L’esclusa – Parte I – Capitolo 10 (con Audio)

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L esclusa - Parte I - Capitolo 10

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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi

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X.

            – Troppo, eh? – fece Antonio Pentàgora, col suo solito ghigno frigido rassegato su le labbra e negli occhi uno sguardo di commiserazione per Niccolino.

            – Vigliaccheria! – proruppe questi, furibondo. – Si vergogni! Tutto il paese è pieno dello scandalo di jeri. Bella prodezza!

            – E bravo Niccolino! – esclamò tranquillamente il padre. – Me ne congratulo davvero! Sentimenti nobili, generosi… Bravo! Tienteli ben radicati, figliuolo mio, e vedrai col tempo come ramificheranno…

            Niccolino scappò via fremendo, per non lasciarsi andare a qualche eccesso. Così pure era scappato via Rocco la sera avanti, dopo una lite violenta, durante la quale padre e figlio per poco non erano venuti alle mani.

            Rimasto solo, Antonio Pentàgora scosse più volte il capo lentamente e sospirò:

            – Poveri di spirito!

            E rimase a lungo a pensare, col faccione sanguigno, chino sul petto, gli occhi chiusi, le ciglia aggrottate.

            Sapeva, sapeva d’essere inviso a tutti, cominciando dagli stessi suoi figli. Mah!… E poi? Non era in suo potere portarci rimedio: doveva essere così, per forza. Per i Pentàgora, cui la sorte s’era divertita a bollare col marchio dei cervi, non c’era remissione. «Là! o esposti all’odio o al dileggio. Meglio all’odio. Era destino!»

            Tutti gli uomini, per lui, venivano al mondo con la parte assegnata. Sciocchezza il credere di poterla cambiare. Anch’egli, in gioventù, come adesso i figliuoli, lo aveva creduto per un momento possibile: aveva sperato, s’era lusingato: gli era parso d’aver nel cuore, come il povero Niccolino, sentimenti nobili, generosi: s’era affidato ad essi, dov’era giunto? Gira gira, alle corna. La parte era quella, doveva esser quella.

            S’era così fissato in questo suo modo di pensare, che se per caso qualcuno, spinto dal bisogno, veniva a chiedergli ajuto, egli, pur sentendosi talvolta inchinevole a cedere, già commosso, si frenava, sbuffava, poi apriva le labbra al solito ghigno e consigliava a quel povero diavolo di rivolgersi altrove: al tal dei tali, per esempio, buon filantropo del paese:

            – Va’ da lui, caro mio: è nato apposta per soccorrere la gente. Io no, vedi. A me, quest’ufficio non m’appartiene. Farei un’offesa a quel degno galantuomo che lo esercita da tant’anni e non può farne a meno. Io, di corna negozio.

            Era divenuto così cinico nel linguaggio, involontariamente. Diceva queste cose con la massima naturalezza. E derideva lui per primo la sua disgrazia coniugale, per prevenire gli altri e disarmarli. Si sentiva in società come sperduto in mezzo a un campo nemico. E quel suo ghigno era come il digrignare d’un cane inseguito, quando si volta. Per fortuna, era ricco: dunque, forte. Non aveva da temere. Tutta la gente, infatti, gli faceva largo: largo al vitello, anzi al bue d’oro!

            – Sciocchezze!

            Dopo il tradimento, per lui inevitabile, della nuora, si era rallegrato della sfacciata relazione di Rocco con quella donnetta galante:

            – Bravo Roccuccio! Mi piace. Ora sei a posto. Vedrai che a poco a poco… Fammi tastar la fronte…

            Ma no: quello scioccone non ci s’era sentito a suo agio, nel posto assegnatogli dalla sorte. Imbronciato sempre, sgarbato, di pessimo umore. Poi, all’improvviso, era accaduta la morte di Francesco Ajala, del Bau! Ebbene, e quell’animella squinternata s’era d’un subito sentita schiacciare dall’unanime compianto che quel pazzo furioso aveva raccolto in paese. Zitto zitto, per non dar più luogo a ciarle, s’era liberato dell’amante, e gli era ritornato in casa come un funerale.

            – E perché? L’hai forse ucciso tu Francesco Ajala?

            Non c’era stato verso, per lungo tempo, d’indurlo a uscir di casa, a divagarsi. Cavalli, cavalli da tiro e da sella: sei cavalli gli aveva comperati! Dopo quindici giorni non aveva più voluto saperne. – E allora, che altro? Un viaggetto di distrazione, in Italia o all’estero? – No: neppur questo! – Il giuoco, al circolo? – Novemila lire perdute in una sola sera. E gliele aveva pagate, senza neppur fiatare.

            Ebbene, che gli restava da fare? S’era presentata l’occasione della festa dei santi Patroni: a mali estremi, estremi rimedii: e aveva provocato lo scandalo della processione sotto i balconi di casa Ajala.

            Non se ne pentiva. Rocco era scappato via come una mala bestia, sparando calci, alla bollatura di fuoco. Sì: gliel’aveva data un po’ troppo forte, poverino. Ma ci voleva! Col tempo si sarebbe calmato e lo avrebbe ringraziato.

            «Senti, senti la pazza!», fece tra sé Antonio Pentàgora, riscotendosi al fitto bofonchio precipitoso della sorella Sidora, che s’aggirava smaniosamente per casa.

            Anche a lei, forse, era arrivata la notizia dello scandalo. Che ne pensava? Nessuno poteva saperlo, tranne il fuoco del camino, acceso d’estate e d’inverno, nel quale ella – diceva il Pentàgora – voleva incenerire tutte le corna della famiglia, e non ci riusciva.

            Per parecchi giorni Rocco non volle vedere, neppur da lontano, il padre. Niccolino gli teneva compagnia, gli offriva uno sfogo, da buon fratello.

            – Non bastava, non bastava averla scacciata? M’ero vendicato… Bastava! Ma no: le muore il padre, per giunta. Non dico che ci abbia avuto colpa io; ma certo in qualche modo vi ho pure contribuito; muore il bambino; anche lei è stata per morire; si rialza a stento dalla malattia; e lui, vigliacco, va a farle sotto gli occhi quella scenata infame! Perché insultarla ancora? Chi glien’aveva dato l’incarico? Vigliacco! Vigliacco!

            E si torceva le mani dalla rabbia.

            Intanto le notizie di giorno in giorno peggioravano. La concerìa, chiusa; Paolo Sistri, scappato (e la gente lo incolpava d’aver rubato dalla cassa quel che poi non c’era). La miseria, dunque, batteva alla porta delle tre povere donne abbandonate. Come avrebbero fatto? Sole, senza ajuto, mal viste da tutto il paese?

            E la notte a Rocco pareva di vedersi comparire davanti la figura gigantesca di Francesco Ajala in atto di scuotere le mani, pallido, gonfio in volto: «Rovini due case: la tua e la mia!». Vedeva tal’altra la suocera (fin dal primo giorno del fidanzamento tanto buona con lui) scarmigliata, disperata, e Marta piangente, con la faccia nascosta, e Maria quasi istupidita, che mormorava: «Chi ci ajuta? Chi ci ajuta?».

            Così Rocco, il giorno in cui seppe che la concerìa era messa all’incanto, facendosi violenza, si recò lui per primo dal padre a proporgli – cupo, senza guardarlo in faccia – di acquistarla per suo conto.

            – Tu sei pazzo! – gli rispose il Pentàgora. – Neanche se me l’aggiudicassero per tre bajocchi. Poi, guarda: fin qui t’ho lasciato fare: denari, adesso, me ne hai buttati via abbastanza. Non son rena! Anche la carità? Non è affar mio, lo sai. Nojaltri, di corna negoziamo.

            E lo lasciò in asso.

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L’esclusa – Indice

Introduzione

Parte prima
Capitolo 1Capitolo 2 Capitolo 3
Capitolo 4Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14

Parte seconda
Capitolo 1 – Capitolo 2 – Capitolo 3
Capitolo 4 – Capitolo 5 – Capitolo 6
Capitolo 7 – Capitolo 8 – Capitolo 9
Capitolo 10 – Capitolo 11 – Capitolo 12
Capitolo 13 – Capitolo 14 – Capitolo 15

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