilio, venendogli avanti, a petto. – Io non ho più nulla da perdere, bada! Mia madre è all’ospedale; mio figlio è morto! Sono venuto a sputarti in faccia e a prendermi questa cagna. Su alzati! – aggiunse, rivolgendosi alla moglie che stava ancora buttata a terra.

             Ma, a questo punto, il Ramicelli ch’era scappato via, non visto, ritornò ansante e spaventato, insieme con due guardie di questura, alle quali subito il Mori, che tremava tutto di rabbia, si rivolse, concitatissimo:

             – Via! conducetelo via! E venuto a insultarmi, a minacciarmi fino in casa, codesto mascalzone!

             Le due guardie afferrarono per le braccia il Marnilo che cercava di svincolarsi, gridando: – Io voglio mia moglie! – e lo trascinarono via, seguiti dal Morì, che volle recarsi in questura a denunziare l’aggressione patita.

*******

             V. Il giorno dopo, senza fretta, arrivò la lettera della signora Manfroni, che annunziava la morte del bambino e la malattia della vecchia Manilio. Di Titta, nessun cenno.

             Il Mori suppose dapprima ch’egli fosse evaso dal domicilio coatto; ma poi venne a sapere che era stato graziato per intercessione del prefetto, a cui la madre, ammalata, aveva rivolto una supplica dall’ospedale. La questura di Roma, intanto, lo aveva rimandato in Sicilia, sotto la minaccia che sarebbe tornato al suo luogo di pena, se laggiù avesse minimamente tentato di sottrarsi alla sorveglianza speciale, a cui era stato sottoposto per tre anni.

             Ad Annicchia per lo spavento del marito e lo strazio della morte del figlio, era sopravvenuta una fierissima febbre. Parve per tre giorni che volesse impazzire; poi il delirio, le allucinazioni cessarono; rimase come stordita, in un istupidimento che costernava anche più delle furie di prima. Guardava, e pareva non vedesse; udiva ciò che le si diceva, rispondeva di sì col capo o con la voce, ma poi dimostrava di non aver compreso.

             Il latte le era venuto meno; e il bambino si era dovuto svezzare. Tutta la casa era sossopra. Ersilia, inesperta, inetta a tutto, aveva dovuto vegliar due notti il bambino che voleva la balia e non si quietava un momento; aveva dovuto anche attendere alla casa, dar le prime istruzioni alla nuova serva; badare anche un po’ alla malata; ed era su le furie contro il marito, che si guardava attorno, con un giornale in mano, senza saper che fare. Ma che avrebbe potuto fare?

             – Che? – gli gridava la moglie. – Ma muoverti, darti attorno! Non vedi che io sono qua sola, senza nessuno; col bambino in braccio; e non posso badare anche a lei che mi ha cagionato tutto questo scompiglio? Va’, esci, procura di trovarle posto in qualche ospedale!

             Ennio, a tale proposta, si fermava a guardarla, trasecolato:

             –    All’ospedale?

             –    Pietà, compassione? – riprendeva Ersilia, inviperita. – Per lei, è vero? non per me, che non dormo più da tante notti, che non trovo più neanche il tempo da pettinarmi. Devo far la serva a tutti? Ma aspetta che si rimetta in piedi, e ti farò vedere. Neanche un giorno, neanche un giorno, neanche un minuto deve rimanere più in casa mia!

             Non ebbe però il coraggio di porre a effetto questa minaccia, appena Annicchia si fu un poco rimessa. Tentò di muovergliene il discorso, dichiarandole che teneva a disposizione di lei il danaro che la suocera aveva rifiutato; ma Annicchia le rispose:

             – E che vuole che me ne faccia più, oramai? Non ho più che questo qua, ora! E si strinse al seno Nònida, ch’era tornato a lei e le dimostrava lo stesso

             amore, quantunque divezzato.

             La prima volta che la serva glielo recò lì a letto, ne provò una viva repulsione; per lui il suo bambino era morto! Ma poi, commossa dall’amorosa impazienza con cui il piccino ignaro le tendeva le manine, se lo abbracciò stretto stretto, come si sarebbe abbracciato il suo stesso figliuolo, e sciolse il cordoglio che la soffocava in un pianto senza fine.

             Il piccino le cercava ancora il seno.

             –   Ah figlio, ah figlio! che vuoi più da me? non ho più nulla, io, non posso dar più nulla, io, né a te né a nessuno… Finì la mamma tua, amore mio, finì! finì!…

             Ah se almeno avesse potuto sapere con certezza come, perché fosse morto il suo bambino, se per mancanza di nutrimento o per qualche male non curato. Doveva rassegnarsi così, senza saperne nulla, più nulla? Possibile? Come fosse morto un cagnolino! Oh povero innocente abbandonato, senza la mamma sua accanto, senza il padre, senza nessuno, morto lì, fra mani estranee, oh Dio! oh Dio!

             Ma chi si curava, ora, della sua pena? La padrona, anzi, era in collera con lei, per via del figlio, privato improvvisamente del latte, a soli sette mesi: e aveva ragione, sì, perché anche lei era mamma e non poteva darsi pensiero che del suo figliuolo. Che importava a lei che quell’altro fosse morto? Dispetto poteva sentirne, non dolore. «Sì, ma deve pure comprendere», pensava Annicchia, «che il suo figliuolo appartiene, ora, anche a me: che se ella ci ha messo la pena di farlo, io ci ho rimesso il figlio per lui: e ora non mi resta più altro.»

             Per quanto a Ersilia non dispiacesse di sottrarsi al fastidio del bambino, pure non voleva che questo s’affezionasse di più a colei, che già lo considerava come suo. E si raffermava sempre più nel proposito di mandarla via. Del resto, che obbligo aveva di tenerla ancora? Non era adatta né a far da serva né da bambinaja. Ella poi voleva che il suo piccino imparasse a parlar bene l’italiano, e, con quella accanto, che parlava soltanto in dialetto, non sarebbe stato possibile. Dunque, via! via! O doveva forse tenerla perché desse spettacolo della sua bellezza al marito? Via! via! E il marito stesso doveva licenziarla.

             –    Io? Perché io? – le disse il Mori.

             –    Perché tu sei il capo di casa. E poi, perché non so che cosa ella si sia fitto in mente, per la pietà, per la commiserazione che tu hai voluto dimostrarle in questa occasione.

             –    Io? – ripetè Ennio. – Non le ho dimostrato nulla, io.

             –    L’avrà forse creduto lei, allora. Per me fa lo stesso. Non vedi? Crede già di essere a casa sua. Le madri così, qua, le padrone di casa, saremmo due. Ora, se questo può piacere a te, a me non piace!

             Ennio, pur sapendo che faceva peggio, si provò ancora una volta a ragionare:

             – Ma scusa: perché vuoi ostinarti a vedere il male dove non è, a crearti fantasmi odiosi, quando io, con la mia vita di studio, di lavoro, non ti ho mai dato cagione di dubitare di me? Hai visto che, per stare in pace, per contentarti, mi sono finanche vietato di fare una carezza al mio bambino. Diffidi ora di quella poveretta? Ma ti pare che possa sorriderle il pensiero di tornare laggiù, dove non troverà più il figlio, dove troverà invece un bruto, che la incolpa della morte del bambino e di cui lei ha paura? Avendo perduto il proprio figliuolo, per esser venuta qua ad allattare il nostro, crede d’aver acquistato il diritto di stare in casa nostra, presso a quest’altro bambino, al quale ha sacrificato il suo. Non ti par giusto? non ti par ragionevole?

             Ripeteva, senza volerlo, quel che aveva scritto poco prima che la moglie entrasse nello studio a parlargli. Riflettendo intorno al triste caso di quel bambino morto laggiù in Sicilia, aveva pensato a un passo dell’opera del Malon Le socialisme  intégral; e, invece di farsene un rimorso, s’era proposto di farne argomento d’una conferenza che avrebbe tenuto al Circolo Socialista fra qualche giorno.

             Ersilia, com’era da aspettarsi, si ribellò a quelle riflessioni umanitarie e uscì dallo studio deliberata a licenziare sul momento Annicchia. Il Mori, esasperato, afferrò le prime cartelle già scritte della conferenza e le scaraventò a terra. Poco dopo, attraverso l’uscio chiuso, intese il pianto disperato di quella disgraziata e le parole strazianti con cui pregava la padrona di non mandarla via.

             – Mi tenga come serva, senza darmi niente! Mi dia solo un tozzo di pane! quel che dovrà buttar via! Dormirò magari per terra… Ma non mi scacci, per carità! Io laggiù non posso, non posso più ritornare… Abbia pietà di me, lo faccia per amore di questo innocente! Se lei mi scaccia, io mi perdo, signorina; io mi perdo, ma laggiù non torno…

             Durarono a lungo quel pianto e quelle angosciose preghiere. Poi il Mori non intese più nulla: ritenne che Ersilia si fosse impietosita e avesse concesso a quella poveretta di rimanere col bambino.

             Di lì a poco, entrò nello studio il signor Felicissimo Ramicelli, senza la consueta dignità, infocato in volto e con gli occhietti lustri.

             Che vittoria! che vittoria! Per poco non si fregava le mani, lì, sotto gli occhi dell’avvocato, il signor Ramicelli. La bella balietta siciliana, scacciata or ora dalla padrona, quella sera stessa sarebbe venuta a dormire in casa sua. Eh, ma già, le balie – lui lo sapeva bene – tutte ragazze andate a male, roba da… da guerra, là! Questa qui faceva ancora l’ingenua: mostrava di creder d’aver compreso che lui la volesse soltanto per serva. Eh sì, per serva… perché no?

             –    Signor Ramicelli!

             –    Comandi, signor avvocato!

             –    Attento, eh? Scrittura chiara e, mi raccomando, senza svolazzi né in su né in giù.

             E il Mori gli porse da ricopiare le cartelle già scritte della conferenza.

             Poi seguitò:

             «L’eguaglianza tra gli uomini secondo il socialismo, come diceva il Malon, si deve intendere quindi in un duplice senso relativo: 1° che tutti gli uomini, perché tali, abbiano assicurate le condizioni dell’esistenza; 2° che quindi gli uomini siano uguali nel punto di partenza alla lotta per la vita, sicché ognuno svolga liberamente la propria personalità a parità di condizioni sociali; mentre ora il bambino che nasce sano e robusto, ma povero, deve soccombere nella concorrenza con un bambino nato debole ma ricco…».

             –    Signor Ramicelli!

             –    Avvocato!

             –    Che ha? È impazzito? Perché ride così?

La balia – Audio lettura 1 – Legge Giuseppe Tizza
La balia – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino

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