L’esclusa – Parte II – Capitolo 7 (con Audio)

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L’esclusa – Parte II – Capitolo 7
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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi

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VII.

            La lettera di Gregorio Alvignani era, come ogni altra manifestazione de’ suoi sentimenti, sincera in parte.

            Veramente a Roma aveva sentito ciò che nella lettera chiamava «la voce sincera della nostra natura…».

            Il troppo lavoro sedentario, l’attività mentale incessante, la persistenza prolungata, ininterrotta di sforzi a cui era costretto non solo per sostenere quella vita signorile ch’era abituato a condurre, ma anche per nutrire, giustificare e imporre altrui la pronta sua ambizione ai poteri politici; non compensati dal sonno necessario, dai necessarii riposi intermittenti, lo avevano alla fine stremato, gli avevano cagionato un gran perturbamento nervoso.

            E una mattina, davanti allo specchio, gli era avvenuto di notare il pallore del volto quasi disfatto, le rughe alla coda degli occhi, la piega triste delle labbra, i capelli di molto diradati, e se n’era rammaricato profondamente. Entrato poi nello studio e sedutosi davanti alla scrivania tutt’ingombra di pesanti incartamenti disposti con ordine, non aveva saputo metter mano al proseguimento d’alcun lavoro cominciato. Gli s’era imposta così, d’un tratto, la coscienza della propria incapacità d’agire, e aveva pensato che un lungo riposo gli era addirittura indispensabile.

            In quei giorni, per giunta, era disgustato della guerra bassa e sleale che alcuni suoi colleghi movevano trivialmente, sia nell’aula del Parlamento, sia nei giornali, al Ministero, di cui anch’egli era oppositore. L’aggressione di quei pochi in mala fede minacciava di coinvolgere tutta l’opposizione nel disgusto, nella nausea della pubblica opinione. Aveva preveduto che la Camera si sarebbe chiusa tra breve con la proroga della sessione parlamentare. E difatti la chiusura era avvenuta pochi giorni dopo.

            Divisò allora d’allontanarsi da Roma per ricostituire col riposo le forze e prepararsi così alla prossima lotta. Parlò anche lo specchio ai penosi sentimenti che lo agitavano. Era già su l’altro declivio della vita: s’era messo a discendere: temeva di precipitare; sentiva il bisogno d’aggrapparsi a qualche cosa.

            Nella breve carriera parlamentare era stato molto fortunato. S’era messo subito in vista; aveva suscitato invidie e simpatie, destato serie speranze; s’era guadagnate preziose amicizie. Ottenuta così, troppo agevolmente, la vittoria, le immancabili amarezze della politica, molte disillusioni lo avevano afflitto tanto più in quanto che nessuno intorno a lui aveva intimamente gioito dei suoi trionfi, come nessuno adesso lo confortava delle amarezze. Era solo.

            Fatti in fretta i preparativi della partenza, appena in viaggio, aveva provato un subitaneo sollievo quasi insperato, come se le nebbie gli si fossero a un tratto diradate attorno. Ecco il sole! ecco il verde nuovo delle campagne! E il treno volava. Bevendo a larghi sorsi l’aria mossa, sibilante, dal finestrino della vettura, aveva già gridato a se stesso, prima che a Marta: «Vivere! vivere!». E l’esaltazione era cresciuta durante tutto il viaggio. Gli era parso di vedere il mondo, la vita, quasi sotto un aspetto nuovo: senza nesso, sotto il sole, nella beatitudine immensa, azzurra e verde del cielo, del mare, della campagna.

            Trovò, pochi giorni dopo l’arrivo a Palermo, la casa che in quel momento gli conveniva meglio, in una via deserta, fuori Porta Nuova: in via Cuba, lontana dal centro della città, quasi in campagna.

            Era una palazzina d’un sol piano, di signorile aspetto, con un balcone in mezzo e due finestre per ciascun lato.

            – Un paradiso! Non ci si può morire… – gli disse il portinaio nell’aprire il portoncino sotto il balcone.

            Appena attraversato l’androne, Gregorio Alvignani, nel porre il piede sul primo dei tre scalini d’invito che mettevano in una specie di corte, larga, ammattonata, cinta di muri e scoperta, sussultò improvvisamente a una strepitosa volata di colombi, che andarono ad allinearsi in capo ai due muri di cinta, grugando.

            – Quanti colombi!

            – Sissignore. Sono del padrone del casino. L’ho in custodia io… Se vossignoria non li vuole, si portano via.

            – No, per me, lasciateli; non mi disturbano.

            – Come vuole. Vengo io a dar loro da mangiare, due volte al giorno, e a far pulizia.

            E il vecchio portinaio li chiamò con un suo verso particolare e col frullo delle dita. Prima uno, poi due insieme, poi tre, poi tutti quanti scesero nella corte al noto richiamo, tubando, allungando il collo, scotendo le testine per guardare di traverso.

            A sinistra, accostata al muro, esteriormente sorgeva la scala in due brevi branche molto agevoli. Questa scala a collo, in quella corte, con quei colombi, dava all’abitazione un’aria villereccia molto modesta e allegra.

            – Non c’è soggezione di sorta. Vossignoria può guardare tutt’in giro. Nessun occhio ci vede qua dentro: solo Dio e le creature dell’aria, – spiegò il vecchio portinajo.

            Salirono a visitare la casa internamente. Erano otto stanze ammobiliate con una certa pretensione d’eleganza. L’Alvignani ne rimase contento.

            – Il signorino ha famiglia?

            – No, solo.

            – Ah, bene. E allora, se volesse cambiato questo letto a due, con uno piccolo… I padroni abitano qui a due passi, sul Corso Calatafimi. Se volesse mangiare in casa, fanno anche pensione. Potrà avere insomma ciò che vorrà.

            – Sì, sì, c’intenderemo… – disse l’Alvignani.

            – Aspetti: il terrazzo! Deve vederlo: una delizia. Le montagne, signorino mio, si possono toccare così, con le mani.

            Ah sì, sì: quello era il rifugio che ci voleva per lui: lì, al cospetto dei monti, alla vista della campagna.

            Due giorni dopo vi prese alloggio.

            – Qua mi riposerò.

            Scendendo ogni mattina in città per il Corso Calatafimi, passava davanti al Collegio Nuovo; guardava il portone, le finestre del vasto edificio; pensava che Marta era là, e si prometteva che l’avrebbe riveduta, non foss’altro, per curiosità. Ma bisognava trovar l’occasione. Pensava: «Potrei entrare, anche adesso; farmi annunziare, vederla e parlarle. No. Così all’improvviso, no. Sarà meglio prevenirla. Ella non sa neppure ch’io sia qui, tanto vicino a lei. Chi sa come la ritroverò? Forse non sarà più come prima…».

            Passava oltre, lieto d’avere ancora un buon tratto di via deserta davanti a sé, prima d’entrare in città, dove avrebbe senza dubbio incontrato tanti seccatori.

            Era profondamente persuaso del proprio valore, della sua importanza; ma intanto, per ora, l’aria di spigliatezza un po’ petulante a cui s’abbandonava lontano da Roma e dagli affari, modificava a gli occhi altrui piacevolmente quanto d’assoluto era in quella persuasione.

            Non aveva ancora ben definito come avrebbe occupato il tempo del suo soggiorno a Palermo. In ozio, no: ozio e noja erano per lui sinonimi. E l’ozio inoltre gli sarebbe riuscito molto pericoloso. Già, da quand’era arrivato, non aveva che un solo pensiero, o (come diceva) una sola curiosità: rivedere Marta.

            «Comprerò qualche libro nuovo di letteratura. Leggerò. Continuerò poi, se me ne verrà voglia, i miei appunti su l’Etica relativa. Basta, vedrò.»

            Non voleva fermarsi a lungo sopra alcun pensiero. Il suo spirito sonnecchiava nel benessere e si ristorava.

            «Non si vuol morire; sfido! Anche quando il cervello è annebbiato di pensieri, il corpo trova tanta ragione di godere: nella mitezza della stagione; in un bel bagno, d’estate; accanto a un buon foco, d’inverno; dormendo, desinando, passeggiando. Gode, e non ce lo dice. Quando parliamo noi? quando riflettiamo? Solamente quando vi siamo costretti da cause avverse; mentre poi in quelle che ci dànno diletto il nostro spirito riposa e tace. Pare così che il mondo sia soltanto pieno di mali. Un’ora breve di dolore c’impressiona lungamente; un giorno sereno passa e non lascia traccia…»

            Questa riflessione gli parve giustissima e originale, e sorrise di compiacimento a se stesso. Ma come trovare l’occasione, il mezzo di rivedere Marta? Per quanto cercasse di distrarsi, ritornava col pensiero sempre lì; e sempre si ritrovava intento a escogitare il modo d’ottenere quell’incontro, senza compromissione né per sé né per lei.

            Usciva di casa. E camminando, pensava: «Se potessi vederla almeno per istrada, prima, senza farmi scorgere. Ma, e se poi s’accorge di me? Dal primo incontro dipenderà tutto…».

            Tutto – che cosa? Gregorio Alvignani rifuggiva dal pensarlo.

            «Dal primo incontro dipenderà tutto…»

            L’occasione a un tratto gli s’offerse, e gli parve molto propizia. Fu invitato a tenere una conferenza sopra un soggetto di sua scelta nell’aula magna dell’Università. Quantunque non avesse con sé che pochi libri e si trovasse affatto impreparato, pure accettò, dopo essersi lasciato molto pregare. Un largo, eloquente esame della coscienza moderna lo aveva sempre tentato: aveva con sé gli appunti per uno studio iniziato e interrotto su le Trasformazioni future dell’idea morale: se ne sarebbe giovato. Dall’esame della coscienza intendeva passare all’esame delle varie manifestazioni della vita, e principalmente di quella artistica. – Arte e coscienza d’oggi – ecco il titolo della conferenza.

            «Le scriverò. La inviterò ad assistere alla conferenza. Così la vedrò, l’avrò davanti a me, parlando.»

            Era sicuro del buon successo che non gli era mai mancato, e lo solleticava molto il pensiero che Marta lo avrebbe riveduto lì, tra gli applausi d’un numeroso uditorio.

            Tracciò lo schema della conferenza, lo meditò punto per punto, poiché avrebbe parlato e non letto; e quand’ebbe chiara la linea e intero il concetto, soddisfatto di sé, scrisse a Marta la lettera d’invito.

            Il trionfo oratorio rispose quel giorno alla conferenza, come e forse più che l’Alvignani stesso non si fosse aspettato; ma non rispose Marta. Egli la cercò con gli occhi nell’ampia sala zeppa di gente; scorse la Direttrice del Collegio, sola: Marta non era venuta. E, come se non avesse inteso, dimenticò di rispondere a gli applausi con cui l’immenso uditorio lo accolse su l’entrare.

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L’esclusa – Indice

Introduzione

Parte prima
Capitolo 1Capitolo 2Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14

Parte seconda
Capitolo 1 – Capitolo 2 – Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14 – Capitolo 15

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