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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi.
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XIV.
Circa tre mesi dopo, inaspettatamente, venne a Marta un invito del Direttore del Collegio.
La vecchia portinaja Sabetti, che aveva recato dolente la cattiva notizia della supplenza accordata alla Breganze, entrò questa volta gridando, tutta esultante:
– Signorina! Signorina! La avremo con noi! Con noi, signorina bella! Tenga, legga questo biglietto…
Fu, nella squallida desolazione, come un raggio di sole improvviso. Marta diventò in volto di bragia.
– Che felicità! – seguitava la vecchia Sabetti, gestendo con fuoco. – La maestra Fiori della seconda preparatoria, se ne torna lassù, fuorivia! Ha ottenuto il trasloco, Dio sia lodato! Le ragazze rifiateranno…
– Debbo recarmi in giornata al Collegio… – annunziò Marta con voce tremante dalla commozione, dopo aver letto l’invito.
– Sissignora! – riprese la vecchia portinaja. – E vedrà che è per questo! Ne sono sicura!
– Ma come! – osservò Marta. – La Fiori, trasferita?
– Traslocata, sissignora! Fortuna, le dico, per le povere ragazze… Che pittima!
– Con l’anno scolastico già cominciato? – osservò Marta, non sapendo che pensare.
– Il Torchiara, forse… – sfuggì alla signora Agata.
E riferì alla figlia la visita fatta di nascosto all’Ispettore scolastico.
Poco dopo, mentre si vestiva per recarsi al Collegio, passata la prima commozione, Marta intuì a chi doveva quella nomina tardiva: n’ebbe una scossa, e sentì mancarsi a un tratto la forza d’agganciare il busto alla vita.
Ricominciò la guerra fin dal primo giorno di scuola.
Già le altre maestre del Collegio, oneste e brutte zitellone, se la recarono subito a dispetto. Gesù, Gesù! un breve saluto, la mattina, con le labbra strette, e via; un freddo, lieve cenno del capo, ed era anche troppo! Un’onta per la classe delle insegnanti! un’onta per l’Istituto! Il mondo, sì, intrigo: per riuscire, mani e piedi! ma onestamente, oh! Anzi,onoratamente…
E, sotto sotto, comentavano con acre malignità il modo con cui il Direttore e gli altri professori del Collegio fin dal primo giorno si erano messi a trattare l’Ajala; e rimpiangevano quella cara maestra Fiori che non avrebbero più riveduta. La Fiori: che pena!
Riusciti vani i nuovi e più aspri reclami delle famiglie, le ragazze (assentatesi per alcuni giorni dalla scuola all’annunzio della nomina di Marta) cominciarono man mano a ripigliare le lezioni; ma cattive, astiose, messe sù evidentemente dai genitori contro la nuova maestra.
A nulla giovò l’affabilità con cui Marta le accolse per disarmarle fin da principio; a nulla la prudenza e la longanimità. Si sottraevano sgarbatamente alle carezze, si mostravano sorde ai benevoli ammonimenti, scrollavano le spalle a qualche rara minaccia; e le più cattive, nell’ora della ricreazione in giardino, sparlavano di lei in modo da farsi sentire o, per farle dispetto, accorrevano ad attorniare le antiche maestre e a carezzarle, piene di moine e di premure, lasciando lei sola a passeggiare in disparte.
Ritornando a casa, dopo sei ore di pena, Marta doveva fare uno sforzo violento su se stessa per nascondere alla madre e alla sorella il suo animo esasperato.
Ma un giorno, ritornando più presto dal Collegio, accesa in volto, vibrante d’ira contenuta a stento, appena la madre e Anna Veronica le domandarono che le fosse avvenuto, ella, ancora col cappellino in capo, scoppiò in un pianto convulso.
Esaurita finalmente la pazienza, vedendo che con le buone maniere non riusciva a nulla, per consiglio del Direttore s’era messa a malincuore a trattare con un po’ di severità le alunne. Da una settimana usava prudenza con una di esse, ch’era appunto la figlia del consigliere Breganze, una magrolina bionda, stizzosa, tutta nervi, la quale, messa sù dalle compagne, era giunta finanche a dirle forte qualche impertinenza.
– E io ho finto di non udire… Ma quest’oggi alla fine, poco prima che terminasse la lezione, non ho saputo più tollerarla. La sgrido. Lei mi risponde, ridendo e guardandomi con insolenza. Bisognava sentirla! «Esca fuori!» «Non voglio uscire!» «Ah! no!» Scendo dalla cattedra per scacciarla dalla classe: ma lei s’aggrappa alla panca e mi grida: «Non mi tocchi!Non voglio le sue mani addosso!». «Non le vuoi? Via, allora, via! esci fuori!» e fo per strapparla dalla panca. Lei allora si mette a strillare, a pestare i piedi, a contorcersi. Tutte le ragazze si levano dalle panche e le vengono intorno; lei, minacciandomi, esce dalla classe, seguita dalle compagne. È andata dal Direttore. Questi non mi dà torto in loro presenza; rimasti soli, mi dice che io avevo un po’ ecceduto; che non si debbono, dice, alzar le mani su le allieve… Io, le mani? Se non l’ho toccata! Alla fine però accetta le mie ragioni… Ma Dio, Dio; come andare avanti così? Io non ne posso più!
Il giorno appresso, intanto, il padre della ragazza, il consigliere cavaliere ufficiale Ippolito Onorio Breganze, andò a fare una scenata nel gabinetto del Direttore.
Era furibondo.
L’obesità del corpo veramente non gli permetteva di gestire come avrebbe voluto. Corto di braccia, corto di gambe, portava la pancetta globulenta in qua e in là per la stanza, faticosamente, facendo strillare le suole delle scarpe a ogni passo. Alzare le mani in faccia alla sua figliuola? Neanco Dio, neanco Dio doveva permetterselo! Lui, ch’era il padre, non aveva mai osato far tanto! Si era forse tornati ai beati tempi dei gesuiti, quando s’insegnava a colpi di ferula su la palma della mano o sul di dietro? Voleva pronta e ampia soddisfazione! Ah sì, perrrdio! Se la signora Ajala aveva valide protezioni e preziose amicizie, lui, il consiglierrr Breganze, avrebbe rrreclamato rrriparazione e giustizia più in alto, più in alto (e si sforzava invano di sollevare il braccìno) – sissignore, più in alto! a nome della Morale offesa non solo dell’Istituto, ma dell’intero paese.
E dri dri dri – strillavano le scarpe.
Il Direttore non riusciva a calmarlo. Gli veniva quasi da ridere: in paese si diceva che colui non era veramente il padre della sua figliuola. Ma il consigliere Ippolito Onorio Breganze, paonazzo in volto, non poteva accontentarsi della semplice riprensione fatta a quattr’occhi alla maestra: pretendeva, esigeva una grave, una seria punizione! A lui, adesso, non istava più a cuore soltanto la sua cara piccina, ma anche «la salute morale, signor Direttore, di tutto il paese scandalizzato!». Non era forse a conoscenza il signor Direttore di quanto era avvenuto? non sapeva a qual donna si era affidata l’educazione delle tènere menti, delle gracili anime?
– È un’im-mo-ra-li-tà! – tuonò alla fine con tutta la voce, sillabando. – O ci rrrimedia lei, o ci rrrimedio io. Vado a far reclamo formale all’Ispettore scolastico! La rrriverisco.
E cacciandosi di furia in capo, puhm! il cappello a stajo, se ne andò. Entrava il bidello. Si diedero un inciampone così forte, che per poco non si gettarono a terra tutti e due.
– Scusi…
– Scusi…
E dri dri dri…
Due giorni dopo, il Direttore del Collegio fu chiamato dall’Ispettore scolastico.
Da due mesi il Torchiara notava, costernato, il grave danno che quella nomina della maestra Ajala produceva in paese alla posizione politica non ancora assodata dell’Alvignani. «Signor mio, il cuore è stato sempre il gran nemico della testa!», aveva ripetuto più volte a se stesso. Perché si dilettava, il cavalier Claudio Torchiara, di formulare aforismi, intercalandovi di solito quel Signor mio anche quando gli enunziava a una donna o, per solitario spasso, a se medesimo.
La visita furibonda del consiglier Breganze lo aveva lanciato addirittura in un mare di confusione. Adesso, dunque, pure il Municipio si sarebbe voltato contro l’Alvignani? Aveva promesso al Breganze riparo e soddisfazione, ora invitava il Direttore del Collegio; vagliando e traendo giudizio dalle opposte versioni del fatto, avrebbe scritto all’Alvignani per provvedere alla meglio e salvare all’uopo, come suol dirsi, capra e cavoli. In ultima analisi, pazienza per la capra. I cavoli, in questo caso, erano i voti con cui Gregorio Alvignani era stato eletto deputato.
Il Direttore del Collegio, sebbene stanco ormai delle noje che gli aveva cagionate involontariamente quella maestra, difese pure Marta davanti all’Ispettore, per debito di coscienza.
– Capisco, capisco, – gli rispose il cavalier Torchiara. – Ma l’ingegno, signor mio, e la volontà di far bene non bastano; bisogna pure guardare, guardare nella vita privata, la quale, signor mio, influisce, ha il suo peso e non poco su la considerazione, in cui le allieve debbono tenere la propria maestra, mi spiego?… la quale…
Ma il Direttore era venuto da poco in paese; non sapeva i precedenti della maestra; ammirato invece del grande valore di lei, credeva meritasse ogni considerazione!
– E ne terremo conto! – esclamò il cavalier Torchiara. – Come no? ne terremo conto, tanto più che io so in che tristi condizioni versi la famiglia di lei, la quale… Non dubiti, si provvederà, con un trasferimento, per esempio, vantaggioso per la maestra… Intanto, signor mio, il naso bisogna pur cacciarlo fuori della scuola… e… e tener conto dei reclami del pubblico, il quale… Ecco, pare tuttavia che la signora maestra, per quanto, non dico di no, provocata e anche in certo qual modo scusabile… pare abbia… sì, dico, ecceduto un tantino… Eh già! Il Breganze, signor mio, personaggio di conto… eh!… e anche nell’interesse della maestra, sarà meglio dargli qualche soddisfazioncella, perché la cosa non esca dalle sfere scolastiche, mi spiego?… Senta, facciamo così. Lei persuada la maestra Ajala a darsi per ammalata per una quindicina di giorni, e intanto chiami una supplente perché le alunne non abbiano a soffrirne nello svolgimento del programma, il quale… Nel frattempo si provvederà. Va bene così?
E lo stesso giorno scrisse una lunga lettera confidenziale al suo caro Gregorio, scongiurandolo di far tutto il possibile per ottenere il trasferimento della sua «raccomandata» – causa per lui di gravissimi danni. Non s’illudeva su le difficoltà; ma a lui, all’Alvignani, dopo lo splendido discorso alla Camera dei Deputati nella discussione del bilancio della pubblica istruzione (discorso che, d’un colpo – non per adularlo! – gli aveva creato una vera posizione parlamentare, come tutti i giornali assicuravano), nessuna difficoltà doveva riuscire insormontabile. Per quell’anno, del resto, la maestra Ajala poteva andare come supplente nel Collegio Nuovo in Palermo (posto vacante).
In attesa di così grave decisione, Marta fu costretta a prolungare di altri quindici giorni «la sua malattia». Dopo circa un mese arrivarono due lettere dell’on. Alvignani, una per Marta, l’altra per l’ispettore Torchiara.
Nel ricever quella lettera, Marta provò un vivissimo turbamento. Avvilita dall’impotenza di lottare contro l’ingiustizia patente di tutti; rivoltata della punizione inflittale immeritamente, si sentiva ormai avvelenata d’odio e di bile. Quella lettera le parve un’arma per la vendetta.
Era sapientemente composta; non una anche vaga allusione al passato che potesse in quel momento urtarla; ma, sotto le amare riflessioni su la vita e su gli uomini, tanta intuizione dello stato d’animo in cui ella si trovava! Meglio, meglio chiudersi in un sogno continuo, sopra le volgarità e le comuni miserie dell’esistenza quotidiana, sopra il giogo livellatore delle leggi a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, ostacolo e pastoja a ogni ascensione verso un’idealità!
Le diceva d’aver saputo quanto a lei era toccato di soffrire in quegli ultimi tempi e le annunziava il trasferimento e la nomina, per liberarla dal fango che l’attorniava. Si era presa lui, spontaneamente, questa libertà, sicuro d’interpretare un desiderio che ella non gli avrebbe mai manifestato; e la pregava di lasciarlo fare, di concedere almeno che, da lontano, egli si prendesse cura e si ricordasse sempre di lei. Purtroppo, i mezzi che gli si offrivano per manifestare rispettosamente tutto l’animo suo erano meschini e ristretti!
In capo al foglio, ancora qui, latinamente inciso, il motto:
NIHIL – MIHI – CONSCIO
Un solo rammarico per Marta, per Maria e per la madre, partendo: quello di lasciare Anna Veronica.
Povera Anna! Faceva loro coraggio, ma in fondo al cuore era la più disajutata: esse erano in tre: lei sarebbe rimasta sola, sola, sola, come abbandonata tra nemici. E di nuovo per lei il silenzio, di nuovo la solitudine, i giorni tristi, lunghi, uguali…
– Mi scriverete, però!
Diceva di non voler piangere, e piangeva. Le labbra costrette per forza a sorridere, invece di un sorriso, facevano il greppo.
Volle accompagnarle fino alla stazione ferroviaria a piè del colle su cui sorgeva la città. Durante il tragitto in vettura, non scambiarono una parola. Era una giornata umida, grigia, e la vecchia vettura rimbalzava su i fradici sassi dello stradone scosceso, scotendo continuamente i vetri mal connessi degli sportelli, i quali davano un frastuono irritante.
Quando poi il convoglio stava per partire, Anna Veronica e la signora Agata, rimaste aggrappate l’una all’altra, soffocando i singhiozzi ciascuna su l’omero dell’altra, furono quasi strappate con violenza dal conduttore. Già la vaporiera fischiava, lì lì per mettersi in moto.
Anna rimase col volto bagnato di lagrime e le braccia tese che si andavano lentamente abbassando, man mano che il nero convoglio si allontanava; gli occhi fissi a gli sportelli del vagone in cui le tre amiche erano salite, e da cui ancora fin laggiù, fin laggiù, si agitavano in saluto i fazzoletti…
– Addio… Addio… – mormorava quasi a se stessa, agitando il suo, l’abbandonata.
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