L’esclusa – Parte II – Capitolo 14 (con Audio)

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L’esclusa – Parte II – Capitolo 14
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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi

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XIV.

            Aveva preso sonno sul far del giorno. Durante la notte, aveva formulato la lettera per il marito, vagliando ogni parola, escludendo ogni frase di tenerezza per sé, di recriminazione per lui. S’era poi messa a immaginare la vita degli altri senza di lei, minutamente; il pianto, la disperazione della madre e della sorella; il conforto ch’egli, il marito, sarebbe accorso a recare; il rammarico, la maraviglia dei conoscenti; il compianto… poi, con l’andar dei giorni, la calma desolata in cui il cordoglio s’assopisce; e man mano le strane piccole sorprese nel vedere, nel sentire che la vita ha seguito e segue tuttavia il suo corso, e noi… noi con essa. I morti? I morti sono lontani…

            Dopo due ore appena di sonno, si svegliò tranquillissima, come se l’animo avesse, durante il breve riposo, espulso la determinazione violenta. Né di questa calma si stupì: a lungo aveva pensato, a lungo discusso, e aveva pensato specialmente ai suoi: nessun rimorso, dunque; era preparata, già pronta. Dopo colazione avrebbe scritto la lettera; ecco, e poi, verso sera, sarebbe uscita per impostarla con le proprie mani; e poi… poi non sarebbe ritornata più a casa. Ormai ogni difficoltà circa al modo di darsi la morte le appariva puerile: si sarebbe recata in prossimità della stazione ferroviaria, e giù, col capo tra le ruote d’un treno; o alla spiaggia, per annegarsi in qualche punto deserto.

            – Che bel tempo! – disse a Maria, uscendo dalla camera. – Avevo lasciato gli scuri accostati per svegliarmi appena fosse giorno… aspetta, aspetta: il giorno non spuntava mai…

            Il cielo infatti era coperto e minaccioso, la prima volta, dopo tanta stagione serena.

            Marta quel giorno fu dolcissima con la madre e con la sorella, in ogni parola, in ogni sguardo. Fu quasi allegra a tavola. Terminata la colazione, annunziò alla madre che avrebbe scritto al marito.

            – Sì, figlia mia… Dio t’assista!

            La madre era sicura che Marta accondiscendeva alla riconciliazione; e con Maria attese tranquilla alle consuete faccende domestiche.

            Nel pomeriggio il cielo s’incavernò: nubi gravide di temporale s’addensarono su la città, e si levò un gran vento. A ogni sbuffo, i vetri delle finestre, urtati con violenza, pareva dovessero fragorosamente cedere alla furia; e sù, la porticina del terrazzo sbatteva a quando a quando. Guizzò a un tratto, nella tetraggine, un lampo vivissimo e quasi contemporaneamente il tuono scoppiò squarciando l’aria con formidabile rimbombo. Marta cacciò un grido fuggendo dalla camera, e andò ad aggrapparsi alla madre tremando a verga a verga pallida, convulsa.

            – Hai avuto paura? – le disse la madre, carezzandole i capelli. – Vedi come sei nervosa? Che bambina!

            – Sì, sì… – fece Marta, scossa da brividi che diventarono singhiozzi. – Non è possibile che scriva oggi… Scriverò domani… Tremo tutta…

            – Sta’ qui con noi, – le consigliò Maria.

            Star lì con loro, lì, in quella cucinetta raccolta, assaporando la vita familiare, chiusa, ristretta e santa, la vita che non era più per lei!

            Aveva lacerato tanti e tanti fogli di carta: la lettera facilmente formulata nella delirante esaltazione della notte, le era parsa, sul punto di scriverla, quasi inconsistente. S’era messa a pensare per riformularla; invano! lo spirito le rimaneva attonito; arido il cervello; e intanto il corpo smaniava sotto l’imposizione della volontà. Sentiva il corpo l’incombente minaccia del tempo, l’elettricità vibrante nell’aria, la violenza del vento, e gli occhi si erano volti a guardar fuori. Si era veduta allora in preda a quel vento, lungo la spiaggia deserta, col mare mosso, rabbioso, urlante sotto gli occhi; si era veduta in cerca d’un luogo acconcio per buttarsi a quelle onde torbide, orrende, giù; e mentre con l’animo sospeso seguiva quasi i suoi passi fino all’ultimo, fino al punto di spiccare il salto, era guizzato un lampo, era scoppiato il tuono.

            Un momento dopo, rideva istintivamente alle parole della madre e di Maria, che la calmavano, scherzando su la paura da lei avuta.

            La sera precipitò orrenda su la città. Marta, la madre e Maria stavano raccolte a cena, quando una forte scampanellata alla porta fece loro a un tempo esclamare:

            – Chi sarà a quest’ora?

            Era donna Maria Rosa Juè, la quale entrò con le mani per aria, scotendo la testa e gridando:

            – Signora mia! signora mia! Che ho da dirle! Càpitano tutte a me! E che v’ho fatto, Signore Iddio, che v’ho fatto? Quella poveraccia, l’inquilina mia ai Benfratelli… signora mia, sta per morire… Gesù! Gesù! Gesù! Muore lì, come una cagna, salvo il santo battesimo… Le ho mandato il medico a mie spese; le ho comprato le medicine: imposture, signora mia, che non servono a nulla, ma tanto perché non si dica che sia mancato per noi… Non ci ha pagato la pigione… Basta… Ora io dico: qualche parente questa poveraccia ce l’avrà, deve avercelo laggiù, nel loro paese… Non parlo per la miseria della pigione, del medico, delle medicine… ma per il funerale, signora mia! chi deve mandarla al camposanto? Io e Fifo abbiamo fatto già troppo, per carità, per amor di prossimo… Con questo tempaccio, poi! Vento, signora mia, che si porta via le case… Siamo tornati un momento per prendere un boccone in fretta e furia… andiamo di nuovo, adesso, per stare a vegliarla magari tutta la notte… Come si fa? Siamo cristiani! Ah, i mariti, i mariti! Non parlo del mio: io, per grazia di Dio, indegnamente, due, signora mia, uno meglio dell’altro: la sant’anima e questo che è il ritratto di suo fratello, tal quale, lo stesso cuore. Ci roviniamo, signora mia, per il buon cuore… Possono scrivere loro a qualcuno, se conoscono qualche parente laggiù?

            – Sì, al figlio… – rispose la signora Agata, stordita dalla furia con cui la Juè aveva parlato e dall’annunzio inatteso.

            – Come! – esclamò donna Maria Rosa. – Quella poveraccia ha un figlio? E il figlio la lascia morire così, come se fosse una cagna? Ah, i figli, i figli, peggio dei mariti! Gli scrìvano, per carità; gli scrìvano che è proprio agli estremi! Questa sera stessa le faccio dare i sacramenti… Siamo cristiani, sì o no? È carne battezzata!

            – Vengo con lei, – disse Marta, levandosi da sedere.

            La madre e Maria si voltarono a guardarla.

            – Vuoi andar tu? – domandò la madre. – Ti senti così male, Marta, e con questo tempo…

            – Lasciami andare… – insistè Marta, avviandosi per la camera.

            La signora Agata non s’oppose più; ammirò la figlia che rispondeva così, con un atto di generosità, al male che il marito le aveva fatto. E le parve che con quella visita alla suocera moribonda Marta volesse rispondere al pentimento del marito, e suggellare la pace.

            Marta, invece, cercando il cappellino e lo scialle nella camera al bujo, pensava tra sé: «Sarà una vittima anche lei. Voglio vederla, conoscerla…».

            – Eccomi pronta.

            – Si appunti bene il cappellino, anzi lo lasci, dia ascolto a me, – le suggerì donna Maria Rosa. – Lo scialletto in capo, come ho fatto io.

            Don Fifo attendeva sul pianerottolo del secondo piano, morto di freddo, con le mani in tasca, il bavero alzato.

            Appena fuori su la via, Marta sentì la straordinaria furia del vento che ruggiva per la strada, come se volesse portarsi via tutte le case. Guardò in alto, il cielo sconvolto, corso da enormi nuvole squarciate, tra cui la luna, scoprendosi di tratto in tratto, pareva fuggisse impaurita, precipitosamente. La via era quasi al bujo: alcuni fanali erano stati spenti dal vento, che sul poggetto del Papireto aveva anche spezzato un albero e gli altri agitava, storceva. Le vesti impedivano alle due donne, curve contro la furia, d’andare speditamente. Don Fifo teneva con ambo le mani le tese del cappelluccio sprofondato fin su la nuca.

            Alla svolta del Duomo, sul Corso, un non mai visto spettacolo: un fragoroso torrente, crescevole sempre, di foglie secche rovinava vorticosamente, come se il vento avesse strappato tutte le foglie delle campagne e via con impeto di rabbia, in un veemente eccesso di distruzione se le trascinasse da Porta Nuova giù, giù, fino al mare, in fondo.

            Le due donne e don Fifo furono presi dal turbine a le spalle e spinti di corsa in giù, quasi sollevati con le foglie. A un tratto don Fifo cacciò un grido, e Marta lo vide saltare come un grillo e precipitarsi dietro il cappello sparito in un attimo tra le foglie, nel turbine.

            – Lascialo, Fifo! – gli gridò dietro la moglie.

            Ma anche don Fifo sparve nel turbine delle foglie, nel bujo.

            – Di qua, di qua! – disse la Juè a Marta, scantonando per via Protonotaro, che non imboccava il vento e in cui una moltitudine di foglie s’era come rifugiata. – Andrà a ripigliarsi il cappello a Porta Felice, se pure lo arriva! Ci voleva anche questa, ci voleva! Il cappello nuovo!

            Traversarono la piazzetta dell’Origlione, e presto furono in via Benfratelli.

            – Ecco, entri, è qua, – riprese la Juè, cacciandosi in un portoncino.

            Salirono la scala erta e stretta al bujo, fino all’ultimo piano. La Juè trasse dalla tasca una grossa chiave, vi soffiò nel buco, cercò a tasto la serratura e aprì la porticina. Subito, aprendo, gridò:

            – Gesummaria! Le finestre!

            Le tre stanze, che componevano la miserrima dimora della moribonda, erano invase dal vento che aveva sforzato le imposte e rotto i vetri. La candela nella camera da letto s’era spenta, e nel bujo rantolava spaventata Fana Pentàgora.

            – I vetri! anche i vetri… tutti rotti! A voi l’offro, Signore, in penitenza dei miei peccati! – esclamava la Juè mettendo nelle braccia tutta la forza per richiudere le imposte contro il vento.

            Marta era rimasta su la soglia raccapricciata, con gli orecchi intenti al rantolo mortale della moribonda.

            Richiuse le imposte, quel rantolo divenne, nel silenzio, insopportabile.

            – E i fiammiferi? – esclamò donna Maria Rosa. – Ce l’ha Fifo che corre dietro al cappello e lascia noi qua, al bujo, nell’imbarazzo. Ah che uomo! Tutto l’opposto, certe volte, di suo fratello, sant’anima! Vado a cercare in cucina…

            Marta si accostò al letto, a tentoni, quasi attirata dal rantolo. Fece per appoggiare le mani sul letto e subito le ritrasse, con vivissimo ribrezzo: aveva toccato il corpo della giacente; si chinò su lei e la chiamò sottovoce:

            – Mamma… mamma…

            Solo il rantolo angoscioso le rispose.

            – Sono la moglie di Rocco… – riprese Marta.

            – Rocco… – parve a Marta d’udir balbettare dalla moribonda, nel rantolo.

            – La moglie di Rocco… – ripetè. – Non abbia più paura: ci sono qua io, ora.

            – Rocco, – fece questa volta veramente la moribonda, sospendendo il rantolo.

            Il silenzio diventò pauroso.

            – Zitta, zitta! – riprese Marta in tono d’amorevole ammonimento. – C’è la padrona di casa…

            Uno zolfanello acceso, riparato da una mano, si moveva nel bujo, come un fuoco fatuo.

            – Dov’è il lume? Eccolo!

            Donna Maria Rosa, acceso il lume, rimase con le dieci dita delle mani aperte per aria.

            – Dio, che schifezza! Mi sono tutta insozzata in cucina… Guardate, guardate che babilonia qui!

            I frantumi dei vetri della finestra erano schizzati fino in mezzo alla camera.

            Intanto Marta osservava con raccapriccio la moribonda che moveva lentamente la testa affondata nei guanciali, cercando con gli occhi smorti, attoniti, nella camera, come stupita dal lume e dal silenzio, dopo la tenebra e l’urlo del vento. Aveva una grossa maglia nella luce dell’occhio destro, e la pelle tutta della faccia e specialmente il naso punteggiato di nerellini, che spiccavano nell’estremo pallore, madido, opaco del volto. I capelli grigi, ruvidi, ricciuti, abbondantissimi erano arruffati sul guanciale ingiallito. Gli occhi di Marta si fermarono su le mani enormi, da maschio, che la moribonda teneva abbandonate sul lenzuolo, più sporco della camicia aperta sul seno secco, ossuto, orribile a vedere.

            – Rocco… – mormorò ancora una volta la moribonda, fissando lungamente gli occhi in volto a Marta, come assetata.

            – Che dice? – domandò la Juè curva, con la veste alzata fin sopra il ginocchio, mentre si tirava sopra la gamba tozza, tosta, la calza ricaduta su la fiocca del piede.

            – Chiama il figlio… – rispose Marta, riaccostandosi alla giacente, per dirle: – Verrà, non dubiti… Ora gli scrivo che venga subito…

            Ma la moribonda non comprese e ripetè con fievolissima voce, cercando con gli occhi intorno per la stanza:

            – Rocco…

            – Un telegramma, è vero? – disse la Juè. – Andrà Fifo al telegrafo… Non c’è tempo da perdere. Ecco, qui nel cassetto ci dev’essere carta e l’occorrente per scrivere… Mio Dio, che puzzo… sente? Che è che puzza così in questa camera?

            Era sul tavolino, presso la finestra, un bicchiere a metà pieno d’una mistura verdastra, esalante un pestifero odore.

            – Ah, tu? – fece la Juè, additando con l’indice tozzo il bicchiere, – adesso ti butto via!

            Marta accorse:

            – No, che è?

            – Sarà veleno, – fece donna Maria Rosa, notando l’ansia di Marta.

            – Può servire…

            – Che vuole che serva più, cara lei… Ci appesterebbe tutta la notte inutilmente…

            E andò a buttarlo in cucina.

            Marta s’appressò al tavolino per scrivere il telegramma. Scrisse semplicemente così, quasi senza pensare: «Tua madre sta male. Vieni subito, MARTA».

            – Ah, lo conoscete intimamente? – osservò la Juè, leggendo il telegramma. – Sono forse parenti?

            Marta arrossì, confusa, e chinò più volte il capo in segno affermativo. Donna Maria Rosa notò quella confusione improvvisa e quel rossore e sospettò che ci dovesse esser sotto qualche cosa.

            – E già… paesani… – disse. E, quasi per cancellare la domanda indiscreta, aggiunse: – Venisse subito, almeno…

            Udirono picchiare alla porta.

            – Ecco Fifo!

            Don Fifo entrò col capo scoperto, i capelli per aria, esclamando esasperato, con larghi gesti delle braccia:

            – Non era cappello, era diavolo!

            – Sì, va bene… – gli disse la moglie. – E adesso scappa al telegrafo! Ci sono anche i vetri della finestra rotti!

            Don Fifo diede un balzo indietro.

            – Io? al telegrafo? adesso? Neanche se mi fanno papa!

            – Sciocco! Ti dico che ci sono anche i vetri della finestra rotti! – ribatté arrabbiandosi donna Maria Rosa. – Scappa al telegrafo!

            – Oh Cristo mio! – sclamò don Fifo. – Fuori ci sono tutti i diavoli dell’inferno scatenati… Dove vuoi che vada? Debbo andare senza cappello?

            – Ti metterai in capo il mio scialle…

            Don Fifo guardò Marta e aprì la bocca a un sorriso da scemo:

            – Sì, lo scialle… per far ridere la gente…

            – Chi vuoi che ti veda, a quest’ora, con questo tempo? Sù, sù.

            E gli buttò lo scialle in capo, aggiungendo:

            – Poi te n’andrai a casa, a dormire.

            – Solo? – domandò don Fifo, rassettandosi in capo lo scialle.

            – Hai paura?

            – Paura, io? Non so che voglia dire… Ma tu qua, io là… niente, guarda, piuttosto, me ne starò lì In quel cantuccio… Abbi pazienza: vado e torno.

            Scappò. Tornò dopo circa mezz’ora. Marta spiava acutamente la moribonda, che s’era ancora inabissata nel letargo. La Juè, all’altro lato del letto, erta sul busto protuberante, già pisolava. Don Fifo la guardò un poco, poi si rivolse a Marta e disse piano:

            – Se Dio liberi, si mette a ronfare…

            Scosse forte le braccia con le pugna chiuse, e soggiunse:

            – Trema la casa!

            Non aveva finito di dirlo, che donna Maria Rosa tirò il primo ronfo, spalancando la bocca. Don Fifo accorse e la chiamò, scotendola lievemente:

            – Mararrò… Mararrò…

            – Ah… che è?… che vuoi?… Hai spedito il… Va bene…

            – No… ti dico… – osservò timidamente don Fifo. – Fa’ piano… ecco, la malata…

            – Non mi seccare, Fifo! – lo interruppe donna Maria Rosa, ricomponendosi a dormire.

            Don Fifo si strinse nelle spalle e alzò gli occhi al soffitto, sospirando.

            Poco dopo, dormiva anche lui, presso la moglie che ronfava formidabilmente; e anche lui a poco a poco si mise a ronfare, ma d’un debole timido ronfolino accompagnato da un tenero sibilo del naso. Moglie e marito parevano, quella un bombardone, questi un violino con la sordina.

            Marta rimase assorta nella contemplazione della moribonda; orribile immagine dell’imminente suo destino.

            «Domani egli verrà», pensava. «Mi vedrà qui; crederà che io voglia e possa accettare la sua proposta. Non ho pensato a lui, venendo; ma egli forse, quando saprà tutto, sospetterà ch’io sia venuta apposta per intenerirlo. No, no, domattina, prima ch’egli giunga, andrò via… per non farmi vedere… Andrò via…»

            Si levava da sedere; si accostava in punta di piedi alla giacente che pareva già morta; si chinava con l’orecchio su lei per accertarsi se respirava ancora, e tornava a sedere, a pensare:

            «Com’è placida! E muore… La morte è già dentro di lei, dentro il suo corpo dormente… Andar via? No, io non posso andar via… debbo prima parlargli… a ogni costo… Col mio sacrifizio debbo ottenere ch’egli faccia il suo dovere: ajuti mia madre. Dunque, mi trovi qui, presso la sua! Gli dirò tutto… tutto…».

            Il lume moriva sul tavolino lì accanto. Le ombre dei due dormenti s’ingrandivano e balzavano di tratto in tratto al singultare della fiammella, su la parete. Marta ebbe paura del bujo imminente e si alzò per svegliare la Juè.

            – Il lume si spegne…

            – Che fa? Ah, si spegne?… Facciamo così…

            Si alzò, andò barcollando al tavolino e soffiò sul lume, soggiungendo:

            – Puzza… Non c’è petrolio… Dov’è la mia seggiola?

            – Ahi! – strillò don Fifo. – M’hai assassinato un piede!

            – La mia seggiola… Eccola! Pazienza, Fifo mio: domani sera speriamo di dormire nel nostro letto… Tanto, sarà giorno tra poco…

            Un gallo, infatti, cantò poco dopo nel silenzio. Marta, involta nel bujo, tese l’orecchio. Un altro gallo rispose da più lontano, all’appello; poi un terzo, ancora da più lontano. Ma non appariva indizio di luce attraverso le fessure delle imposte.

            Finalmente spuntò il giorno. La Juè si svegliò, stiracchiandosi e quasi nitrendo; poi domandò a Marta notizie della moribonda. Don Fifo, in un cantuccio, con la testa china sul petto, le braccia conserte, le gambe unite, miserino, restò a trar solo, scompagnato, il timido ronfo col sibiletto in fine.

            – È fredda! è fredda! – fece la Juè ancor mezzo insonnolita, con una mano su la fronte della moribonda. – Bisogna mandar subito per un prete… Fifo! Fifo, svégliati!

            Don Fifo si svegliò.

            – Corri subito qua a santa Chiara… o questa infelice morirà senza sacramenti… Mi senti, Fifo?

            Don Fifo s’era levato in piedi e messo a svariare per la camera con gli occhi ammammolati.

            – Che cerchi?

            – Cerco il… Ah, già! senza cappello, santo Dio! Avessi almeno un berrettino… Vado così?

            – Va’! va’! corri… Non c’è tempo da perdere, – gli gridò donna Maria Rosa, e aggiunse rivolta a Marta: – Noi intanto rassettiamo un tantino la camera: ci verrà il Signore!

            Marta guardò la Juè come stordita. Il Signore? Le si affacciò subito alla mente Anna Veronica, e quasi la cercò in quella camera, e la vide quasi in se stessa, in quel momento supremo. Inginocchiare la sua colpa e il suo pudore per ottenere il perdono di Dio, come Anna aveva fatto? Ah, no! no! Poiché il Signore tra poco sarebbe venuto lì, ella, inginocchiata, lo avrebbe soltanto pregato per la salute dell’anima.

            La moribonda, mentre la Juè aggiustava un po’ il letto, schiuse gli occhi velati, senza sguardo. Marta osservò quegli occhi e quel volto già come soffuso di sovrumana serenità: solo il corpo esausto pareva su quel letto, senza più percezione ormai della circostante miseria; senza dolore, senza memorie.

            Venne finalmente, inavvertito dalla morente, il Viatico. Fana Pentàgora guardò il prete con gli occhi stessi con cui aveva guardato il soffitto della camera, e nulla rispose alle domande di lui. Gli astanti si erano inginocchiati intorno al letto e mormoravano preghiere; Marta piangeva con la faccia nascosta.

            Poco dopo, la funzione era finita. Marta levò la faccia lacrimosa, e si guardò intorno disillusa, quasi nauseata, come se avesse assistito ad una inconcludente, volgarissima scena. Quella, la visita del Signore? Un biondo, freddo, insulso prete goffamente parato… E lei per un momento aveva potuto pensare di buttarsi in ginocchio e invocare pietà…

            – Ho paura che non arrivi a tempo… – sospirò la Juè, alludendo al figlio della morente.

            Don Fifo, dopo il Viatico, s’era allontanato dalla camera e passeggiava nella saletta, costernato con le braccia conserte, sbuffando di tratto in tratto e aspettando che la moglie venisse ad annunziargli la morte della pigionante. Impaziente, allungava dalla soglia la faccia sparuta verso il letto, e con un cenno del capo domandava: – Vive ancora?

            Donna Maria Rosa spiegò a Marta:

            – Dopo la morte di Dorò, buon’anima, quell’uomo lì non può più veder morire nessuno…

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L’esclusa – Indice

Introduzione

Parte prima
Capitolo 1Capitolo 2Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14

Parte seconda
Capitolo 1 – Capitolo 2 – Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14 – Capitolo 15

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