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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi.
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VII.
Dopo il parto, Marta stette circa tre mesi tra la vita e la morte.
Provvidenza divina, questa malattia, diceva Anna Veronica. Sì, perché, altrimenti, le due povere superstiti, la vedova e l’orfana, sarebbero certo impazzite. Invece, nella lotta disperata contro quel male che sembrava invincibile, le loro labbra, che pareva non avessero dovuto mai più sorridere, sorrisero due mesi appena dopo la morte quasi violenta del capo di casa, ai primi accenni della convalescenza di Marta.
Instancabile, Anna Veronica, dopo tante veglie, recava adesso ogni mattina alla convalescente piccole immagini odorose di santi, contornate di carta trapunta, punteggiate d’oro, con nimbi d’oro.
– Qua, – diceva, – dentro la busta, sotto il guanciale: ti guariranno: sono benedette.
E mostrandole i due santi patroni del paese, San Cosimo e San Damiano, con le tuniche fino ai piedi, la corona in capo e le palme del martirio in mano; i due santi miracolosi, di cui presto sarebbe ricorsa la festa popolare, e ai quali ella aveva promesso un’offerta per la guarigione di Marta:
– Questi, – soggiungeva, – valgono più del tuo medico spelato, con un occhio a Cristo e l’altro a San Giovanni.
E contraffaceva il medico e la voce di lui oppressa dal perenne intasamento nasale: – «Soffro di litiasi, signora mia!» – Che sarebbe? – «Mal di pietra, signora mia, mal di pietra!».
Marta sorrideva dal letto pallidamente, seguendo con gli occhi i versi di Anna Veronica, e anche Maria e la madre sorridevano.
La sera, prima di tornarsene a casa, Anna recitava il rosario con la signora Agata e con Maria, nella camera di Marta.
La malata ascoltava il borbottìo della preghiera nella camera debolmente rischiarata da un lume guarnito d’una ventola di mantino verde; guardava le tre donne inginocchiate, curve sulle seggiole, e spesso, alla litanìa, rispondeva anche lei alle invocazioni di Anna Veronica:
– Ora pro nobis.
Quel senso di serenità, fresca, dolce e lieve, che suol dare la convalescenza, le si turbava al sopravvenire della sera. Le pareva che quel lume riparato dal mantino verde fosse poco, troppo poco contro l’ombra che invadeva la casa; e un’ambascia cupa, un’oscura costernazione, un’impressione di vuoto, di sgomento sentiva venirsi dalle altre stanze, in cui spingeva trepidante, dal letto, il pensiero: subito ne lo ritraeva, affisando di nuovo gli occhi al lume, per sentirne il conforto familiare. In quell’ombra, in quel bujo delle altre stanze, il padre era scomparso. Di là egli, ormai, non c’era più. Nessuno più, di là… L’ombra. Il bujo. Che incubo, è vero, era egli stato per lei! Ma a qual prezzo, ora, se n’era liberata… La cupa ambascia, l’oscura costernazione, il senso di vuoto, di sgomento, non le venivano piuttosto dal pensiero di lui?
– Ora pro nobis.
Spesso si addormentava con la preghiera su le labbra. La madre le giaceva a fianco, su lo stesso letto; ma stentava tanto, ogni sera, a prender sonno, non solo per il ricordo vivo e straziante del marito, ma anche per la preoccupazione assidua in cui la teneva il nipote, Paolo Sistri, a cui era affidata ormai l’esistenza della famiglia.
Paolo, dopo la disgrazia, non veniva più, puntualmente, ogni sera. Bisognava che la zia mandasse a chiamarlo due e tre volte per aver notizie della concerìa; e, quando finalmente si risolveva a venire, appariva più abbattuto e sbalordito di prima.
Una sera le si presentò con la testa fasciata.
– Oh Dio, Paolo, che t’è accaduto?
Niente. In una stanza della concerìa, al bujo, qualcuno (e forse a bella posta!) s’era dimenticato di richiudere la… come si chiama? sì… la… la caditoja, ecco, su l’assito, ed egli, passando, patapùmfete! giù: aveva ruzzolato la… la come si chiama di legno… la scala della cateratta, già! Per miracolo non era morto. Ma tutto bene, benone, alla concerìa. Forse però, ecco… sarebbe stato meglio tentare adesso una certa concia alla francese… quella tal maniera di concia per la quale… ecco, già! si adopera in polvere la… come si chiama… la scorza di leccio, di sughero e di cerro; mentre, alla maniera nostrana, con la vallonèa spenta nell’acqua di mortella…
– Per carità, Paolo! – lo interrompeva la zia, a mani giunte. – Non facciamo novità! Andava tanto bene la concia all’uso nostro finché ci badò la buon’anima.
– Gesù! che c’entra? – le rispondeva Paolo, saccente, ora che lo zio non c’era più. – È un’altra cosa! Perché… vede com’è? Si piglia… prima che si pigliava? l’acqua cotta. Oh, e ora si piglia l’acqua pura…, aspetti! con la polvere di leccio, oppure…
E seguitava per un pezzo, imbrogliandosi, rifacendosi daccapo, a spiegare alla zia quella benedetta concia in rammorto, alla francese.
– Mi sono spiegato?
– No, caro. Ma forse non comprendo io. Mi raccomando: attenzione!
– Lasci fare a me.
E veramente per lui non mancava. Notte e giorno, in continua briga: di giorno, ora qua, ai calcinaj, per sorvegliare la bolleratura; ora là, alle trosce, pei bagni; poi, ai cavalietti, per la pelatura e la scarnatura delle pelli, e così via: di notte, lì, su i libri di cassa, a far conti. Sentiva su le quattro cantare i galli… Che ne sapeva sua zia? I galli, parola d’onore, alle quattro… E lui ancora in piedi! L’inchiostro del calamajo non rispettava nessuna delle sue dieci dita, e n’aveva pur cenciate sul naso e sulla fronte.
– La vorrei qua, a vedere! – sbuffava, in maniche di camicia, col capo rovesciato sulla spalliera del seggiolone come se volesse trovar le cifre del conto tra i ragnateli del soffitto, a cui, distraendosi, voleva far giungere il fumo, che tirava a gran boccate dalla pipa: –fffff.
Per la strada, intanto, nel vasto edificio, silenzio di tomba. Su la parete nuda, ingiallita, la candela verberava il lume tremolante a ogni sbuffo di Paolo, la cui ombra si protendeva enorme e mostruosa sul pavimento.
– Puah! Alla faccia di… – e nominava un creditore, scaraventando uno sputo contro la parete.
Un ragno gli passava sotto gli occhi, zitto zitto, come impaurito dal lume, traballando leggermente su le otto lunghe esilissime gambe. Paolo aveva ribrezzo di questi animaletti, come le donne dei topi. Subito scattava in piedi, si levava una pantofola, e pàffete! – schiacciava con la suola il ragno; poi, col volto atteggiato di schifo, stava un po’ a mirar la vittima così appiccicata alla parete.
Dopo la morte dello zio, aveva piantato tenda definitivamente alla concerìa. Vi mangiava e vi dormiva; e in quella stanzaccia intanfata non permetteva che entrasse mai nessuno. Lui si apparecchiava da mangiare, lui il letto: tutto lui; ma glien’andasse mai una bene! Cercava le posate? – la carne gli s’abbruciava sul fuoco. Voleva bere? – trovava scandelle a galla sul vino. Chi aveva versato olio nel suo bicchiere?
– Puah! Mannaggia…
E restava con la lingua fuori e il volto atteggiato di schifo.
Ma era niente, questo. Quel che gli toccava combattere con un nugolo di corvi piombati sulla concerìa dopo la morte dello zio! Difendeva con feroce zelo gl’interessi della povera vedova, il cortile della concerìa rimbombava delle sue liti rumorose, violente; ma alla fine doveva cedere e pagare e pagare. Intanto la vendita scemava di giorno in giorno; crescevano i debiti e i reclami; i mercanti di cuojame disdicevano gl’impegni o rimandavano la merce e si rivolgevano altrove. La zia, ignara, gli domandava ogni mese per l’andamento di casa quella somma che era solita di prendere per l’addietro, come se gli affari andassero bene allo stesso modo; e lui, che non si sentiva il coraggio di esporle il miserando stato delle cose, s’adoperava in tutti i modi perché, ogni mese, non mancasse almeno il denaro per lei.
Marta finalmente s’era levata di letto, e già moveva i primi passi, sorretta dalla madre e da Maria: dalla poltrona a piè del letto fino allo specchio dell’armadio.
– Come sono, mio Dio!
Levava un braccio dal collo di Maria e si ravviava con la bianca mano tremolante i capelli dalla fronte, lievemente, e sorrideva guardandosi negli occhi, quasi con smarrita pietà per le sue povere labbra arse dal cociore di tante febbri. Poi andava a sedere nel seggiolone di cuojo presso la finestra. Veniva Anna Veronica e le parlava con la sua naturale dolcezza dei vespri di maggio consacrati alla Madonna: – La chiesa fresca, tutta fragrante di rose; poi la benedizione, e infine le canzonette sacre cantate al suono dell’organo: gli ultimi raggi d’oro del sole entravano in chiesa per i larghi finestroni aperti in alto, e anche qualche rondine entrava e svolava di qua, di là, smarrita, mentre fuori garrivano le altre com’ebbre, inseguendosi.
Marta ascoltava con l’anima quasi alienata dai sensi.
– Ti ci condurremo noi, andremo tutt’e quattro insieme, prima che finisca il mese. Oh starai bene, non dubitare.
Ma ella diceva di no, che non le sarebbe stato possibile.
– Sì, la chiesa, a due passi; ma se ancora non mi reggo…
La terza domenica di maggio, dopo la funzione sacra, Anna accorse, esultante, dalla chiesa.
– A te, a te, Marta! Uscita in sorte a te!
– Che cosa? – domandò Marta, guardando quasi sgomenta dal seggiolone.
– La Madonna! La Madonna: a te! Senti? Te la portano cantando le Figlie di Maria. Senti il tamburo? La Madonna ti viene in casa!
Nelle domeniche di maggio, in chiesa, dopo la predica e la benedizione, si faceva tra i divoti il sorteggio d’una Madonnina di cera custodita in una campana di cristallo.
– E come? come mai? – diceva Marta, tutta confusa, sentendo appressare vieppiù alla casa il coro delle divote e il rullo del tamburo.
– Io, tutte le domeniche, ho preso un numero per te. Oggi il cuore me lo diceva: Uscirà in sorte a Marta! E così è stato. Ho gettato un grido di contentezza così forte nella chiesa, che tutti si sono voltati. Ecco la Madonna che viene a visitarvi… Eccola, eccola, Vergine santa!
Entrò nella stanza una commissione di fanciulle che avevano tutte sul seno una medaglina pendente da un nastro azzurro; entrò il sagrestano della chiesa con la Madonna di cera entro la campana di cristallo che tra le grosse mani scabre e nere pareva anche più fragile. Per la scala rullava fragorosamente il tamburo.
Quelle fanciulle erano abituate a sorridere tutte a un modo, guardando e udendo le espressioni di giubilo con cui i divoti accoglievano la Madonnina: vedendo ora Marta rimanere seduta, pallida, stordita dalla commozione troppo forte per le sue deboli forze, rimasero dapprima un po’ sconcertate, poi le si appressarono e presero a parlarle, ripetendo ognuna le parole dell’altra: – Adesso sarebbe guarita, certo… La Madonna… La visita della Madonna… Via medici, medicamenti…
Il rullo del tamburo era intanto cessato: la signora Ajala aveva regalato qualche soldo al tamburino, altri ne regalò al sagrestano, e poco dopo la casa fu sgombra.
Marta non si saziava d’ammirare la Madonnina su le sue ginocchia, reggendola con le mani ceree su la campana.
– Com’è bella! com’è bella! Oh Maria!
E veramente, prima che finisse il mese, potè recarsi in chiesa a ringraziare la Madonna, in compagnia d’Anna Veronica, della madre e della sorella.
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