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««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi.
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II.
Marta avrebbe voluto rifare tanto alla madre quanto a Maria la vita comoda e lieta d’una volta, allor che il padre viveva, e prosperava la concerìa. E non risparmiava sacrifizii e lavoro. Aveva ottenuto dalla Direttrice del Collegio di dare lezioni particolari alle piccole convittrici delle classi inferiori; e quel che traeva da queste lezioni e lo stipendio mensile dava intatto alla madre, a cui proibiva di lamentarsi della troppa fatica alla quale si sottoponeva giornalmente, senza godere più nulla dei frutti. Ma la madre s’ingannava. Marta non godeva? O non erano frutti del suo lavoro la rinata fiducia nella vita tanto della madre quanto della sorella, e la presente pace? non era premio al suo lavoro il sorriso che ora ritornava spontaneo alle loro labbra? Avrebbe dato il sangue delle vene per vederle ancora più contente, per godere della vista d’altri sorrisi su le loro labbra. E in fondo al cuore si sentiva inebriata della propria generosità, giacché ella nell’intimo suo non s’era mai acchetata all’offesa che il padre le aveva fatto, condannandola cecamente e precipitando la famiglia nella miseria.
L’unica passione di Maria pareva la musica? Ebbene, un pianoforte a Maria, quasi nuovo, da pagare a un tanto al mese. Tenere nella piccola dispensa le derrate per tutto un mese contribuiva a rendere più quieta e paga la madre? Ebbene, contenta anche la madre; e la piccola dispensa era sempre ben provvista.
Don Fifo Juè e la moglie salivano qualche sera a tenere compagnia alle tre donne, e il defunto Dorò continuava a fare le spese della conversazione.
Per loro mezzo Marta venne a sapere che la signora Fana, moglie del Pentàgora, viveva ancora nella più squallida miseria.
– Noi abbiamo una casa in via Benfratelli, signora mia, – disse una sera donna Maria Rosa, – e nell’ultimo piano, in due stanzette, abita una povera donna divisa dal marito. Il marito è un regnicolo delle loro parti… Forse loro lo conosceranno… si chiama… di’, Fifo, ti rammenti?
– Fana: Stefana, – rispose Fifo spiccicandosi.
– No, dico lui, il marito…
– Ah, sì… aspetta, Pentàgono!
Maria rise involontariamente.
– Pentàgora, – corresse la signora Agata, per scusare il riso della figlia.
– Lo conoscono?
Donna Maria Rosa volle sapere che uomo fosse, e parlò a lungo della moglie infelice… Né Marta né la signora Agata riuscirono a farle cangiar discorso per quella sera.
Maria s’era ridata con fervore allo studio del pianoforte; e la sera, dopo cena, sonava, mentre la madre cuciva, e Marta nella stanza attigua correggeva i compiti di scuola.
Così chiusa, non vista dalla madre e dalla sorella, spesso Marta sospendeva l’ingrato lavoro e, coi gomiti appoggiati sul tavolino e la testa tra le mani, rimaneva attonita, quasi in un’ansia d’ignota attesa, o s’inteneriva fino alle lagrime alla patetica musica di Maria. Una profonda malinconia le stringeva la gola. Non pensava a nulla, e piangeva. Perché? Vago, ignoto dolore, pena d’indefiniti desiderii… Si sentiva un po’ stanca, non di spirito, ma nel corpo: stanca… Mentre la madre e la sorella lodavano il suo coraggio, la paragonavano al padre per l’energia, per la volontà; a lei, quelle sere, quasi non riusciva ingrata la sua amarezza, quell’intenerimento indefinito che la faceva piangere e quel languore greve a cui abbandonava con triste voluttà le membra rilassate; la coscienza infine che in quel momento ella si faceva d’esser debole e donna… No, no: non era forte… E infatti, perché piangeva così? Oh, via, via: sciocchezze da bambina… E cercava il fazzoletto, scotendosi; e si rimetteva al lavoro, con nuova lena.
Di questa condizione di spirito di Marta né la madre né Maria s’accorgevano. Ella si guardava bene dal lasciarla trapelare; cercava anzi con ogni arte di non venire mai meno al concetto ch’esse si erano formato di lei. Il suo compito era questo, doveva esser questo. E aveva finanche nascosto alla madre una lettera di Anna Veronica, in cui si parlava a lungo di Rocco, delle furie di costui dopo la loro partenza, di minacce di nuovi scandali, di pazzie…
Perché affliggere la madre con tali notizie? E Marta aveva risposto ad Anna Veronica, che ella non si curava né voleva più sentir parlare di colui, prima sciocco, adesso pazzo; tristo prima e adesso.
Vedeva intanto la madre e la sorella ritornate alle abitudini, alla calma d’una volta, alla vita semplice e tranquilla di prima; e maggiormente, per forza di contrasto, sentiva penetrarsi dal convincimento che lei sola era l’esclusa, lei sola non avrebbe più ritrovato il suo posto, checché facesse; per lei sola non sarebbe più ritornata la vita d’un tempo. Altra vita: altro cammino… La pace, la felicità dei suoi, lo studio, la scuola, le alunne: ecco quello che le restava, ecco la meta del nuovo cammino… – null’altro!
Se ne doleva? No: erano momenti di passeggera tristezza. Dopo la fosca invernata, durante la quale il colore del tempo s’era accordato coi suoi pensieri, si ridestava adesso per quella nuova via al gajo sole di primavera, di cui un raggio era penetrato a frugare, a sommuoverle la torbida posatura di tanti dolori in fondo al cuore: ed era triste per questo; o era effetto della lettera di Anna Veronica o della musica di Maria?
Non voleva più curarsi di sé. La madre si era rimessa a pettinarla ogni mattina; ma lei non voleva che perdesse tanto tempo ad acconciarla.
– Basta, mamma, lascia, così va bene…
E allontanava lo specchietto a bilico che teneva sul tavolino, quasi infastidita della propria immagine, dello splendore intenso degli occhi, delle labbra accese. Se poi la madre la costringeva a stare ancora seduta, sotto il pettine, sbuffava dall’impazienza, diventava irrequieta, smaniosa, come se sottostesse a una tortura. Perché, a che prò, adesso, tanto studio e tanto amore per la sua acconciatura? Non intendeva la madre che a lei, adesso, non doveva importare proprio nulla di comparire più o meno bella?
E un giorno che la madre volle provarle i ricci sulla fronte, non ostante le vivaci ripulse, terminata l’acconciatura, Marta piangeva.
– Come? Piangi? Perché? – le domandò, sorpresa, la madre.
Marta si sforzò di sorridere, asciugandosi gli occhi.
– Per nulla… Non ci badare…
– Santa figliuola, ma perché? Ti stanno tanto bene…
– No, non voglio… Disfa’, disfa’… Sta meglio senza.
Non era una crudeltà incosciente della madre? E intanto, ella, che bambina! Piangere così, per nulla, in presenza di lei…
Durante il giorno si mostrò più vivace del solito, per cancellare l’impressione di quelle lagrime nell’animo della madre.
Provava un turbamento nuovo, un incomprensibile timore, un’apprensione strana, adesso, nel vedersi sola, senza nessuno accanto, per le vie aperte, tra la gente che la guardava.
Nessuno, è vero, l’aveva molestata; ma si sentiva ferita da tanti sguardi; le pareva che tutti la guardassero in modo da farla arrossire; e andava impacciata, a capo chino, mentre gli orecchi le ronzavano e il cuore le batteva forte. Perché? E come mai, tutt’a un tratto, la sua presenza di spirito s’era rintanata così in quello sciocco timore? di che temeva? non aveva tante volte riso di certe zitellone che avevano ritegno a uscire sole per la città paventando a ogni passo un attentato al loro pudore?
Pure, appena entrata nel Collegio, si rinfrancava. E la presenza di spirito le ritornava di fronte ai tre professori, che spesso trovava in sala, e coi quali scambiava qualche parola, prima che ciascuno si recasse a impartire la propria lezione nelle varie classi.
S’era accorta che due di essi intendevano farle velatamente, e ciascuno a suo modo, la corte. E non che temerne, ne rideva tra sé; fingeva di non accorgersi proprio di nulla, e pigliava a goderseli segretamente, notando il vario effetto che il suo contegno produceva in quei due.
Il professor Mormoni, Pompeo Emanuele Mormoni, autore di ben quattordici volumi in ottavo di Storia Siciliana, con appendice dei nomi e dei fatti più memorabili, con date e luoghi, alto, grasso, bruno, dai grand’occhi neri e dal gran pizzo qua e là appena brizzolato come i capelli, dignitoso sempre nella sua napoleona e col cappello a stajo, si gonfiava dal dispetto come un tacchino e, così gonfio, pareva volesse dire a Marta: «Oh, sai, carina? se tu non ti curi di me, neanch’io di te: non t’illudere!». Ma se ne curava, invece, e come! e quanto! Certi momenti pareva fosse lì lì per scoppiare. Aveva finanche perduto, sedendo, i suoi atteggiamenti monumentali, per cui tutte le seggiole diventavano quasi tanti piedistalli per lui:«Scolpitemi così!».
Marta di tanto in tanto sentiva scricchiolare la seggiola, su cui il Mormoni stava seduto, e tratteneva a stento un sorriso. Tutte le seggiole della sala d’aspetto, da un mese a quella parte, erano sfilate; a una era saltata la cartella, a un’altra qualche stecca.
Attilio Nusco, l’altro insegnante, chiamato comunemente nel Collegio il professoricchio, era al contrario fino fino, piccolo, gracile, timido, tutto vibrante, tutto impacciato. Povero Nusco, come se diffidasse di trovare il suo posticino nella vita, pareva che con lo sguardo, coi sorrisi, con gl’inchini frettolosi della miserrima personcina, volesse accaparrarsi il favore degli altri, per non essere cacciato via. E occupava, sedendo, il minor posto possibile (scusi! scusi!);parlando, la voce gli tremava; non contraddiceva mai nessuno; era come imbarazzato sempre dall’eccessiva sua compitezza. Avrebbe voluto pesare su gli altri meno che un fuscellino di paglia. E intanto, il cuore… Ah, quella Marta: non s’accorgeva proprio di nulla?
Il poveretto si provava man mano a uscire un tantino dalla propria timidezza, come dalla tana una lucertolina insidiata: prima la punta del musetto; poi un altro tantino, fino agli occhi; poi tutta la testina, quasi aspettando d’esser colta dal cappio alla posta.
Si era spinto a temerità inaudite: fino a domandare a Marta, sudando: – Sente freddo stamani? –. Portava a scuola qualche primo fiore della stagione; ne rigirava il gambo tra le gracili dita irrequiete; ma non ardiva offrirlo.
Marta notava tutto ciò, e ne rideva.
Un giorno egli volle dimenticarsi il fiore sul tavolino della sala d’aspetto: dopo un’ora, vi ridiscese: il fiore non c’era più. Ah, finalmente! Marta aveva capito e se l’era preso… Ma, ridisceso in sala dopo l’altra ora, disinganno crudele: il fiore era all’occhiello della napoleona di Pompeo Emanuele.
– Ciao, cardellino! Ciao, violetto mammolo!
Eppure il Nusco non era uno sciocco: laureato in lettere, giovanissimo ancora, occupava per concorso il posto di professore d’italiano al liceo e insegnava anche per incarico nel Collegio Nuovo; scriveva poi in versi con gusto e gentilezza non comuni.
Marta lo sapeva; ma che volevano da lei tanto il Nusco quanto il Mormoni?
Il terzo professore pareva non si fosse ancora accorto della presenza di lei. Si chiamava Matteo Falcone; insegnava disegno. Pompeo Emanuele Mormoni lo chiamaval’istrice e, da imperatore romano, lo avrebbe condannato ad purgationem cloacarum..
Era veramente d’una bruttezza mostruosa, e aveva di essa coscienza, peggio anzi: un tragico invasamento. Sempre cupo, raffagottato, non levava mai gli occhi in faccia a nessuno, forse per non scorgervi il ribrezzo che la sua figura destava; rispondeva con brevi grugniti, a testa bassa e insaccato nelle spalle. I lineamenti del suo volto parevano scontorti dalla rabbiosa contrazione che gli dava la fissazione della propria mostruosità. Per colmo di sciagura aveva anche i piedi sbiechi, deformi entro le scarpe adattate alla meglio per farlo andare.
Il Mormoni e il Nusco erano già avvezzi ai modi di lui, più d’orso che d’uomo, e non ne facevano più caso; Marta, nei primi giorni, ne fu urtata, non ostanti le prevenzioni della Direttrice. In fondo in fondo, mentr’ella non badava alle smorfie e ai lezii degli altri due, se non per riderne, provava una certa stizza per la noncuranza quasi sprezzante di quel terzo per lei affatto innocuo.
In quel po’ di tempo che si tratteneva in sala, aspettando l’ora precisa della lezione, egli s’immergeva nella lettura d’un giornale, senza badare a nessuno. Spesso Marta volgeva uno sguardo fuggevole alla fronte di quell’uomo sempre contratta, e poi si dava a immaginare che sorta di pensieri sotto tal fronte dovesse albergare quel testone ispido: – sciocchi, no, certamente; ma forse brutali.
Una sola volta aveva udito la voce di lui, e fu una mattina, in cui, avendole il Mormoni accennato con gli occhi l’istrice sprofondato al solito nella lettura del giornale, ella, per non condividere l’ironia ch’era in quell’accenno e per fare stizza al «grand’uomo», si lasciò sfuggire dalle labbra inconsultamente:
– Buon giorno, professor Falcone.
– Riverisco, – grugnì in risposta colui, senza levare gli occhi dal giornale.
Un’altra mattina, Marta, entrando in sala, fu molto sorpresa di trovarvi accesa una disputa tra il Falcone e il Nusco. Questi, col volto infiammato, un sorriso nervoso su le labbra e le mani tremolanti, cercava di far valere la propria opinione con molti sarà, ma… investiti dalla dura voce del Falcone, il quale senza dar retta all’avversario seguitava a parlare con gli occhi al giornale spiegato davanti. Il Mormoni ascoltava in uno dei suoi atteggiamenti monumentali, non degnando di una parola quelle «scempiataggini».
Il Falcone s’era scagliato contro quei letterati che inacidivano i loro versi e le loro prose d’una certa ironia, mentre poi infondo rimanevano ossequentissimi alle opinioni imperanti nella società.
– Le opinioni sono false? Le credete ingiuste e dannose? Ribellatevi, perdio, invece di scherzarci sù, di farvi sù sgambetti e smorfie, camuffando l’anima da pagliaccio! No: voi da un canto piegate il collo al giogo, e deridete dall’altro la vostra supinità. È arte da tristi buffoni!
– Sarà, ma… – ripeteva il Nusco. E avrebbe voluto osservare come anche il ridicolo fosse un’arma, e che il Dickens, Heine… Ma il Falcone non lo lasciava dire:
– Tristi buffoni! Tristi buffoni!
– Sentiamo la signora Ajala, – propose il Mormoni con un gesto consentaneo alla magnificenza dell’atteggiamento.
– La donna per sua natura è conservatrice, – sentenziò bruscamente il Falcone.
– Conservatrice? Per me, ferro e fuoco! – esclamò Marta con tale espressione, che il Falcone alzò gli occhi a guardarla per la prima volta in faccia.
Marta rimase profondamente turbata da quegli occhi che illuminarono un volto affatto nuovo, occhi d’una belva sconosciuta, intelligentissimi.
Un’altra mattina, poco tempo dopo, il Falcone entrò in sala d’aspetto col cappello ammaccato e impolverato, la falda rotta sul davanti, il naso sgraffiato, pallidissimo in volto e pur con un tristo sorriso che gli si storceva sulle labbra in orribile smorfia; strappata la giacca sul petto e anch’essa impolverata.
– Che le è accaduto, professore? – esclamò il Mormoni, vedendolo in quello stato.
Marta e il Nusco si voltarono a guardarlo con paurosa maraviglia.
– Una lite?
– No, niente… – rispose il Falcone, con voce tremante, ma con la smorfia del riso ancora su le labbra. – Mi trovavo a passare sotto la chiesa di Santa Caterina da tre anni puntellata… Questa mattina santa madre chiesa aspettava proprio me per rovesciarmi addosso un pezzo del suo cornicione.
Marta, il Nusco, il Mormoni allibirono.
– Sì… – continuò il Falcone. – Mi è caduto addosso proprio così: a radermi il corpo… E intanto – (aggiunse con un ghigno atroce, accennando i piedi sbiechi deformi) – ammirate la provvida natura! Lei, Nusco, a quest’ora non ce li avrebbe avuti più codesti piedini da ballerino. Invece io, i miei, ce l’ho ancora, e m’arrabatto!
Così dicendo, s’avviò per la lezione.
Parve quella veramente al Falcone una tremenda risposta della «provvida natura» a tutte le imprecazioni ch’egli le aveva scagliate a causa della propria deformità? Sentì veramente come una voce che gli avesse detto: «Lodami dei piedi che t’ho dati»?
Certo, da quel giorno, cominciò a poco a poco a uscire dalla cupezza abituale. O non piuttosto operava il miracolo la presenza di Marta?
Questo era il sospetto del Mormoni.
– Perché, vedi, – diceva al Nusco, – noi due, è vero, adesso ci saluta pure; ma grugnisce come prima; non ci dice: «Ossequio, signor Nusco!» con la stessa voce per dir così domenicale, con cui dice: «Ossequio, signora Ajala!». Morbidezza setolosa, capisco, ma… E poi, hai notato? Colletti nuovi, oh!, come usano adesso, abito nuovo! cappello nuovo! Evviva il cornicione di Santa Caterina.
Né l’uno né l’altro potevano seriamente ingelosirsi del Falcone, il quale faceva loro finanche pietà, via! Ma né il Mormoni s’ingelosiva del Nusco, né questi del Mormoni. Per il Nusco il gran Pompeo Emanuele era troppo grosso, troppo sciocco, ed egli aveva troppa stima dell’ingegno di Marta da temerlo; il Mormoni invece aveva troppa stima del gusto di Marta da temere il piccolo Attilio con quell’animella sempre spaventata. Così, tutti e due s’appaiavano per commiserare «il povero Falcone» e segretamente poi si commiseravano l’un l’altro.
Intanto, la scoperta di quell’animo nuovo del Falcone verso di lei produsse a Marta ribrezzo e timore insieme. Sapeva e sentiva di non poter ridersi di lui, come degli altri due. La bruttezza di quell’infelice pur così sdegnoso le destava pietà e le incuteva orrore a un tempo. Probabilmente colui non aveva mai amato alcuna donna.
Se Marta pensava che il Falcone, non ostante la coscienza della propria deformità, poteva pretendere amore da lei, si sentiva offesa e sdegnata; ma d’altro canto intendeva che quella passione, forse la prima germogliata in quel cuore, poteva essere così forte da vincere e ottenebrare quella coscienza stessa, per quanto tragicamente invasata.
Ma un pensiero la rassicurava, che cioè non aveva fatto nulla, proprio nulla, perché quest’affetto mostruoso nascesse.
Ora, quasi ogni giorno sul tramonto, vedeva il Falcone passare per la via del Papireto e alzare gli occhi al balcone della sua stanza. Il primo giorno, volle mostrarlo a Maria; non s’aspettava ch’egli dovesse alzare il capo a guardare.
– Guarda qua? Come mai?
Così ebbe la prima prova di quell’amore, a cui già per tanti segni men chiari non aveva saputo né voluto prestar fede. D’allora in poi, non si lasciò più scorgere dietro la vetrata; ma di nascosto vedeva il Falcone ripassare ogni giorno e guardare in alto, due, tre volte.
Adesso, dopo i sogni della notte gravi d’incubi e di visioni strane, agitati da continue smanie; dopo il duro urto nel riaprire gli occhi stanchi alla realtà nuda e monotona della sua esistenza, in mezzo a quel rifiorire fascinoso della stagione; ogni mattina l’apprensione di sentirsi sola le cresceva; i nervi le vibravano, andando, quasi fosse sotto l’imminenza d’ignoti pericoli; né sapeva più rinfrancarsi appena entrata nel Collegio.
Come contenersi di fronte al Falcone? Mostrargli che si fosse accorta, non voleva; ma come dissimulare, se ogni mattina era ancora invasa dall’orrore dei sogni, nei quali la figura del Falcone le appariva quasi sempre e talvolta meno mostruosa della realtà? A trattarlo come prima, temeva quella passione non si nutrisse di qualche lusinga, di qualche inganno pietoso.
Né il Mormoni la divertiva più come nei primi giorni. La sola vista di lui ora le produceva anzi tal rabbia, che lo avrebbe schiaffeggiato. E stizza e fastidio le cagionava la timidezza angosciosa del Nusco.
«Lei non mi secchi!», avrebbe voluto gridargli in faccia, sicura di sprofondarlo con quelle quattro parole un palmo sotterra, dalla vergogna.
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