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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi.
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VI.
Entrata nel porticino di casa, Marta, prima di mettersi a salire la scala, lacerò e disperse in minutissimi pezzi la lettera veduta dal Falcone. Insieme con la lettera lacerò un biglietto d’invito a stampa; poi si passò le mani su gli occhi e su le guance infiammate, e stette un po’ perplessa, come se si forzasse a rammentare qualcosa.
Si sentiva pulsare tutte le vene e, in quella momentanea indecisione, l’interno turbamento cresceva e le offuscava il cervello, quasi inebriandola. Era com’ebra, difatti, e sorrise inconsciamente col volto acceso e gli occhi sfavillanti, a piè della scala.
Che aspettava per salire?
La calma esteriore, almeno, perché la madre e la sorella non s’accorgessero di nulla!
Salì in fretta, come se sperasse di sfuggire con quella corsa al pensiero che la turbava. Avrebbe mentito in presenza della madre e della sorella, in qualunque modo, senza preparazione: non mentiva forse ogni giorno per nascondere le proprie amarezze? –
Aveva distrutto la lettera; ma le parole in essa contenute, come se si fossero ricomposte dai pezzettini di carta sparpagliati, la inseguirono sù per la salita quasi turbinandole intorno al capo e ronzandole negli orecchi. Le udiva entro di sé confusamente, non con la voce di chi le aveva scritte, ma con quella che dava a loro lei, in quel momento: non dolce né carezzevole: voce di rivolta a tutto quanto le era toccato fin lì di soffrire.
Appena sola in camera, sentì maggiormente quanto fosse per lei angosciosa la continua menzogna a cui era costretta nella propria casa; e più profondo che mai sentì il distacco tra lei e la madre e la sorella. Tanto l’una che l’altra, con la schiva umiltà contegnosa, coi riguardi timorosi e l’apprensione costante di non dar mai nell’occhio alla gente, erano già rientrate in quel mondo da cui ella era stata espulsa e condannata senza remissione.
Una ruga nuova le si disegnò su la fronte a quel nuovo moto deciso dell’animo contro i suoi. Cercò d’arrestarlo, cercò d’impedire che lo scompiglio del proprio spirito s’aggruppasse in quel sentimento d’odio, che le sorgeva spontaneo e prepotente per dominare, per soffocare l’inquietudine della sua coscienza antica.
Ma perché doveva essere una vittima, lei? lei che aveva vinto? Una morta, lei che faceva vivere? Che aveva fatto, lei, per perdere il diritto alla vita? Nulla, nulla… E perché soffrire, dunque, l’ingiustizia palese di tutti? Né l’ingiustizia soltanto: anche gli oltraggi e le calunnie. Né la condanna ingiusta era riparabile. Chi avrebbe più creduto infatti all’innocenza di lei dopo quello che il marito e il padre avevano fatto? Nessun compenso dunque alla guerra patita: era perduta per sempre. L’innocenza, l’innocenza sua stessa le scottava, le gridava vendetta. E il vendicatore era venuto.
Gregorio Alvignani era venuto. Era a Palermo: le aveva scritto, unendo alla lettera un biglietto d’invito per la conferenza che il giorno appresso avrebbe tenuto all’Università nelle ore antimeridiane. «Venga, Marta!», diceva a quel punto la lettera, ch’ella riteneva a memoria quasi parola per parola: «Venga, s’accompagni con la Direttrice del Collegio. Vedrà di che luce s’accenderanno le mie parole, sapendo che lei sarà lì ad ascoltarle».
No, no. Come andare? Già aveva lacerato il biglietto d’invito. E poi…
Ma lo avrebbe riveduto lo stesso, il giorno dopo. Egli le scriveva che si sarebbe recato al Collegio per sentire dalle labbra di lei se vi stésse contenta. Sapeva che ella non gli avrebbe mai scritto, mai manifestato alcun desiderio; e se ne affliggeva assai nella lettera: e per questo appunto sarebbe venuto a trovarla.
Perché tremava, ora, così? Si levò in piedi e si rialzò con una mano alteramente i capelli su la fronte. Aveva il volto infocato, era irrequieta, come se un impeto di sangue nuovo le fervesse per le vene. Aprì il balcone e guardò il cielo acceso fulgidamente dal tramonto.
Rimaner fuori per sempre dalla vita? riempire d’ombra e di nebbia quel fulgore? soffocare gli affetti che già da un pezzo cominciavano a ridestarsi in lei confusamente, febbrilmente, come ansiosa aspirazione a quell’azzurro, a quel sole di primavera, a quella letizia di rondini e di fiori; le rondini che avevano nidificato in capo al balcone; i fiori che la madre aveva sparso un po’ da per tutto nella casa? Non era venuto anche per lei il tempo di rivivere:
«Vivere! vivere!», diceva la lettera dell’Alvignani. «Ecco il grido che mi è scoppiato dal cuore tra le tante cure inutili e vane e gli intrighi e le noje e i fastidii, le tristi arti della finzione e la falsità in quel pandemonio della Capitale. Vivere! vivere! E son fuggito…»
Marta era stata come investita da quella lettera inattesa, ch’era tutta quasi un inno alla vita. Stretta all’improvviso da una voglia angosciosa di piangere, si ritrasse subito dal balcone con gli occhi pieni di lagrime e sedette, nascondendosi il volto con le mani.
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