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««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi.
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XIII.
Anna Veronica scappò in fretta dalle Ajala, appena andato via Rocco Pentàgora.
– Dov’è Marta? – domandò piano a Maria, ponendosi un dito su le labbra.
– Nella sua camera… Perché?
– Zitta! Piano!
Fece segno alla signora Agata d’accostarsi; si guardò d’attorno:
– Lasciatemi sedere… Tremo tutta… Ah, care mie, se sapeste! Indovinate chi è venuto da me, poco fa? Il marito di Marta!
– Rocco! Lui! – esclamarono insieme, sottovoce, Maria e la madre, stupite.
Anna si ripose il dito su le labbra.
– Come un pazzo, – aggiunse, agitando le mani per aria. – Ah che paura! La ama ancora, ve lo dico io! Se non fosse… Ma sentite: dunque, è venuto da me. Io, dice, non credo alle calunnie della gente…
– E allora? – scappò dal cuore alla madre.
– Giusto così: e allora? gli ho detto io, come te. Ma egli, Marta, dice, – aspetta! – non doveva, dice, esporsi alla malignità della gente, far la maestra, insomma… N’è sdegnato, avvilito… Basta: sapete, care mie, che m’ha proposto? Che io induca Marta a rinunziare alle sue idee… Provvederà lui, dice, ai bisogni vostri; tanto perché la gente non sparli più.
– E nient’altro? – sospirò a questo punto la signora Agata. – Ah, con un po’ di danaro soltanto, somministrato di furto, come in elemosina, intende di chiudere la bocca alla gente? E domani non si dirà che il denaro ci venga da altra mano? Oh sciocco e vile!
– No! no! – riprese Anna. – Non dire così… È innamorato, credi a me… Ma c’è quel cane giudeo del padre, capisci? e finché c’è lui… Se Marta intanto volesse scrivergli un biglietto…
– A chi?
– A lui, al marito! da intenerirlo; una lettera come lei sola sa scriverne… Questo sarebbe proprio il momento! «Tu sai bene», dovrebbe dirgli, «quanto ci sia stato di vero… e ora vedi come sono trattata? ciò che si dice di me?» Ah, se volesse scrivergli queste due parole… Tanto più che me l’ha chiesta lui una risposta… Che ne dite?
– Marta non lo farà! – disse Maria, scotendo il capo.
– Proviamo! – replicò Anna. – Volete che le parli io? Dov’è?
– Di là, – accennò la signora Agata. – Ma temo che non sia il momento…
– Vado io sola, – aggiunse Anna, levandosi.
Marta era stesa sul lettuccio, con le braccia conserte sul guanciale e la faccia nascosta; appena sentì schiudere l’uscio restrinse le braccia e vi cacciò più addentro il volto.
– Sono io, Marta, – disse Anna, richiudendo l’uscio pian piano.
– Lasciami, per carità, Anna! – rispose Marta, senz’alzare la testa, agitandosi sul letto. – Non tentare di confortarmi!
– No, no, – s’affrettò a soggiungere Anna Veronica, accostandosi al lettuccio e posandole lieve una mano su le spalle. – Volevo soltanto vederti…
– Non voglio veder nessuno, non posso sentire nessuno, in questo momento! – riprese Marta smaniosamente. – Lasciami, per carità!
Anna ritrasse subito la mano, e disse:
– Hai ragione…
Attese un pezzo, poi riprese sospirando:
– Troppo bello… troppo facile sarebbe stato! T’immaginavi che la gente non dovesse impedirti d’andare per la strada che ti sei aperta col lavoro, con l’ingegno, col coraggio… Ma a che servono, cara mia, queste cose? Protezioni ci vogliono! Ne hai? No… Si va avanti con queste soltanto; e ognuno giudica come pensa…
Marta levò improvvisamente la testa dal guanciale e disse con ira:
– Ma se l’avevano promesso a me, quel posto!
– Sì, – replicò subito Anna, – ed è infatti bastato questo soltanto, questa semplice promessa non mantenuta, perché la gente cominciasse a gridare che tu eri protetta da qualcuno…
– Io? – fece Marta, non comprendendo dapprima e guardando negli occhi Anna Veronica. Poi diede un grido: – Ah!… Io… io… – E non potè dir altro; si premette il volto con le mani; poi proruppe: – Eh già! sì… sì… così deve credere la gente! Ci sarà chi va spargendo questa nuova calunnia!
– Lui, no, sai? tuo marito, no, – disse subito Anna. – È venuto da me apposta, per dirmelo.
– Rocco? – esclamò Marta, sbalordita, tentando invano d’aggrottare le ciglia. – Rocco è venuto da te?
– Sì, sì, poco fa… per dirmi che non ci crede!
– Da te? lui?
Lo sbalordimento impediva ancora all’odio di trovare la ragione di quella visita.
– E che vuole?
– Vuole… – rispose Anna, – vorrebbe che tu…
– Sai che vuole? – scattò Marta, con gli occhi lampeggianti. – Gli è mancato il coraggio; ha rimorso, da un canto; e, dall’altro… io ho tentato di alzare la testa, è vero? ebbene, e lui, giù! vorrebbe farmela riabbassare, giù! giù! nel fango in cui m’ha gettata! Questo vuole! Io non debbo più respirare; non debbo cancellarmi dalla fronte, qua, il marchio, il marchio con cui ha creduto di bollarmi! Questo vuole! Oh, se gli do questa soddisfazione, di rimanere appiattata nel fango, come una ranocchia ch’egli possa schiacciare col piede, se gliene venga la voglia; se gli do questa soddisfazione, sai? ma sarebbe anche capace di mantenermi, di darmi da vestire e da mangiare, a me e ai miei…
Anna la guardò sorpresa e dolente.
– Non vuole questo, di’? – incalzò Marta. – Ho indovinato? Vuoi darlo davvero a conoscere a me? Gli leggo in fronte, come in un libro, ciò che gli passa per il capo!
– Se tutto questo volessi scriverglielo… – arrischiò timidamente Anna.
– Io? a lui?
– Perché vorrebbe una risposta…
– Da me? – fece Marta, con sdegno. – Io, scrivere a lui? Ma io… guarda, piuttosto… giacché nulla è valso per costoro e la mamma e Maria per vivere debbono avvilirsi con me al servizio altrui… io, guarda, a un altro piuttosto scriverei… a Roma…
– No, Marta! – esclamò Anna, afflitta.
– No… no… – si disdisse subito Marta, rovesciandosi di nuovo sul letto, con la faccia affondata nei guanciali. – No… lo so! Morire di fame, piuttosto…
Anna Veronica non seppe dirle più nulla. Carezzò con gli occhi pietosi, sul letto, quel corpo fiorente, scosso dal pianto; con una mano le rassettò sui piedi un lembo della veste che le si era rimboccato su la gamba.
Sospirò e uscì dalla camera.
Né la signora Agata né Maria, rivedendola, le domandarono nulla. Tutt’e tre stettero in silenzio un lungo tratto, con gli occhi fissi nel vuoto.
– Se tu andassi dal Torchiara? – suggerì Anna, alla fine.
La signora Agata la guardò, come per dire: «A far che?».
– È un’ingiustizia, – aggiunse Anna. – Qualche cosa il Torchiara ti dirà… Anche per sentire… Potete durare così?
Da due giorni, infatti, Marta non prendeva quasi cibo, buttata lì sul letto, irremovibile.
– Che vuoi che mi dica? – sospirò la signora Agata. – Ormai il posto è dato…
– Ma era stato promesso a Marta, prima! – disse Anna. – Ti spiegherà… No, senza farti illusioni, lo so; ma ti dirà almeno qualche buona parola. Per scuotere questa povera figliuola… Sù, Agata mia, va’… Ora stesso! Lo so, e un sacrificio…
– Per me? – fece desolatamente la signora Agata, levandosi e aprendo le braccia.
Tutto per lei, ormai, era come niente. Non aveva più volontà. Si appuntò la cuffia vedovile su i capelli divenuti grigi in pochi mesi, e disse:
– Per me, vado subito…
Come se avesse veramente da vergognarsi di qualche cosa, schivava però per via gli sguardi della gente. Erano tanti, tutto il paese era per l’ingiustizia, per la condanna; e s’era nascosto il marito, l’uomo che non aveva chiesto mai nulla, che non s’era mai inchinato ad alcuno. Che era lei? Una povera donna era, sbigottita da quella ingiustizia, sbigottita dalla sciagura; e si vergognava, sì, della miseria, si vergognava della veste che aveva indosso. Marta, Marta avrebbe dovuto starsene rassegnata e dimessa, ad aspettare giustizia dal tempo: avrebbero lavorato tutte e tre insieme, nell’ombra, e tirato innanzi alla meglio; senza andare a suscitare di nuovo tutta questa guerra.
Ecco la casa del Torchiara. Salì a stento, ansimando, la scala; davanti all’uscio prima di sonare, si nascose il volto con le mani.
– È solo? – domandò per prima cosa alla serva, che venne ad aprirle.
– No, c’è il professor Blandino, – le rispose questa.
– Allora… aspetto qua?
– Come vuole… Intanto, l’annunzio.
Poco dopo, il cavalier Claudio Torchiara, scostando con una mano la tenda dell’uscio e rialzandosi con l’altra sul naso le lenti fortissime da miope che gli rimpiccolivano gli occhi, chiamò:
– Venga avanti, favorisca, signora!
La prese per mano e la condusse davanti al canapè dello studio.
La signora Agata, inchinando il capo con un sorriso mesto, sedette in un angolo del canapè.
– Il professor Luca Blandino, – aggiunse il Torchiara, presentandolo.
– Conosco… conosco… – interruppe l’uomo calvo e barbuto, porgendo distrattamente la mano alla signora che guardava imbarazzata. – La vedova di Francesco Ajala? Gran galantuomo, suo marito!
Il Torchiara sospirò, rialzandosi una seconda volta sul naso le lenti legate in grossi cerchietti d’oro. Vi fu un momento di silenzio, durante il quale la signora Agata frenò a stento le lagrime.
– Com’è vero, – riprese il Blandino, con gli occhi chiusi, le braccia conserte, – com’è vero che la nostra condotta è per gli altri giusta o ingiusta, non in virtù della sua natura intrinseca, ma in virtù d’ordini estrinseci… Come abbiamo giudicato noi Francesco Ajala? Lo abbiamo giudicato col vocabolario di cui comunemente ci serviamo parlando d’obblighi e di doveri, cioè senza penetrare affatto nel codice particolare prescritto a lui dalla sua stessa natura e redatto, per così dire, dalla sua educazione. Purtroppo così giudichiamo noi!
E si alzò.
– Te ne vai? – gli domandò il Torchiara.
Il Blandino non rispose: si mise a passeggiare per la stanza con le ciglia corrugate e gli occhi semichiusi, non intendendo affatto, nella sua distrazione, di quanto impaccio fosse alla signora la sua presenza e quanto sconveniente.
– Ella mi fa l’onore di questa visita per la sua figliuola, è vero, signora? – domandò piano il Torchiara, guardandola con aria di rassegnazione e di scusa per la presenza del Blandino, come se volesse dirle: «Pazienza! bisogna compatirlo: è fatto così…».
Al Torchiara però non rincresceva affatto la presenza del Blandino. Lo aveva anzi trattenuto apposta all’annunzio della visita, per far che questa non durasse troppo e non riuscisse soverchiamente penosa all’ottimo suo cuore, sensibilissimo. Gli toccava infatti di togliere le ultime speranze a quella povera madre… Ma era troppo presto, ecco, per una nomina, fosse pur temporanea, di semplice supplenza… Carriera difficile, difficilissima, quella dell’insegnamento! Bisognava attendere ancora un po’, ecco… Oh, l’avvenire sarebbe stato piano, ridente di belle promesse per la giovine maestra, senza dubbio! Come, come? La Breganze? Ah sì… E a questa interrogazione molto imbarazzante per l’ottimo suo cuore, il cavalier Torchiara si grattò il capo con un dito e si rialzò una terza volta sul naso le lenti. Sì, la Breganze, la nipote del consigliere Breganze, amico suo…
Nessuna inframmettenza, badiamo! Precedenza soltanto, questione di precedenza, ecco… Non di valore! Per quanto la Breganze, brava insegnante anch’essa, via… Ma egli sapeva bene che il valore della giovine maestra Ajala era incomparabilmente superiore… oh sì! oh sì!
A Luca Blandino, mentre passeggiava assorto nei suoi pensieri, con le mani congiunte dietro la schiena, giungevano alcune frasi a mezzo, che gli facevano corrugare vieppiù le ciglia, di tratto in tratto. Non intese nulla del penosissimo dialogo; notò solo l’espressione d’angoscioso smarrimento, di profonda disperazione sul volto della signora Ajala, quando si alzò e chinò il capo in segno di saluto.
– Auff! – sbuffò il Torchiara, dopo avere accompagnato la signora fino alla porta, rientrando in salotto. – Non ne posso più di questa maledetta faccenda! La compatisco, povera signora. Ma che posso farci io, se la figliuola… Tu m’intendi! Abbiamo la disgrazia di vivere in una piccola città, dove certe cose non si sanno perdonare, né dimenticare… Non posso mica mettermi, signor mio, contro tutto il paese, Orazio sol contro Beozia tutta!
– Di che si tratta? – domandò il Blandino.
– Miserie, caro, miserie! Della più tremenda: quella in abito nero! Di pane si tratta… Ma che posso farci, signore Iddio benedetto? Me n’affliggo, e basta.
E spiegò al Blandino le ragioni della visita della signora Ajala.
– Come? E tu l’hai mandata via così? – esclamò il Blandino, in risposta. – Ohi ohi ohi… m’hai tutto scombussolato… Come? Perdio! Ma qui bisogna agire, riparare… e subito!
Il Torchiara scoppiò a ridere.
– Dove vuoi andare adesso?
Il Blandino, tutto agitato, s’era messo a correre per la stanza.
– Il cappello… Dove ho lasciato il cappello?
– La testa! la testa! – esclamò il Torchiara, ridendo ancora.
– Cerca la testa piuttosto!
Lo afferrò per un braccio.
– Vedi? Poi ti dicono pazzo! Prima hai preso le parti del marito, nel duello; adesso vuoi difendere la moglie?
– Ma io non giudico come voi! – gli gridò Luca Blandino.
– Io giudico secondo i casi: non mi traccio, come voi, una linea: fin qui è male, fin qui è bene… Lasciami agire da pazzo! Vado a scrivere un letterone d’improperii a Gregorio Alvignani… Ah, lui, il grand’uomo, se ne deve uscire così, dopo aver gettato nell’ignominia e nella miseria un’intera famiglia? Ma sai che le lettere gliele buttava dalla finestra come un ragazzino? Ti saluto… ti saluto…
E il Blandino scappò via, tra le risa sforzate del cavalier Claudio Torchiara.
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