L’esclusa – Parte I – Capitolo 2 (con Audio)

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L esclusa - Parte I - Capitolo 2

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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi

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II.

            Per la scala, al bujo, Rocco Pentàgora rimase un tratto perplesso, se picchiare all’uscio dell’Inglese o a quello più giù d’un altro pigionante, il professor Blandino.

            Antonio Pentàgora aveva edificato quella sua casa, che pareva un torrione, a piano a piano. Al quarto, per il momento, s’era arrestato. Ma, o che la casa rimanesse veramente fuori mano, o che nessuno volesse aver da fare col proprietario, il fatto era che al Pentàgora non riusciva mai d’appigionarne un quartierino. Il primo piano era vuoto da tant’anni; del secondo una sola camera era occupata da quel professor Blandino, affidato alle cure della signora Popònica; del terzo, parimenti una sola, dall’inglese Mr H. W. Madden, detto Bill. Tutte le altre, qua e là, dai topi. Il portinaio aveva la dignitosa gravità d’un notajo; ma, cinque lire al mese; per cui non salutava mai nessuno.

            Luca Blandino, professore di filosofia al Liceo, su i cinquantanni, alto, magro, calvissimo, ma in compenso enormemente barbuto, era un uomo singolare, ben noto in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto. Aggiogato per necessità e con triste rassegnazione all’insegnamento, assorto di continuo nelle sue meditazioni, non si curava più di nulla né di nessuno. Tuttavia, chi avesse saputo all’improvviso impressionarlo, così da farlo per poco discendere dalla sfera di quei suoi nuvolosi pensieri, avrebbe potuto tirarlo dalla sua e farsene ajuto prezioso e disinteressato. Rocco lo sapeva.

            Uomo non meno singolare era il Madden, professore anche lui, ma privato, di lingue straniere. Dava a pochissimo prezzo lezioni d’inglese, di tedesco, di francese, bistrattando l’italiano. Piazza internazionale, dunque, quella sua fronte smisurata. I capelli aurei, finissimi, pareva gli si fossero allontanati dai confini della fronte e dalle tempie per paura del naso adunco, robusto; ma in cerca di loro, dalla punta delle sopracciglia serpeggiavano sù sù, come per andarsi a nascondere, due vene sempre gonfie. Sotto le sopracciglia s’appuntavano gli occhietti grigio-azzurri, a volta astuti, a volta dolenti, come gravati dalla fronte. Sotto il naso, i baffetti color di fieno, tagliati rigorosamente intorno al labbro. Nonostante la fronte monumentale, la natura aveva voluto dotare il corpo del signor Madden d’una certa agilità scimmiesca; e il signor Madden subito aveva tratto partito anche di questa dote: nelle ore d’ozio, dava lezioni di scherma; ma così, senz’alcuna pretesa, badiamo!

            Probabilmente neppur lui, povero Bill, avrebbe saputo ridire come mai dalla nativa Irlanda si fosse ridotto in un paese di Sicilia. Nessuna lettera mai dalla patria! Era proprio solo, con la miseria dietro, nel passato, e la miseria davanti, nell’avvenire. Così abbandonato alla discrezione della sorte, pure non s’avviliva. In verità, il signor Madden aveva in mente, per sua ventura, più vocaboli che pensieri; e se li ripassava di continuo.

            Rocco – come Niccolino aveva supposto – lo trovò sveglio.

            Bill stava seduto su un vecchio, sgangherato canapè davanti a un tavolino, con la gran fronte illuminata da una lampada dal paralume rotto; senza scarpe, teneva una gamba accavalciata su l’altra e dava morsi da arrabbiato a un panino imbottito, guardando religiosamente una bottiglia sturata di pessima birra, che gli stava davanti.

            Ogni mattone, in quella camera, reclamava la scopa e una cassetta da sputare per il signor Madden; reclamavano le pareti e i pochi decrepiti mobili uno spolveraccio; reclamava il letticciuolo dai trespoli esposti le solide braccia d’una servotta, che lo rifacessero almeno una volta la settimana; reclamavano gli abiti del signor Madden non una spazzola, ma una brusca, piuttosto, da cavallo.

            Le vetrate dell’unica finestra erano aperte; le persiane, accostate. Le scarpe del signor Madden, una qua, una là, in mezzo alla camera.

            – Oh Rocco! – esclamò con la barbara pronunzia, nella quale gargarizzava, schiacciava, sputava vocali e consonanti, con sillabazione spezzata, come se parlasse con una patata calda in bocca.

            – Scusa, Bill, se vengo così tardi, – disse Rocco, con faccia cadaverica. – Ho bisogno di te.

            Bill ripeteva quasi sempre le ultime parole del suo interlocutore, come per agganciarvi la risposta:

            – Di me? Un momento. È mio dovere di rimettere prima le scarpe.

            E guardò, sconcertato, la ferita su la fronte dell’amico.

            – Ho avuto una lite.

            – Non capisco.

            – Una lite! – urlò Rocco, additando la fronte.

            – Ah, una lite, benissimo: a strife, der Strette, une mêlée, yes, capito benissimo. Si dicelite in italiano? Li-te, benissimo. Che cosa posso io fare?

            – Ho bisogno di te.

            – (Li-te). Non capisco.

            – Voglio fare un duello!

            – Ah, un duello, tu? Benissimo capito.

            – Ma non so, – riprese Rocco, – non so proprio nulla di… di scherma. Come si fa? Non vorrei farmi ammazzare come un cane, capisci?

            – Come un cane, benissimo capito. E allora qualche… coup? Ah, un colpo – si dice? Sì,infallible, io te lo insegnare. Molto semplice, sì. Subito?

            E Bill, con una mossa da scimmia ben educata, staccò dalla parete due vecchi fioretti arrugginiti.

            – Aspetta, aspetta… – gli disse Rocco, turbandosi alla vista di quei ferracci. – Spiegami, prima… Io sfido, è vero? oppure, schiaffeggio e sono sfidato. I padrini discutono, si mettono d’accordo. Duello alla sciabola, poniamo. Si va sul luogo stabilito. Ebbene, che si fa? Ecco, voglio saper tutto, con ordine.

            – Sì, ecco, – rispose il Madden, a cui l’ordine, parlando, piaceva, per non imbrogliarsi; e si mise a spiegargli alla meglio, a suo modo, i preliminari d’un duello.

            – Nudo? – domandò a un certo punto Rocco, costernatissimo. – Come nudo? perché?

            – Nudo… di camicia, – rispose il Madden. – Nudo il… come si dice? le tronc du corps… die Brust… ah, yes, torso, il torso. O puramente, senza nudo, sì… come si vuole.

            – E poi?

            – Poi? Eh, si duellare… La sciabla; in guardia; à vous!

            – Ecco, – disse Rocco, – io, per esempio, prendo la sciabola; avanti, insegnami… Come si fa?

            Bill gli dispose bene, prima di tutto, le dita di tra le basette. Rocco si lasciò piegare, stirare, atteggiare come un automa. Si avvilì presto però in quelle insolite positure stentate. – Cado! cado!, – e il braccio teso gli si stancava, gli s’irrigidiva; il fioretto, possibile? pesava troppo. – Eh! eh! olà! oilà! – incitava intanto il Madden. – Aspetta, Bill! – nel dare quel colpo, il piede sinistro come poteva star fermo? e il destro, Dio! Dio! non poteva più ritrarsi in guardia! A ogni movimento il sangue gli affluiva con impeto alla ferita della fronte. Intanto, alle pareti, i decrepiti mobili pareva che sussultassero, sbalorditi, agli sbalzi ridicoli delle ombre mostruosamente ingrandite di quei duellanti notturni.

            Bum! bum! bum! – alcuni colpi bussati con rabbia sotto il pavimento.

            Il Madden ristette, scosciato, con la gran fronte imperlata di sudore. Tese l’orecchio.

            – Abbiamo svegliato il professore Luca!

            Rocco si era abbandonato, rifinito, su una seggiola, con le braccia ciondoloni, la testa cascante, appoggiata alla parete; quasi in deliquio. Pareva, in quell’atteggiamento, che avesse già terminato il duello con l’avversario e ricevuto una ferita mortale.

            – Abbiamo svegliato il professor Luca, – ripetè Bill, guardando Rocco, a cui tale notizia pareva non arrecasse alcuna spiacevole sorpresa.

            – Andrò io dal Blandino, – diss’egli alla fine, levandosi in piedi. – Bisogna sbrigar tutto prima di domani. Il Blandino mi farà da testimonio. Addio; grazie, Bill. Conto anche su te, bada.

            Il Madden accompagnò col lume in mano l’amico fino alla porta; aspettò sul pianerottolo che il professor Blandino venisse ad aprire e, allorché la porta del secondo piano fu richiusa, si ritirò facendo un suo gesto particolare con la mano, come se si cacciasse una mosca ostinata dalla punta del naso.

            Luca Blandino accolse di malumore quella visita notturna. Borbottando, barcollando, introdusse Rocco per le altre stanze deserte, nella sua camera; poi, col barbone grigio abbatuffolato e gli occhi gonfii e rossi dal sonno interrotto, sedè sul letto con le gambe nude, pelose, penzoloni.

            – Professore, abbia pietà di me, e mi perdoni, – disse Rocco. – Mi metto nelle sue mani.

            – Che t’è accaduto? Tu sei ferito! – esclamò il Blandino con voce rauca, guardandolo con la candela in mano.

            – Sì… ah se sapesse! Da dieci ore, io… Sa, mia moglie?

            – Una disgrazia?

            – Peggio. Mia moglie m’ha… L’ho scacciata di casa…

            – Tu? Perché?

            – Mi tradiva… mi tradiva… mi tradiva…

            – Sei matto?

            – No! che matto!

            E Rocco si mise a singhiozzare, nascondendo la faccia tra le mani e nicchiando:

            – Che matto! che matto!

            Il professore lo guardava dal letto, non credendo quasi agli occhi suoi, ai suoi orecchi, così soprappreso nel sonno.

            – Ti tradiva?

            – L’ho sorpresa che… che leggeva una lettera… Sa di chi? dell’Alvignani!

            – Ah birbante! Gregorio? Gregorio Alvignani?

            – Sissignore – (e Rocco inghiottì). – Ora, capisce, professore… così… così non può, non deve finire! Egli è partito.

            – Gregorio Alvignani?

            – Scappato, sissignore. Questa sera stessa. Non so dove, ma lo saprò. Ha avuto paura… Professore, mi metto nelle sue mani.

            – Io? Che c’entro io?

            – Una soddisfazione, professore, io una soddisfazione certamente me la devo prendere, di fronte al paese. Non le pare? Posso restar così?

            – Piano, piano… Càlmati, figlio mio! Che c’entra il paese?

            – L’onore mio, professore! Le pare che non c’entri? Debbo difendere il mio onore… di fronte al paese…

            Luca Blandino scrollò le spalle, seccato.

            – Lascia stare il paese! Bisogna riflettere, ragionare. Prima di tutto: ne sei ben sicuro?

            – Ho le lettere, le dico, le lettere che lui le buttava dalla finestra!

            – Lui, Gregorio? come un ragazzino? Ma mi dici davvero? Ohi, ohi, ohi… Le buttava le lettere dalla finestra?

            – Sissignore, le ho qua!

            – Ma guarda, guarda, guarda… E tua moglie, santo Dio! Non è figlia di Francesco Ajala, tua moglie? Bada, caro mio, che quello è una bestia feroce… Adesso nasce un macello… Che m’hai detto? Che m’hai detto? Vah… vah… vah… Dalla finestra? Le buttava le lettere dalla finestra, come un ragazzino?

            – Posso contare su lei, professore?

            – Su me? Perché? Ah tu vorresti fare… Aspetta, figliuolo mio, bisogna ragionare… Mi hai tutto scombussolato… Non è possibile, adesso…

            Scese dal letto; s’accostò a Rocco e, battendogli una mano su la spalla, aggiunse:

            – Torna sù, figliuolo mio… Tu soffri troppo, lo vedo… Domani, eh? con la luce del sole. Ne riparleremo domani; ora è tardi… Va’ a dormire, se ti sarà possibile… va’ a dormire, figlio mio…

            – Ma mi prometta fin d’ora… – insistè Rocco.

            – Domani, domani, – lo interruppe di nuovo il Blandino, spingendolo verso l’uscio. – Ti prometto… Ma che birbante, oh! Le lettere gliele buttava dalla finestra? Bisogna aspettarsi di tutto a questo mondaccio, caro mio! Povero Roccuccio, ma guarda! ti tradiva… Sù, sù, andiamo…

            – Professore… non m’abbandoni, per carità! Conto su lei!

            – Domani, domani, – ripetè il Blandino. – Povero Roccuccio… la vita, eh? che miseria… Buona notte, figliuolo mio, buona notte, buona notte…

            E Rocco sentì chiudersi dietro le spalle la porta, piano piano, e restò al bujo, sul pianerottolo, in mezzo alla scala silenziosa, smarrito. Nessuno voleva più saperne, di lui?

            Sedette, come un bambino abbandonato, su i primi scalini della branca, presso la ringhiera, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. Il bujo, il silenzio, la positura stessa gli strinsero il cuore, gli fecero cader l’animo in un avvilimento profondo. Contrasse il volto e si mise a piangere e a lamentarsi sommessamente:

            – Ah, mamma mia! mamma mia!

            Pianse e pianse. Poi si cercò in tasca e ne trasse una lettera tutta brancicata. Accese un fiammifero e si provò a leggere; ma avvertì su la mano il contatto di qualcosa umida, lievissima, un po’ vischiosa; e alzò il fiammifero per veder che fosse. Un filo di ragno, lunghissimo, che pendeva dall’alto della scala. Si distrasse a guardarlo, e non avvertì al fiammifero che gli si consumava intanto tra le dita; si scottò e, al bujo, gridò più volte:

            – Maledetto! maledetto! maledetto!

            Accese un altro fiammifero e si mise a leggere la lettera, ch’era scritta di minutissimo carattere, su una carta cinerea, ruvida in vista. Lèsse macchinalmente le prime parole: «Ti scrivo da tre mesi (son già tre mesi) e ancora…». Saltò alcuni righi; fissò lo sguardo su un«Quando?» sottolineato, poi buttò il fiammifero e restò con la lettera in mano e gli occhi sbarrati nel bujo.

            Rivedeva la scena.

            Aveva sforzato l’uscio con un violento spintone, gridando: «La lettera! dammi la lettera!». Al fracasso, Marta s’era fatta riparo dello sportello aperto del grande armadio a muro presso al quale leggeva. Egli aveva tratto in avanti con forza lo sportello e le aveva attanagliato i polsi. «Che lettera? Che lettera?» aveva ella balbettato, guardandolo atterrita negli occhi. Ma la carta, spiegazzata nell’improvviso terrore e impigliata tra le vesti e un palchetto dell’armadio, era caduta come una foglia secca sul pavimento. Ed egli, nel lanciarsi a raccoglierla, s’era ferito alla fronte, urtando contro lo sportello aperto dell’armadio. Accecato dall’ira, dal dolore, aveva allora inveito contro di lei, senza riguardo alla maternità incipiente, e la aveva senz’altro cacciata di casa a urtoni, a percosse.

            Poi, l’altra scena, col suocero. Era andato a mostrargli quella e le altre lettere dell’Alvignani rinvenute nell’armadio. Non c’era colpa? «E in che consiste allora la colpa per lei?» gli aveva domandato. «Scusi, forse perché è sua figlia?» Francesco Ajala gli era saltato addosso come una tigre. «Mia figlia? che dici? mia figlia una sgualdrina?» Poi s’era ammansato. «Bada, Rocco, bada a quello che fai… Vedi di che si tratta? Lettere… E tu rovini due case: la tua e la mia. Forse puoi ancora perdonare…» «Ah sì? e la perdonerebbe lei, al mio posto, se invece d’esser padre fosse marito?» E Francesco Ajala non aveva saputo rispondergli.

            «Lui no, e io sì? Oh bella!» pensò Rocco, nel silenzio della scala.

            «È finita! ora è finita!»

            Si levò in piedi e, accendendo un altro fiammifero, si mise a risalire la scala, con gli occhi alla lettera che aveva ancora in mano.

            «Che vorrà dire?…», domandava a se stesso, cercando di decifrare il motto dell’Alvignani inciso in rosso in capo al foglio:

            NIHIL – MIHI – CONSCIO

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L’esclusa – Indice

Introduzione

Parte prima
Capitolo 1Capitolo 2Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14

Parte seconda
Capitolo 1 – Capitolo 2 – Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14 – Capitolo 15

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