L’individuo pirandelliano sospeso tra l’angoscia del proprio mondo interno e le finzioni della società

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Di Giuliana Sanguinetti Katz

Il protagonista pirandelliano, che cerca invano una conferma dei valori in cui crede, va incontro a continue delusioni che lo spingono a isolarsi e talvolta a trovar rifugio in un suo mondo immaginario e a regredire nel passato.

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L'individuo pirandelliano
Maria Novella Mosci, Marina Malfatti, Edmondo Tieghi, La vita che ti diedi, 1994

L’individuo pirandelliano sospeso
tra l’angoscia del proprio mondo interno
e le finzioni della società

In Letteratura e Potere/Poteri – Atti del XXIV Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti) – Catania, 23-25 settembre 2021

da ADI (Associazione degli Italianisti)

L’individuo pirandelliano angosciato da strani pensieri di cui non conosce neppure l’origine e dal vedere la propria identità rotta in mille frammenti, cerca invano un’ancora nelle convenzioni della società in cui vive. Le opinioni dei cittadini e l’aspetto dignitoso di cui si paludano possono sembrare all’inizio una garanzia di solidi valori morali, ma la menzogna e l’ipocrisia delle loro azioni mettono il protagonista in contrasto con il falso ambiente in cui si trova. Questi allora è spinto a chiudersi nel suo isolamento e talvolta a crearsi un proprio mondo immaginario, lontano dalla vita di ogni giorno. 

Il pessimismo pirandelliano si può ricondurre a diversi fattori: il momento storico in cui vive Pirandello con la crisi dei valori postrisorgimentali, il fallimento della Banca d’Italia, la corruzione dei parlamentari, la terribile miseria dei contadini e minatori siciliani sfruttati indegnamente dai loro padroni, la creazione dei fasci siciliani per protestare questa condizione e la sanguinosa repressione operata dalle guardie del governo. Tutto questo è descritto nel romanzo di Pirandello I vecchi e i giovani dove la storia di quel periodo viene presentata come rovina inevitabile, come pure inevitabile è la caduta dei protagonisti, qualunque siano le loro motivazioni.

Al senso di sconfitta e di tristezza del periodo storico si aggiunge la crisi personale in cui Pirandello contempla il suo io tormentato in contrasto con una società ipocrita e convenzionale e sfoga questa sua visione del mondo nei suoi numerosi scritti. L’angoscia di sentirsi vivere, il ritrovarsi improvvisamente di fronte a lati imprevisti della propria personalità, la divisione tra ragione e sentimento, logica e cuore, con la ragione che critica e inaridisce ogni moto dell’animo, il vedere la vita «in una nudità arida, inquietante,» in una realtà diversa «da quella che normalmente percepiamo» in cui «la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo». [1]

[1] Luigi Pirandello, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani, con una testimonianza di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2006, p. 939.

Tutte queste definizioni che Pirandello dà dell’umorismo nel suo famoso saggio L’umorismo, non solo sono fondamentali per capire le sue opere, ma anticipano la crisi dell’uomo moderno e il baratro che gli si apre davanti quando si rende conto del suo vuoto interiore. E alla crisi dell’individuo corrisponde la crisi della società dove «i rapporti della così detta convenienza» sono «considerazioni di calcolo, nelle quali la moralità è quasi sempre sacrificata».[2]

[2] Ivi, p 932

A tutto ciò dobbiamo aggiungere la crisi famigliare di Pirandello a causa della moglie paranoica che lo perseguitava con continue scenate di gelosia e la grande angoscia provata a causa della prigionia del figlio Stefano durante la Prima guerra mondiale. Tuttavia non mi soffermerò su questi avvenimenti che richiederebbero uno studio lungo e approfondito.

Il protagonista pirandelliano, che cerca invano una conferma dei valori in cui crede, va incontro a continue delusioni che lo spingono a isolarsi e talvolta a trovar rifugio in un suo mondo immaginario e a regredire nel passato. Si veda per esempio nel romanzo Il fu Mattia Pascal le vicende dell’omonimo protagonista che per due volte cerca di cambiare vita, prima assumendo la falsa identità di Adriano Meis per sfuggire ad una vita famigliare disastrosa e alle convenzioni di una piccola città di provincia, e poi ritornando alla prima identità per sfuggire alla vergogna di non poter agire liberamente e di vivere nel timore di essere scoperto. Infatti in quanto Adriano Meis egli non esiste burocraticamente e si sente diviso in due parti di cui una disprezza l’altra e lo accusa di essere un imbecille per aver creduto di vivere la vita di un altro. [3]

[3] Si veda in particolare il capitolo XV, Io e l’ombra mia, in Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in ID., Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia, vol. I, Milano, Mondadori, 1973, 509-524.

Tuttavia Mattia in questa seconda fuga non può riprendere la sua vita di prima. Nell’impossibilità di ritornare a far parte della vita del suo paese, respinto da sua moglie che si è risposata e odiato da sua suocera, dimenticato da tutti gli abitanti del paese, rinuncia alla sua identità e si dà per morto alla società. Egli diventa bibliotecario del suo paese e vive rinchiuso nella biblioteca, intento a scrivere le proprie memorie. Trova ospitalità presso la sua vecchia zia Scolastica, dorme nello stesso letto in cui è morta sua madre e passa le giornate in compagnia del suo vecchio amico, il bibliotecario Eligio Pellegrinotto. Protetto da queste due figure parentali, senza altri compiti che quello di narrare la propria vita, Mattia ritorna all’infanzia felice risolvendo i suoi problemi di un io diviso e rinunciando ad ogni legame con la società di Miragno. [4]

[4] Elio Gioanola interpreta il fatto che Mattia dorma nel letto dove aveva dormito sua madre come un «ritorno al grembo, attraverso la morte» (Elio Gioanola, Pirandello la follia, Genova, Il Melangolo, 1983, 104). Si veda anche il libro di Lugnani sull’infanzia come luogo edenico per Pirandello. Lucio Lugnani, L’infanzia felice, Napoli, Liguori, 1986, 102-165.

Ben più drammatica è la situazione della coppia Ponza Frola nella commedia Così è se vi pare. Se il titolo mostra la relatività dei punti di vista, la vicenda del signor Ponza e della signora Frola sopravvissuti al terremoto del loro paesello nella Marsica, in cui hanno perso la vita tanti dei loro parenti, mostra anche l’importanza di rifugiarsi in un mondo di fantasia dove tale perdita è negata e la persona morta rivive nel pensiero di chi la ama. A questo proposito Laudisi nella prima scena del secondo atto dice che Ponza e Frola i dati di fatto «li hanno annullati essi in sé, nell’animo loro […] creando lei a lui, o lui a lei, un fantasma che ha la stessa consistenza della realtà, dov’essi vivono ormai in perfetto accordo, pacificati». [5]

[5] Luigi Pirandello, Così è se vi pare, in ID., Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico, Premessa di Giovanni Macchia, I, Milano, Mondadori, 1986, 469.

Di contro alla malignità inquisitoria del piccolo paese di provincia, che in nome dell’autorità dei suoi burocrati pretende che i due protagonisti rivelino i dettagli della loro vita famigliare, viene affermato il diritto di Ponza e Frola di avere il loro modo di vivere e di pensare. La donna misteriosa che vive reclusa in un quartierino all’ultimo piano fuori del paese, e che appare alla fine della commedia velata di nero, dichiarando di essere sia la prima sia la seconda moglie di Ponza, rappresenta non solo la relatività dei punti di vista ma anche la donna morta, il cui ricordo è sempre presente nella mente dei suoi cari.

Una situazione simile la troviamo nella commedia di Pirandello La vita che ti diedi che svolge il tema di una madre, Anna Luna, che non riesce ad accettare la morte del suo unico figlio e cerca di mantenere l’illusione che sia ancora vivo, nascondendo la notizia della sua morte alla donna che lo ama e viene a trovarlo. [6]

[6] Luigi Pirandello, La vita che ti diedi, in ID., Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico, con la collaborazione di Alessandro Tinterri, vol. III, Milano, Mondadori, 2004, 223-302.

Lei è fissata nel ricordo del figlio giovinetto cresciuto vicino a lei non accetta il fatto che dopo tanti anni sia venuto a morire nella sua casa. Vede il figlio morente come un estraneo, non lo riconosce, non ne piange la morte e vuole che sia sepolto avvolto solo in un lenzuolo. Rifiuta l’uomo che è tornato da lei, calvo, con gli occhi freddi e la fronte opaca e stretta alle tempie e vive nel ricordo del figlio giovinetto con «quella sua bella fronte con tanti capelli fini – oh, d’oro nel sole!», non ancora cambiato dal passar del tempo e dalla malattia. [7] Ivi, 264

La memoria del passato è per lei più forte di ogni avvenimento presente e sufficiente a mantenere in vita la presenza dell’adorato figlio ea negare la realtà della sua morte. Lei vuole che la camera del figlio rimanga sempre pronta con il lume acceso, come se lui non se ne fosse mai andato via e fosse ancora il giovinetto di una volta.

Particolarmente importante negli scritti di Pirandello è il ritorno ad un mondo edenico in cui il protagonista risolve i suoi problemi immergendosi nella natura e facendone parte. Egli compie un ritorno al grembo materno, o si identifica con madre natura assumendo un ruolo materno verso i suoi simili. [8]

[8] Roheim nel suo articolo The Garden of Eden esamina le varianti della rappresentazione del giardino del paradiso in varie religioni e culture e conclude che quello che le narrative hanno in comune è un cambiamento in peggio avvenuto in tempi primordiali, in seguito allo svilupparsi degli istinti della libidine e dell’aggressione con l’avvento del complesso di Edipo. La separazione dal giardino del paradiso è una perdita dell’originaria unione con la madre a cui si sostituisce una nuova unione col simbolo materno, rappresentata dalla coltivazione di madre terra (Géza Róheim, The Garden of Eden, in «Psychoanalytic Review», X-XII (1940), 198-199). Per uno studio della natura in Pirandello si vedano in particolare: Franco Zangrilli, Lo specchio per la maschera, Napoli, Cassitto, 1994; Antonio Alessio, Pirandello: la prima voce ecologico-letteraria in Europa, in L’enigma Pirandello, atti del congresso internazionale di Ottawa 24-26 ottobre 1986, a cura di Antonio Alessio, Claudia Persi Haines & Leonard G. Sbrocchi, Canadian Society for Italian Studies, «Biblioteca di Quaderni d’italianistica», 5, 256-271. Si veda anche il commento di Simona Costa a Uno, nessuno e centomila: «La campagna è, per Pirandello, lo scenario naturale in cui si possono verificare illuminazioni e rivelazioni; è il luogo delle epifanie, insomma, in antitesi con la città e gli assurdi ritmi della sua meccanizzata civiltà» (Luigi Pirandello, , Uno, nessuno e centomila, a cura di Simona Costa, vol. II, Milano, Mondadori per la Scuola, 1990, 8 n. 40).

Vitangelo Moscarda del romanzo Uno, nessuno e centomila (1925) è l’esempio più chiaro dell’individuo che trova una soluzione alle sue elucubrazioni angosciose e ai suoi rapporti con la famiglia e la società rompendo ogni legame con il mondo in cui vive e rifugiandosi nella contemplazione della natura. Vitangelo è tormentato dal senso di un io che si disgrega, che non può afferrare nell’atto stesso in cui vive, un io che muta di momento in momento, che è visto in modo diverso dalle diverse persone.

Egli cerca invano un punto fermo ribellandosi all’eredità paterna, che lo ha reso inetto e che agli occhi di tutti lo fa essere un usuraio. La sua decisione di liberarsi degli investimenti nella banca che il padre gli ha lasciato provoca la costernazione di parenti, amici e conoscenti che credono solo nel potere del denaro e va contro la logica convenzionale della sua cittadina.

Alla fine si ritrova felice nell’ospizio di mendicità creato con il lascito dei suoi averi. È in campagna, beato nella contemplazione della natura, tutt’uno con il paesaggio in cui si trova, senza ricordi, senza rimorsi: «Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani […]. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo». [9]

[9] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in ID., Tutti I romanzi, vol. II, a cura di Giovanni Macchia, con la collaborazione di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, 901.

Egli vive ora in un mondo puro e fresco, lontano dalla città che è un «mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice». [10] Ivi, 776

Come Vitangelo, il protagonista della novella Quand’ero matto prima di ‘rinsavire’ e di diventare egoista come tutti gli altri, di fronte alla bellezza dei tramonti in campagna si identifica col paesaggio che lo circonda e gli sembra di accogliere in sé la vita del mondo. Ma diversamente da Vitangelo che si è ritirato dal mondo e pensa solo a sé stesso, il protagonista di Quand’ero matto si comporta come un novello San Francesco, «un albergo aperto a tutti.». Si immedesima con le necessità degli altri e si concepisce «in società di mutuo soccorso con l’universo», pronto ad aiutare tutti quelli che hanno bisogno di lui. [11]

[11] Luigi Pirandello, Quand’ero matto, in ID., Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, vol. II, t. II, Milano, Mondadori, 1987, 785. Per un esame più dettagliato di questa e delle seguenti novelle si veda Giuliana Sanguinetti Katz, Pirandello e le sue ‘aspirazioni a una certa, solida sanità morale’, in Pirandello e la Fede, a cura di Enzo Lauretta, Agrigento, Centro nazionale di studi pirandelliani, 2000, 247-254.

Tale modo di pensare è il risultato di una regressione ai sentimenti narcisisti dei primi anni di vita: il protagonista di Quand’ero matto prova il senso di onnipotenza tipico di quel periodo dello sviluppo e sogna che l’umanità abbia bisogno della sua ‘parola esortatrice. [12]

[12] Sigmund Freud, Introduzione al narcisismo, in ID., Opere 1912-14, VII, Torino, Boringhieri,1975, 439-72.

In contrasto con le fantasie regressive menzionate prima, abbiamo anche la creazione di un mondo utopico in campagna, dove la natura diventa monito di valori morali, dove le famiglie lacerate da odi e rivalità si ricostituiscono e dove all’avarizia degli speculatori si contrappone il trionfo dell’uomo onesto, che alla fine della sua vita può ritornare al suo podere e godere finalmente gli ultimi anni della sua vita in pace e serenità. [13]

[13] Eckstein e Caruth in From Eden to Utopia esaminano vari esempi di utopie in letteratura da Dante in poi e concludono che le varie utopie hanno in comune la nostalgia di una felicità perduta e il desiderio di riacquistarla, ma in un nuovo contesto, in cui i conflitti interni ed esterni vengono risolti e ci si adatta alle necessità del mondo esterno. Rudolf Eckstein e Elaine Caruth, From Eden to Utopia, in «American Imago», II, (Summer 1965), n.1/2, 128-144.

La vita in campagna come luogo ideale dove avviene l’esaltazione dei valori della famiglia, appare chiaramente in diverse novelle di- Pirandello, tra cui Tanino e Tanotto e Il vitalizio. Nella prima novella al matrimonio senza amore di un barone, ricco possidente di campagna, di origine contadina, con un’aristocratica cittadina, fredda e altezzosa, si contrappone la sua unione felice con una contadina delle sue terre, che lo ama e lo cura con devozione assoluta.

La dicotomia tra la famiglia di città e quella di campagna viene sanata quando al barone viene concesso di portare in campagna il figlio legittimo Tanino, affetto da una grave malattia, a patto di allontanare da sé la contadina compagna del barone e suo figlio Tanotto. Tuttavia Tanotto, pur sentendosi umiliato e punito dalla madre che ha occhi solo per Tanino, invece di provare rivalità per quest’ultimo, desidera solo di giocare con lui e di offrirgli fiori e conchiglie. In questo mondo ideale la rivalità tra fratelli che Pirandello vede alla base della rovina della società, scompare e i due bambini, uniti da amore fraterno, insegnano ai genitori come vivere in pace. [14]

[14] Luigi Pirandello, Tanino e Tanotto, in Id., Novelle per un anno, 749-760. Per un esempio di come la rivalità tra gli uomini sia causa fondamentale di odi e guerre, si veda la novella Romolo, in Novelle per un anno, vol. III, t. I, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1990, 440-447.

Infine ne Il Vitalizio, la famiglia ideale, tutta dedita a lavorare in pace una campagna feconda, si realizza quando il vecchissimo contadino Marabito, riesce a sopravvivere a un ricco mercante e a un notaio, che nella speranza di fare un buon affare, si sono presi l’uno dopo l’altro la terra che lui non riesce più a coltivare, promettendogli in cambio un vitalizio. Con grande soddisfazione del paese, che vede i due ricconi puniti della loro ingordigia, Marabito si riprende la sua terra che gli altri padroni avevano maltrattato e visto solo come fonte di lucro e che per lui è come una donna amata. Ormai centenario egli torna a vivere con la famiglia di una ragazza Annicchia che lui ha trattato come una figlia adottiva e che ora coltiva la terra e si prende cura del vecchio, dandogli quella felicità famigliare che lui non aveva mai provato. Questa visione di una famiglia ideale in armonia con la natura si unisce al tema dell’infanzia felice: infatti il vecchio Marabito che non può più lavorare si prende cura del bambino di Annicchia e rivive con lui i piaceri dell’infanzia. [15]

[15] Luigi Pirandello, Il vitalizio, in ID., Novelle per un anno, vol. II, t. II, 841-880.

In conclusione vediamo che Pirandello talvolta ci offre una fuga nell’immaginario lontano dalla corruzione della società e dalla nostra angoscia interna. Si tratta di mondi fantastici, che negano la realtà presente, che ci riportano in alcuni casi ad un mondo edenico all’inizio della vita, e che ci offrono più raramente una società ideale spronandoci a seguire l’esempio dei suoi personaggi.

Giuliana Sanguinetti Katz
Settembre 2021

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