In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso.
L’azione parlata.
dal «Marzocco» – 7 maggio 1899.
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso.
Intendo: il dialogo drammatico. Stimo opportuno richiamare alla mente dei lettori questa bella definizione non mia, considerando come quasi tutta la produzione drammatica contemporanea abbia fondo più che altro narrativo, tratti cioè argomenti più da novella o da romanzo, che da dramma; e male, necessariamente: prima, perché una favola d’indole narrativa, in generale, mal si lascia ridurre e adattare al congegno delle scene; poi, per il soverchio e, secondo me, malinteso rigore della tecnica moderna, vero letto di Procuste, la quale tutto quel congegno uniformemente restringe e ammiserisce. Tolse, è vero, anche lo Shakespeare l’argomento d’alcuni drammi da novelle italiane; ma qual drammaturgo mise in azione piú di lui, dal principio alla fine, una favola, nulla mai sacrificando alle esigenze sciocche d’una tecnica solo esteriormente rigorosa?
Ogni sostegno descrittivo o narrativo dovrebbe essere abolito su la scena. Ricordate la bella fantastica romanza di Enrico Heine su Jaufré Rudel e Melisenda? «Nel castello di Blaye tutte le notti si sente un tremolio, uno scricchiolio, un sussurro: le figure degli arazzi cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore e la dama scuotono le addormentate membra di fantasmi, scendono dal muro e passeggiano su e giù per la sala.»
Ebbene, lo stesso prodigio operato dal raggio di luna nel vecchio castello disabitato, il poeta drammatico dovrebbe operaie.
E non l’avevan già operato i sommi tragici greci spirando, Eschilo sopra tutti, una possente anima lirica nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica? E le figure s’eran mosse parlando. Dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico il signor di Blaia e la contessa di Tripoli.
Ora questo prodigio può avvenire a un solo patto: che si trovi cioè la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione: parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole.
Parlando del dialogo drammatico io non faccio questione dunque della forma esteriore, la quale nei nostri scrittori di teatro è difettosissima a cagione d’un difetto intrinseco dell’opera loro. Essi vedono in prima un dato fatto (quando lo vedono), una data situazione; hanno o credono di avere una certa osservazione che stimano originale su un dato sentimento o caso della vita, e pensano di trarne un dramma, come una conclusione costruita al pari d’un ragionamento, con un’addizione d’elementi esteriori, di cui studiano i rapporti, e innestano e combinano. Concepito il fatto, pensano ai personaggi, cercano i più idonei a dimostrarlo: saran tre o cinque o dieci; e tra loro distribuiscon le parti, a chi più, a chi meno, tenendo talvolta anche presente l’attore che dovrà poi rappresentare quella data parte e lasciandosi infelicemente ispirare e suggerire dalle virtuosità di esso, secondo i ruoli.
Così si fa. E nessuno pensa, o vuol pensare, che dovrebbe farsi proprio al contrario; che l’arte è la vita e non un ragionamento; che partire da un’idea astratta o suggerita da un fatto o da una considerazione più o meno filosofica, e poi dedurne, mediante il freddo ragionamento e lo studio, le immagini che le possano servir da simbolo, è la morte stessa dell’arte. Non il dramma fa le persone; ma queste il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma; ché in ogni germe già freme l’essere vivente, e nella ghianda c’è la quercia con tutti i suoi rami.
Quando noi diciamo stile drammatico, intendiamo comunemente uno stile rapido, vivace, incisivo, appassionato; ma, parlando in ispecie dell’arte del teatro, il senso di questa parola stile dovremmo estenderlo molto, anzi forse intendere altrimenti la parola. Giacché lo stile, l’intima personalità di uno scrittore drammatico non dovrebbe affatto apparire nel dialogo, nel linguaggio delle persone del dramma, bensì nello spirito della favola, nell’architettura di essa, nella condotta, nei mezzi di cui egli si sia valso per lo svolgimento. Che se egli ha creato veramente caratteri, se ha messo su la scena uomini e non manichini, ciascuno di essi avrà un particolar modo d’esprimersi, per cui, alla lettura, un lavoro drammatico dovrebbe risultare come scritto da tanti e non dal suo autore, come composto, per questa parte, dai singoli personaggi, nel fuoco dell’azione, e non dal suo autore.
Ora debbo dire che di questo mi par che difetti principalmente finora l’opera drammatica di Gabriele d’Annunzio. Quest’opera cioè appar fatta troppo dal suo autore ‑ e per nulla o ben poco nata dalle persone stesse del dramma: cosa scritta e non viva. L’autore (non so se gli amici miei del Marzocco consentano in questo meco) evidentemente non ha saputo rinunciare al suo stile, al suo modo di esprimersi; non è ancor riuscito a dare a ciascuno de’ suoi personaggi una propria individualità, indipendente dalla sua.
Si badi però: io non consento affatto con quei pochi, che da noi si posson chiamare i professionisti di teatro, i quali hanno accolto l’opera del D’Annunzio quasi con un senso di rispettoso compatimento, come il capriccio d’uno scrittore ammiratissimo in altro campo, ma qui fuor di posto, perché «senza pratica degli attrezzi del mestiere»; opera da libro, insomma, e non propriamente da teatro ‑ e questo si badi, non tanto per il congegno scenico, quanto per il modo con cui essa è scritta.
Il teatro infatti per costoro non è arte, ma quasi mestiere, né il dramma par che sia considerato da loro come opera letteraria. La sciatteria del così detto stile conversativo alla francese: ecco la stoffa che essi tagliuzzano nei loro dialoghi, qui appuntando il chicco vitreo d’una facezia raccolta in qualche salottino o per istrada, li la sgualcita trina d’una tirata curialesca. E anche qui tutti i personaggi parlano sciaguratamente allo stesso modo, senza alcun proprio stile. Che se il D’Annunzio ne’ drammi suoi finora, secondo me, scrive bello, anziché bene, costoro scrivono brutto, e però malissimo.
E sarà sempre così, finché non si intenda sul serio che ogni azione e ogni idea racchiusa in essa, perché appariscano in atto, vive e spiranti innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui, per usare una frase hegeliana, si mostrino come pathos motore: bisogno insomma di caratteri. Ora il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà asservito, soggetto alla intenzione e ai modi dell’artista, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato, quanto meno si mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità. Poiché i varii e complessi elementi in un carattere debbono esser fusi in un determinato argomento, imperniati in una situazione, trovando l’espressione in una fisonomia essenziale che campeggi per tutto e spinga a determinate azioni.
In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso. Ora, fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che l’artista deve superare.
Ma quanti oggi sanno superarla?
Luigi Pirandello
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